Recensione a: Gustavo Gozzi, Eredità coloniale e costruzione dell’Europa. Una questione irrisolta: il «rimosso» della coscienza europea, il Mulino, Bologna 2021, pp. 304, 23 euro (scheda libro)
Scritto da Federico Perini
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Per studiare la storia dell’integrazione europea gli European Studies ricorrono ad una metodologia definita «analisi multilivello». Essa consiste nell’approcciare tale fenomeno da più direzioni, al fine di renderne tutta la complessità. Ciò che si propone di creare è una trama fitta ma trasparente, in cui discipline quali il diritto, la sociologia, la filosofia, l’antropologia, l’economia, la psicologia, collaborano per approfondire, ognuna secondo il proprio campo d’indagine, tutti quegli aspetti solo apparentemente eterogenei che concorsero, durante il Novecento, alla genesi dell’Europa unita.
Tra di essi vi fu il colonialismo, il cui ruolo durante il processo di integrazione continua ad essere oggetto di studio fin dall’inizio degli anni Duemila. È, infatti, sulla scia di lavori come quelli di Bruna Bagnato[1] e di Giuliano Garavini[2] che è possibile inserire il volume di Gustavo Gozzi, il quale riesce ad intrecciare una narrazione in cui aspetti di storia delle idee, storia sociale, politica ed economica, completano efficacemente un solido nucleo di storia del diritto.
L’approccio metodologico fornito da quest’ultima disciplina risulta infatti indispensabile per comprendere come gli Stati europei attuarono una dominazione che pretendeva di trasformarsi, traducendo le prassi giuridiche occidentali nei termini della legislazione indigena, in una vera e propria egemonia capace di “acculturare” e di “civilizzare” intere società africane. Per studiare simili dinamiche, che influenzarono il processo d’integrazione europeo dagli anni Cinquanta in poi, Gozzi procede per gradi, confrontandosi costantemente con le fonti e con una attenta bibliografia di riferimento.
Innanzitutto, egli offre al lettore una panoramica sul rapporto tra diritto internazionale e diritto coloniale, illustrando come il secondo, seppur con molte contraddizioni, sia stato legittimato dal primo. Ad essere approfonditi, scandagliando il pensiero di autori classici del diritto internazionale, sono in particolare i concetti di “proprietà” e di “sovranità”, il cui significato è studiato in relazione al positivismo giuridico ottocentesco e al loro uso durante il colonialismo. Un quadro complesso, il cui obiettivo è sottolineare come gli Europei abbiano governato il «confronto coloniale» mettendo l’antropologia e la filosofia politica a servizio dell’imperialismo.
In particolare, Gozzi osserva come il ragionamento antropologico non abbia agito solo verso l’Africa, cioè definendo la «personalità dei nativi» sulla base delle differenze rispetto alla civiltà occidentale, ma anche come esso abbia influenzato la percezione che l’Europa ebbe di se stessa, elevandosi al rango di modello di progresso per l’intera umanità. Un meccanismo, questo, che in alcuni contesti ha indotto le potenze coloniali a riconoscere la sovranità territoriale degli indigeni al «solo» scopo di «confermare la [loro] condizione di assoggettamento» (p. 26).
Per l’autore, anche il ragionamento attuato dalla filosofia politica ha seguito le stesse direttrici. Infatti, per giustificare ai nativi la presenza europea e per giustificare all’Europa delle rivoluzioni borghesi l’assoggettamento dei nativi, egli osserva come il colonialismo venne interpretato nel tardo Ottocento quale autentico fenomeno liberale. In altre parole, come un processo avente l’obiettivo di far raggiungere alle popolazioni d’oltremare la forma più avanzata di indipendenza: quella scaturita dai processi rivoluzionari europei, fondata sulla tutela della libertà personale, sulla valorizzazione della democrazia e sul rispetto di un diritto codificato. Tradotto in prassi politica, ciò significava che gli indigeni avrebbero potuto raggiungere tale forma di «indipendenza» solo in seguito all’«azione costruttiva» civilizzatrice esercitata dal «potere esterno» occidentale, ovvero successivamente ad un periodo di «dipendenza» coloniale (p. 28).
