“Era Obama” di Mario Del Pero. Qual è il lascito del Presidente?
- 03 Maggio 2017

“Era Obama” di Mario Del Pero. Qual è il lascito del Presidente?

Recensione a: Mario Del Pero, Era Obama. Dalla speranza del cambiamento all’elezione di Trump, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 225, 18 euro (scheda libro)

Scritto da Alberto Prina Cerai

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Uno dei topoi più seducenti nell’immaginario e nella narrazione «eccezionalista» è l’assunto secondo cui negli Stati Uniti l’ordinario incontri lo straordinario ogni giorno. Una visione che lo scorso 8 Novembre, all’osservatore più inesperto, poteva sembrare piuttosto grottesca: in seguito ad una delle campagne presidenziali più sconcertanti nella storia americana, l’elezione di Donald Trump ha ribadito sonoramente la crisi patologica che attraversa la politica statunitense. Una discontinuità così netta quella tra Obama e il suo successore, “tra la globalità cosmopolita e multirazziale incarnata e proiettata dal primo e l’insularismo scopertamente bianco e nazionalista del secondo” (p. 9), che comunque va contestualizzata: la retorica populista e xenofoba fatta propria dal tycoon newyorkese durante la campagna elettorale ha palesato quelle crepe che da tempo si erano intagliate nel tessuto socio-politico americano.

Ed è proprio a partire da questa drammatica realtà, dall’epilogo inaspettato di questi otto anni che Mario Del Pero ricostruisce magistralmente contraddizioni e complessità che hanno accompagnato l’avventura politica dell’amministrazione democratica. Una crisi di lungo periodo a cui, paradossalmente, aveva finito per contribuire inconsciamente il primo presidente afroamericano, colui che nel 2008 era stato acclamato come l’uomo in grado di imprimere una svolta in uno dei momenti più critici nella storia americana. Padre di famiglia, giurista affermato, protestante dalle origini e «radici globali», l’uomo che l’America dai mille volti e delle mille speranze aveva scelto come suo supremo leader era Barack Hussein Obama.

Nel primo capitolo l’autore riflette sulla portata simbolica di una figura in parte estranea alla leadership politica americana e sull’impatto che la sua immagine e il suo discorso politico ebbero nelle elezioni – per certi versi straordinarie – del 2008 e sulle iniziative del primo biennio. Fiero della sua «nerezza cosmopolita», frutto di una biografia esemplare, Obama rispecchiava la dinamicità etnico-demografica del paese – con le minoranze sempre più incalzanti negli equilibri della polity americana – e finì per introiettare e sfruttare elettoralmente – mai in forma sfacciatamente propagandistica e pubblica – il suo «essere nero» per la sua proposta politica; un’America più composita e multiforme, stanca della precedente grettezza neoconservatrice, era pronta a cucirsi nuovamente un vestito più liberal e a confrontarsi con tematiche sociali ed etiche – i matrimoni omosessuali e l’immigrazione – che prontamente furono intercettati da Obama e dal partito democratico. Ma la vittoria non fu così assoluta – tanto da poter parlare di «riallineamento elettorale» – poiché contribuirono in misura rilevante alcuni fattori, esogeni ed endogeni, che sfuggivano a qualunque previsione o programmazione definitiva: la recessione economica in seguito alla crisi finanziaria, l’eredità dei due mandati – tragici per la leadership e la reputazione statunitense nel mondo – di George W. Bush e il consolidamento di una polarizzazione partitica entro la quale si era insinuato un sempre meno velato populismo antipolitico. Fu su questi quattro elementi che Obama fu costretto a confrontarsi, rivelandosi in seguito come cornice entro la quale si sarebbe verificato lo iato tra le promesse e le aspettative, tra il capitale simbolico e il capitale politico del presidente: “Questo scarto tra il lirismo del discorso di Obama e il cauto realismo della sua azione politica […] avrebbe mostrato tutti i limiti del cambiamento e della rottura avvenuti con l’elezione del 2008” (p. 33). La crisi finanziaria finì, ingiustamente, per essere etichettata come la “crisi di Obama”, la cui risposta avrebbe determinato in larga parte il giudizio sull’amministrazione. Giunta con venti sempre più minacciosi, ma di fatto imprevedibili, aveva colpito – e si era propagata – proprio a partire dal pilastro della politica economica neoliberista di Bush, incentrata sul primato della ownership society e del modello immobiliare. L’eccessiva deregolamentazione dei movimenti di capitale e la bolla speculativa, che man mano crebbe, furono fatali. La proposta di Obama e della sua schiera di consiglieri – provenienti in gran parte da quel mondo finanziario tanto osteggiato dall’opinione pubblica – si articolò intorno a tre progetti, gli ultimi due i più ambiziosi e per conto dei quali si cercò di cogliere, nella funesta crisi, opportunità di riforma concrete: il salvataggio del mondo bancario, un piano ciclopico di investimenti pubblici (l’Arra, American Recovery and Reinvestment Act) e la riforma del sistema sanitario (meglio nota come “Obamacare”). Su tutti e tre si concentrarono severe critiche, perlopiù provenienti dall’opposizione repubblicana, che accusava l’inaccettabile aumento del debito pubblico e l’intrusione del big government nella gestione delle prerogative individuali; in un contesto altamente polarizzato ed ostile, con una popolarità progressivamente scemata a causa della collusione dell’amministrazione con Wall Street, con il Congresso paralizzato dall’ostruzionismo, Obama era di fatto messo in un angolo e sulla difensiva.

