Recensione a: Ernesto Longobardi e David Natali (a cura di), L’essere umano e l’economia. Ricerche per una nuova antropologia, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2019, pp. 190, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Andreas Iacarella
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«È stato dunque tutto un grosso sbaglio. La mia modesta conclusione è che la civiltà occidentale sia stata fondata su una idea erronea e perversa di natura umana. Insomma, scusateci, ma ci siamo proprio sbagliati»[1].
La fulminea constatazione che conclude il pamphlet dell’antropologo americano Marshall Sahlins sintetizza con precisione quello che è il punto di partenza dei saggi raccolti nel volume collettaneo L’essere umano e l’economia, curato da Ernesto Longobardi e David Natali. I sette contributi che compongono il testo, espressione delle differenti prospettive dei loro autori, sono infatti tutti attraversati da un filo comune di ricerca che ha alla base l’indagine su una “nuova antropologia”.
La narrazione che la cultura occidentale – attraverso i suoi maestri, da Tucidide ad Agostino, da Hobbes ad Adam Smith – ha sempre portato avanti sulla natura umana è sostanzialmente pessimista. Tende a delineare i contorni di un essere umano raziocinante tutto teso alla massimizzazione dell’utile e all’affermazione del proprio interesse. Ciò si è tradotto, dal Settecento in poi, nella figura dell’homo oeconomicus: una creatura fondamentalmente egoista, rispetto alla quale anche la socialità è spiegata come conseguenza di rapporti atti a perseguire il proprio utile[2]. Questa categoria, rinvenibile già in Smith e nella formulazione di «economic man» di John Stuart Mill, ha trovato da allora ampia diffusione sia tra gli economisti mainstream, che tra gli antropologi economici di impostazione formalista (come Raymond Firth e Harold K. Schneider)[3]. Questa «concezione – scrive Longobardi – che nell’economia moderna ha natura assiomatica (…) viene poi, per qualche motivo, proiettata all’indietro, alle origini degli esseri umani» (p.93). La natura umana sarebbe dunque “perversa”, per usare le parole di Sahlins, fin dalla nascita della specie.
Secondo la visione degli economisti classici agli albori della nostra storia ci sarebbe stato infatti un essere isolato fisicamente e psichicamente, che intesseva i suoi rapporti sociali mosso da interesse personale e che tendeva naturalmente al baratto e alla divisione del lavoro, avendo dunque iscritto nella sua natura l’orientamento a regolare i propri scambi in una dinamica di mercato (pp.94-96).
I dati però, soprattutto quelli provenienti dalla paleoantropologia e dall’archeologia, sembrano raccontare una storia differente. Il ruolo del baratto nelle società primitive è stato ampiamente ridimensionato e di conseguenza il mercato, più che un istinto della specie, si è dimostrato essere una conseguenza delle trasformazioni sociali. Nelle società primitive di cacciatori-raccoglitori non c’è evidenza infatti dell’esistenza di «scambi interni di tipo bilaterale» (p.90) e «se gli scambi non esistevano, la moneta non è nata per agevolarli» (p.91). Le monete nacquero con tutta probabilità, sotto forma dei cosiddetti clay tokens, nel passaggio a società di tipo agricolo, per facilitare i conteggi del surplus produttivo. A partire da questo strumento, la successiva articolazione di strutture di scambi sempre più complesse avrebbe portato poi alla nascita del mercato vero e proprio[4].
Sembra ormai inoltre definitivamente smentita la vulgata che vede la disuguaglianza come conseguenza inevitabile dello sviluppo sociale dell’homo oeconomicus[5], e insieme ad essa anche l’idea della preistoria come un’epoca di sopraffazione e violenza[6]. Con sempre più forza la ricerca specialistica appare orientata verso quanto Georges Bataille, intuitivamente, scrisse a proposito delle pitture rupestri di Lascaux: la specie umana non ha avuto inizio con il lavoro, bensì con la capacità di creare immagini artistiche[7].
È attraverso il riferimento a questo ampio campo di studi che gli autori del volume destrutturano la concezione della natura umana che per lungo tempo è stata alla base della teoria economica. Nel fare ciò, dedicano spazio anche a ricostruire il pensiero di quegli studiosi che a più riprese hanno levato le loro voci contro la concezione dell’homo oeconomicus. È il caso di due grandi pensatori del Novecento: Bronislaw Malinowski e Karl Polanyi. Il primo, studiando il circuito di scambio kula attivo in area oceaniana, già nel 1922 arrivò alla conclusione che fosse inaccettabile sostenere che le azioni umane siano sempre guidate da interesse personale (pp.78-79). Mentre Polanyi, in La grande trasformazione (1944), ha rilevato come l’economia di mercato sia una realtà storica di un determinato momento e non sia mai esistita prima del nostro tempo; secondo lo studioso ungherese il tratto immutabile della nostra specie sarebbe piuttosto la propensione alla socialità (pp.86-87). Su questo aspetto, ampio risalto è dato anche alle intuizioni antropologiche non sviluppate dell’ultimo Marx.
Ma se il percorso tracciato dal testo fosse circoscritto a questa pur accurata rassegna non andrebbe molto oltre l’opera di decostruzione di Sahlins e altri studiosi. Al contrario, gli autori non si limitano alla pars destruens, ma propongono gli strumenti per costruire una diversa antropologia e, conseguentemente, una visione fortemente eterodossa nel campo della teoria economica.