Ampliando la questione, osservando cioè come le potenze europee abbiano fondato il possesso del proprio oltremare sulla validità dei trattati stipulati con le popolazioni indigene, è possibile comprendere come la loro ineguaglianza facesse emergere incrinature morali e giuridiche. Se si consideravano infatti le popolazioni africane come ancora “non civilizzate”, dunque passibili di una ammissione nel seno della «comunità internazionale» soltanto attraverso un «riconoscimento politico parziale […] oppure naturale», che «validità» riconoscere ai trattati con cui gli Stati europei prendevano possesso dei territori oltremare? Un interrogativo questo, la cui risposta viene fatta ruotare attorno ad una analisi della «missione civilizzatrice» occidentale, così come venne intesa dalla Francia (p. 23).
Infatti, per indagare come simili questioni vennero tradotte in prassi politica, Gozzi sceglie di focalizzare la trattazione sul colonialismo che più di tutti ha influenzato, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, il processo di integrazione europea, ossia quello francese. La matassa del colonialismo francese viene dipanata dall’autore, a mo’ di filo conduttore del lavoro, attraverso lo studio di tutte quelle dinamiche che concorsero alla sua nascita, sviluppo, riforma e conclusione.
Data la vastità del tema, Gozzi seleziona alcuni casi di studio. Infatti, mentre approfondisce il colonialismo italiano[3], sottolineandone con riferimento all’opera del giurista Umberto Borsi il carattere spiccatamente razzista, nonché la «brutalità dell’occupazione» (p. 51), fornisce una panoramica del processo di codificazione in Tunisia, per poi concentrarsi sull’Algeria. Possedimento francese dal 1830 al 1962, l’Algeria è stata un vero e proprio «laboratorio del colonialismo». Stretta, infatti, tra il «mito dell’assimilazione» e la «pratica delle legislazioni speciali» (p. 55), tale realtà ha sperimentato le conseguenze di ciascun cambio di paradigma coloniale avvenuto in Francia durante l’età contemporanea. Dall’assimilazionismo all’associazionismo, dai tentativi di stabilire un droit musulman algérien al «razzismo di Stato» (p. 77) sancito dal Code de l’indigénat, l’Algeria viene studiata anche quale contesto in cui è possibile indagare i legami tra nazionalismo e colonialismo. In tal senso, vengono presentate al lettore figure chiave dell’indipendentismo, tra cui Messali Hadj, Ferhat Abbas e Ben Badis.
Inoltre, con un lessico chiaro e diretto, vengono brillantemente studiate le dinamiche che indussero i governi della Quarta Repubblica ad attuare l’idea neocoloniale dell’Eurafrica francese. Uno dei meriti del volume di Gozzi è infatti quello di introdurre nel dibattito storiografico italiano un tema fino ad ora analizzato solo sporadicamente. Coniato durante gli anni Trenta nell’alveo del paneuropeismo entre-deux-guerres, il termine Eurafrica sottintende, nella sua declinazione francese, una presunta complementarietà economica tra i continenti europeo e africano. Negli anni Cinquanta, per chi aderiva all’ideale dell’Eurafrica, ciò significava sostenere come l’Europa avrebbe potuto trovare le energie necessarie a proseguire il suo processo di integrazione solo se avesse finalmente adempiuto in modo compatto e unitario alla sua più importante e annosa missione: la civilizzazione del continente africano. Per far ciò, sarebbe occorso presentarsi ai popoli d’oltremare spogli del sentimento che più di tutti veniva considerato alla base delle dinamiche imperialiste ottocentesche: il nazionalismo. In altre parole, l’Eurafrica risultava così essere sia uno strumento per fare l’Europa unita, sia la prima grande prova che essa avrebbe dovuto superare per presentarsi quale terza forza della Guerra fredda. Da un punto di vista pratico, ciò significava sostenere la necessità di associare i Territori d’Oltremare (TOM) al nascente mercato comune, così da poter intraprendere un percorso comunitario di sviluppo economico africano. Tuttavia, secondo Gozzi, tale progetto non costituì altro che un tentativo di reazione rispetto alle inarrestabili dinamiche della decolonizzazione, alle quali esso prometteva di rimediare sostituendo lo scontro fanoniano tra colonizzato e colonizzatore con un intervento riformista ad hoc.