Il secondo capitolo si proietta nell’analisi del contesto geopolitico internazionale, grazie al quale Barack Obama poté lanciarsi verso la sua ascesa alla presidenza come punto di rottura rispetto al passato. Anche in questo campo le aspettative dell’opinione pubblica interna ed internazionale erano altissime e le promesse in campagna elettorale, in un discorso fatto di un’alchimia tra idealismo e pragmatismo, subirono distorsioni inevitabili rispetto alla complessità dello scenario globale. L’unilateralismo neoconservatore, profondamente ideologizzato e irrazionale, aveva indebolito la credibilità e la leadership americana; la cura da proporre non poteva che essere incentrata sul ripristino del soft power nelle sue varie declinazioni. Moltissime sono state, in questo senso, le discussioni sull’esistenza di una coerente “dottrina Obama” comunque delineata dall’autore intorno a tre «pilastri» fondamentali: la refrattarietà nell’utilizzo dello strumento militare, la consapevolezza nel cambiamento delle priorità – e delle opportunità – nello scacchiere geopolitico e un nuovo «discorso di politica estera». In concreto significava dare importanza al body bad factor, ovvero alla progressiva riluttanza dell’opinione pubblica a voler sacrificare le vite dei propri patrioti e ad impegnarsi in guerre sempre più percepite come inutili e dispendiose. Fu anche per questo, oltre a ben più rilevanti aspetti politico-strategici, che l’amministrazione democratica spinse verso un graduale disimpegno dal Medio Oriente, in modo da incentivare alleati atlantici e locali a prendersi responsabilità troppe volte schivate e, contemporaneamente, all’introduzione dei droni per surrogare la demilitarizzazione della regione laddove – in Afghanistan e in altri teatri operativi – si sentiva l’obbligo di stanare e colpire con fermezza, precisione e segretezza i restanti network terroristici di Al-Qaeda. Il massimo risultato con il minimo sforzo, frutto tanto della supremazia tecnologica statunitense quanto della volontà di concentrare l’attenzione e le risorse verso le nuove sfide che giungevano dall’Estremo Oriente: il pivot to Asia “costituiva, nelle intenzioni [di Obama], una strategia pacifico-centrica” volta a dare risalto in primo luogo alle “interdipendenze più profonde […] proprio sull’asse Washington-Pechino” (p. 69); il tutto condito da una rinnovata fiducia nell’internazionalismo liberale ed umanitario, nella necessità di una gestione multilaterale per riaffermare gli Stati Uniti come la principale garanzia di stabilità del sistema, attraverso retoriche concilianti e di apertura. Una visione comunque fortemente ancorata al tema dell’eccezionalità e della indispensabilità del loro ruolo trainante con la figura di Obama, estremamente popolare, che avrebbe diminuito il diffuso antiamericanismo: “Particolarismo geopolitico e universalismo cosmopolita informarono e qualificarono le pratiche discorsive della politica estera obamiana […] Ed è su queste scelte – sulla capacità di sostanziare la retorica con i fatti […] che si sarebbero subito manifestati dilemmi e contraddizioni” (pp. 74-75). Dalla mancata chiusura del carcere di Guantánamo, al regime change fallito in Libia fino alle crisi siriana ed ucraina emergono alcuni dati inequivocabili: la fin troppa moderazione del presidente e il suo estremo pragmatismo in molte circostanze lo hanno condannato ad un crescente scetticismo dell’opinione pubblica, per il deteriorarsi incontrollato degli avvenimenti ai quali gli Stati Uniti dettero l’impressione di assistervi senza avere il controllo della situazione. Paradossalmente, pur nella volontà di sottrarsi al caos mediorientale, Obama finì per esserne coinvolto e responsabilizzato per il suo, in taluni casi, indietreggiamento di fronte alla comunità internazionale e tradito dall’inadeguatezza e dall’inaffidabilità dei partner europei, con i quali il rapporto non fu quasi mai idilliaco. Anche le relazioni d’interdipendenza con la Cina, tra le contraddizioni e le divergenze nel rapporto economico dei due colossi e le esigenze di security più stringenti per l’establishment cinese nel Mar Cinese Meridionale, dopo “otto anni di presidenza Obama […] si sono, se possibile, intensificate, laddove i vettori di competizione sono divenuti ancor più intensi” (p. 102).