Fallito nei primi anni Sessanta a causa dello straordinario sussulto de-coloniale del continente africano, il progetto dell’Eurafrica lasciò il passo alla controversa formula della Françafrique, la quale auspicava una riforma dell’Union Française verso una communauté che attraverso l’adozione di una moneta ufficiale (il franco CFA) avrebbe dovuto proteggere lo sviluppo economico interno a fronte della concorrenza estera. Ricorrendo ad una ampia bibliografia sul tema, tra cui il volume di Fanny Pigeaud e Ndongo Samba Sylla[4], Gozzi osserva come l’impianto della Comunità Franco-Africana abbia contribuito a relegare gli Stati africani che ne fanno tuttora parte in un difficile stato di «sviluppo condizionato» (p. 227). Infatti, a causa del cambio fisso che intercorre tra il franco CFA e l’euro, tali realtà non riescono ad avere gli strumenti economici e finanziari necessari ad ammortizzare gli effetti di shock esogeni quali, ad esempio, la crisi petrolifera dei primi anni Settanta o il Covid-19. L’unica soluzione che gli Stati africani avrebbero a disposizione sarebbe la svalutazione interna della moneta: una misura che ha avuto più volte come unica conseguenza la «riduzione dei redditi da lavoro e delle spese pubbliche» (p. 228). Infine, sottolinea Gozzi, un tasso di cambio fisso risulterebbe deleterio anche sul fronte dell’export verso l’Europa. Infatti, la caratteristica che più di tutte dovrebbe ancorare in maniera indissolubile le due economie continentali fungerebbe in realtà da catalizzatore di disuguaglianze, poiché, nel caso in cui l’euro andasse incontro ad un apprezzamento, il franco CFA[5] aumenterebbe proporzionalmente il proprio valore, rendendo i prodotti africani molto più costosi rispetto a quelli importati da aree del globo dove i costi di produzione sono minori.
Analizzando dal punto di vista sia economico che politico le convenzioni con cui la CEE ha stabilito tariffe commerciali preferenziali con i paesi africani – Yaoundé (1963), Lomé I (1975), Lomé II (1980), Lomé III (1985), Lomé IV (1990), Cotonou (2000) –, l’autore arriva alle soglie del 2020, quando, in febbraio, l’Unione Africana (UA) e l’Unione Europea (UE) si sono incontrate per istituire una partnership allo scopo di procedere congiuntamente verso obiettivi fondamentali quali la transizione digitale e lo sviluppo sostenibile. Solo il tempo potrà dire se questo si rivelerà un primo passo verso il definitivo superamento dell’ottica eurocentrica, andando ad intervenire sui reali bisogni delle popolazioni africane; per Gozzi, invece, il «tempo dell’Africa non è ancora arrivato» (p. 278).
Scritte allo scopo di attualizzare le questioni analizzate nel corso del volume, le ultime pagine riescono efficacemente a spiegare perché sia di fondamentale importanza approfondire il rapporto tra colonialismo e processo di integrazione europea. Dal 2000 al 2008 infatti, seguendo l’indirizzo sancito nel 1995 dalla World Trade Organization, l’Unione Europea ha gradualmente abolito il sistema delle tariffe preferenziali sancito dai Trattati di Roma (1957), promuovendo periodicamente degli incontri bilaterali tra UE ed UA che hanno portato, tra le altre cose, alla istituzione nel 2007 della Joint Africa-EU Strategy[6] (JAES): un piano di riforma dei rapporti transcontinentali, il cui obiettivo è sostituire alla «ricetta delle donazioni» politiche di sviluppo destinate a favorire la modernizzazione africana. Fatta propria dalla Commissione Juncker e, in misura ancora maggiore, dalla attuale Commissione von der Leyen, tale prospettiva auspica di intrecciarsi ai punti programmatici del Green New Deal e del Next Generation EU, riconoscendo nel continente africano una realtà dinamica, capace di perseguire, come testimoniato dall’entrata in vigore il 1° gennaio 2021 dell’African Continental Free Trade Area (AfCFTA), un lento, ma concreto processo di integrazione regional-continentale.
In conclusione, il volume di Gustavo Gozzi si configura come una lettura necessaria per quanti vogliano comprendere le dinamiche storico-culturali sulle quali si fonda l’attuale dialogo transcontinentale. Un dialogo che non può prescindere, anzitutto, da un riconoscimento chiaro e inequivocabile da parte dell’Europa del proprio passato coloniale: non più un «rimosso» collettivo, né un pericoloso tabù, ma un sincero e critico mea culpa su cui fondare soluzioni nuove a problematiche sia inedite (ad esempio l’approvvigionamento del grano in seguito allo scoppio del conflitto russo-ucraino), sia di lunga data (si pensi alla questione migratoria). Elaborare una nuova coscienza euro-africana, fondata sulla promozione della pace mondiale e sul rispetto reciproco tra i popoli, significa liberarsi una volta per tutte di quell’orgoglioso eurocentrismo che ha in più occasioni frenato, nella seconda metà del Novecento, ogni percorso modernizzatore intrapreso dalle realtà africane. Tutto ciò, se nelle istituzioni europee inizia ad essere compreso, nelle società civili degli Stati membri fatica ad affermarsi. Ecco quindi svelato il target a cui il volume fa riferimento: quello del cittadino interessato a comprendere in modo critico e informato quale sia il legame che oggi intercorre tra Africa ed Europa, nella speranza che nasca “dal basso” – e non solo “dall’alto” – un dialogo pubblico in grado di migliorare una società europea ancora profondamente legata ad una mentalità che tende ad accettare più volentieri il profugo “bianco” rispetto a quello “nero”, anche quando entrambi scappano dallo stesso conflitto.
[1] Bruna Bagnato, L’Europa e il mondo. Origini, sviluppo e crisi dell’imperialismo coloniale, Le Monnier / Mondadori Education, Firenze 2006.
[2] Giuliano Garavini, Dopo gli imperi. L’integrazione europea nello scontro Nord-Sud, Le Monnier / Mondadori Education, Firenze 2009.
[3] Per una panoramica di simili processi entro il contesto della “fine del colonialismo italiano” si rimanda alla recensione, a cura di scrive a: “La fine del colonialismo italiano” a cura di Antonio M. Morone.
[4] Fanny Pigeaud e Ndongo Samba Sylla, L’arme invisible de la Françafrique. Une histoire du Franc CFA, La Découverte, Parigi 2018. Traduzione italiana: L’arma segreta della Francia in Africa. Una storia del franco CFA, Fazi Editore, Roma 2019.
[5] Per comprendere tali dinamiche risulta indispensabile osservare come 1 franco CFA equivalga «senza un fondamento economico valido» a 1,70 franchi francesi (ora euro). Cfr: Gustavo Gozzi, Eredità coloniale e costruzione dell’Europa. Una questione irrisolta: il «rimosso» della coscienza europea, il Mulino, Bologna 2021, pp. 224-225.
[6] Il testo dell’accordo è consultabile al link: https://africa-eu-partnership.org/sites/default/files/documents/eas2007_joint_strategy_en.pdf