Nella terza sezione si analizzano le tre grandi sfide elettorali – le elezioni di midterm del 2010 e 2014 e nel mezzo la rielezione del 2012 – che hanno cristallizzato una posizione sempre più difficile rispetto al Congresso. L’opposizione repubblicana divenne ostaggio di un populismo di destra galoppante, mobilitatasi intorno al Tea Party Movement; tanto causa quanto conseguenza di una polarizzazione sempre più inconciliabile con l’approccio bipartisan del presidente, non era che un coerente prodotto di quelle fratture culturali e politiche che ormai avevano allargato la forbice tra repubblicani e democratici, liberal e conservatori. L’attacco frontale al presidente e alla sua “persona” – gli stereotipi che lo accusavano di essere musulmano e di non possedere la cittadinanza americana – si unì all’invettiva contro il presunto statalismo tecnocratico dell’amministrazione: in una situazione già elettrizzata il risultato non poté che essere la perdita dei democratici della Camera nel 2010. Non poteva esserci situazione peggiore – quella di «governo diviso» – per affrontare un’altra spinosa questione: l’aumento del tetto del debito federale, che necessitava l’approvazione del Congresso. Dopo un’estenuante trattativa, con il rischio di default dietro l’angolo, l’accordo fu trovato nell’agosto del 2011: Obama avrebbe guadagnato sì capitale politico, ma l’approccio mediatore e la debolezza di fronte ad un passaggio procedurale – strumentalizzato dai repubblicani per indebolire il presidente – rivelò l’incapacità di agire con fermezza e di sfruttare i poteri conferitigli dalla Costituzione. Questo clima contornò anche la rielezione del 2012, con una maggioranza meno netta ma comunque ricalcante le percentuali e la distribuzione etnico-geografica di quattro anni prima; ciò che allarmava erano piuttosto l’incipiente disaffezione giovanile – sintomo di una disillusione nei suoi confronti e nella politica tout court – e la crescente antipatia della white middle class. Dall’entusiasmo contagioso del 2008 si era passati ad un cauto realismo che avrebbe plasmato la politica di Obama su tre temi caldi: controllo delle armi, immigrazione e tensioni razziali. Tre questioni intrecciate e rivelatrici di quanto “l’America obamiana non solo non era “postrazziale”, ma assisteva quasi impotente a una rinnovata razzializzazione dei suoi cleavages politici […] un razzismo bianco che pochi leader repubblicani avrebbero fronteggiato con la dovuta fermezza.” (p. 134). Di fronte ad una ripresa economica zoppicante, all’ascesa dell’Isis e alle rinnovate tensioni con la Russia di Putin l’impopolarità di Obama si tradusse in un vero e proprio referendum sull’amministrazione: le elezioni di medio termine del 2014 calarono la scure sulla coalizione democratica, la quale ne uscì sì sconfitta, ma con un Obama più spregiudicato e pronto a raccogliere nell’ultimo biennio importanti successi.

La cifra interpretativa di questo periodo è proprio, secondo l’autore, l’acquisita consapevolezza e padronanza del presidente nell’utilizzo di quegli strumenti presidenziali utili nell’aggiramento dell’iter legislativo e nell’indirizzare l’esecutivo. Affinati in primis nella battaglia sull’immigrazione, con una retorica meno reticente e più vigorosa – contro la quale la reazione repubblicana fu più violenta che mai – Obama seppe sfruttarli con abilità per perseguire grandi obiettivi in politica estera, uscendo così dalla paralisi politica e parlamentare degli anni precedenti. La visita a Cuba del presidente – tra l’altro accompagnato da una delegazione bipartisan – nel marzo del 2016 fu l’ufficializzazione di una svolta davvero storica: dopo decenni di totale isolamento diplomatico dell’isola e congelamento dei rapporti tra i due paesi, il riavvicinamento (in seguito a trattative segrete condotte dall’amministrazione, poi annunciate pubblicamente verso la fine del 2014) aveva riflessi simbolici e geopolitici di portata rivoluzionaria, soprattutto nel consolidare le ristabilite relazioni interamericane. Non meno eclatante fu l’accordo sul programma nucleare iraniano, ottenuto grazie ad un executive agreement: Teheran rappresentava una delle principali minacce nell’agenda di sicurezza nazionale nella visione neoconservatrice, con Obama divenne il pilastro di una possibile ricomposizione degli equilibri geopolitici della regione – a dispetto delle alleanze tradizionali, Israele, Egitto e Arabia Saudita, acerrimi nemici del regime sciita, e del filibustering repubblicano. Terzo ed ultimo trionfo, l’accordo sul clima di Parigi, rifletteva l’encomiabile impegno ambientale di Obama, attento ad una questione globale quanto alla necessità di riconvertire l’economia energetica del paese verso prospettive – e naturalmente opportunità di crescita – più green e al passo con i tempi. Una svolta, quella di Obama, che consentiva “di rimettere Washington al centro della scena” e “il rilancio di un’azione cooperativa e multilaterale” (p. 161).

Chi era Obama? Una descrizione agrodolce quella che si può intravedere scorrendo le pagine di questo libro, di uno stimato storico e americanista che con notevole onestà e capacità interpretativa ammette la grandissima assuefazione e fascinazione seguita all’elezione del 2008 e che, filtrata con sguardo critico nel corso di questi anni, si è lentamente assopita, per l’inevitabile e l’ineludibile confronto con la realtà della società americana e del contesto globale. Quale è il lascito di Obama? Nel complesso, il bilancio che offre Mario Del Pero è chiaro: «Obama non poteva non deludere». Grandi traguardi, sfide globali, retaggi pesanti da gestire in un contesto polarizzato e difficile non giustificano alcune mancanze evidenti della presidenza Obama, spesso ingessata nel suo approccio moderato e nell’utopico tentativo di includere fazioni così distanti. Mai un presidente fu più ostaggio del suo modo di essere e di porsi, costantemente in tensione tra un’America che voleva cambiare e un’America che lo scherniva, agente e vittima di una trasformazione epocale incarnata nella sua unicità che ha finito per logorare il suo capitale politico, simbolico e radicalizzare ancor più una società fortemente diseguale e polarizzata. La storia comunque sarà giudice nel rivalutare o meno l’impatto di un’icona globale quale è stata la figura di Obama, nel segnare un’epoca forse già tramontata con l’ascesa di Donald Trump. Gli Stati Uniti, che si voglia o meno, rappresentano la cifra della modernità occidentale. Leggere la parabola politica americana in questi otto anni significa, in qualche modo, riflettere sullo status e sul presente sempre più incerto della democrazia.

Scritto da
Alberto Prina Cerai

Dopo le lauree all’Università di Torino e all’Università di Bologna, ha svolto un periodo di ricerca presso il King’s College di Londra. Ha completato in seguito un Corso Executive in Affari Strategici presso la LUISS School of Government, una PhD Summer School con Politecnico di Milano-EIT Raw Materials su materiali critici ed economia circolare e un Master con la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI). Attualmente collabora con Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e LUISS University Press, oltre a svolgere attività di consulenza e analisi.

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