La base per condurre questo discorso è la visione della realtà umana che emerge dalla teoria della nascita di Massimo Fagioli[8], cui gli autori fanno ampio riferimento. Nella ricerca dello psichiatra marchigiano sembra possibile individuare i concetti che permettono di superare il “grosso sbaglio” dell’Occidente. Collocando infatti alla nascita, a partire dalla biologia, la formazione del pensiero umano, Fagioli propone il superamento della scissione cartesiana e la completa fusione tra realtà materiale e immateriale umana. «Secondo Fagioli – scrive Ventura – alla nascita la luce colpisce la rètina e attiva la sostanza cerebrale, determinando una reazione che (…) è chiamata fantasia di sparizione» (p.148). Si crea a quel punto un totalmente nuovo, che prima, nel feto, non esisteva: il pensiero umano compare come reazione di «annullamento della realtà materiale inanimata del mondo circostante» e insieme «ricerca del rapporto affettivo con i propri simili» (p.149). La dinamica della nascita della mente umana risulta così totalmente fusa alla nascita fisica.
Da questo assunto gli autori del volume ne fanno derivare altri, particolarmente interessanti in un’ottica di antropologia economica. Sarebbe intanto confermata, anche sulla base delle osservazioni circa il prolungato periodo di dipendenza del neonato e il primo rapporto con la madre, la naturale tendenza degli esseri umani alla socialità. E insieme ad essa un principio universale di uguaglianza (pp.165-167).
Lo stretto nesso che gli autori evidenziando tra i concetti di socialità e uguaglianza è un’acquisizione decisamente innovativa. Longobardi e Ilardi scrivono a questo proposito: «l’esistenza di un Io alla nascita, espressione di una realtà materiale umana capace di rapporto attivo con l’oggetto esterno, ci parla della fusione mente-corpo originaria e di una socialità implicita nella capacità di immaginare. Ci dice di una uguaglianza tra gli esseri umani che è originaria per una identica dinamica di formazione, alla nascita, della realtà psichica» (pp.186-187). I due concetti sarebbero dunque costitutivi della realtà umana nel suo essere, come prima accennato, fusione di corpo e mente[9].
L’immagine che viene così a comporsi è dunque quella di un essere umano tutt’altro che massimizzante, dalla complessa vita psichica, che ricerca la realizzazione di esigenze al di là dei bisogni materiali. Questa distinzione tra bisogni ed esigenze[10] rappresenta evidentemente un nucleo centrale per poter destrutturare la nozione di homo oeconomicus. Un’intuizione in questa direzione è rintracciabile nell’originale elaborazione che sul tema è stata avanzata da Ágnes Heller: sulla scorta di Marx, la filosofa ungherese proponeva di distinguere tra «bisogni esistenziali» (fondati sull’istinto di autoconservazione) e «bisogni propriamente umani» (quali la socialità, l’amore, il gioco, etc)[11]. Anche pensatori come Gøsta Esping-Andersen e Martha Nussbaum (con la teoria delle capacità) hanno fornito su questi aspetti contributi rilevanti, tesi a «recupeare un’attenzione maggiore alle esigenze umane» (p.136).
La concezione fatta propria dagli autori permette però una distinzione più esatta dei diversi ambiti cui attengono bisogni ed esigenze. I primi sono soddisfatti nel «rapporto con gli oggetti materiali», le seconde si realizzano attraverso la «dimensione emotiva, affettiva, di sensibilità umana, che riguarda il mondo degli affetti e il rapporto con gli altri esseri umani». Sul primo piano, legato al benessere fisico, interviene una dinamica di sfruttamento razionale degli oggetti non animati; il secondo piano, «quello della socialità e dei rapporti», non è invece riconducibile alla ragione[12]. Come ha scritto altrove l’economista Andrea Ventura, il fine delle esigenze è dunque «la realizzazione e l’espressione di un’identità», oltre la ragione. Seguendo questo percorso di pensiero appare evidente come la razionalità calcolante non possa costituire la pietra angolare sulla quale edificare l’idea di natura umana.
La complessità e la portata del tema è evidentemente enorme. La grande abilità degli autori sta dunque nell’essere riusciti a trovare un equilibrio tra una scrittura piana e fortemente improntata alla divulgazione e il rigore scientifico necessario nell’esporre i frutti di una ricerca che, tutt’altro che conclusa, promette ulteriori sviluppi[13]. La struttura stessa del volume è in questo senso ben ideata: a saggi più prettamente teorici (vedi i capitoli scritti da Andrea Ventura, Ernesto Longobardi ed Elena Ilardi), si alternano contributi che analizzano singole problematiche, impiegando i concetti teorici esposti e mettendone quindi alla prova la validità euristica. I temi che sono trattati nel dettaglio rivestono una grande importanza sia per il lettore comune che per il ricercatore: la crisi finanziaria del 2008 e il panorama politico conseguente (Valentina Martella), i beni comuni (Florence Poulain), i diversi modelli di welfare state (David Natali).
Il caso dei beni comuni è particolarmente esemplificativo di come la posta in gioco dietro il dibattito economico sia anche una diversa concettualizzazione della natura umana. Il biologo Garrett Hardin nel 1968 pubblicò su Science un articolo dal titolo The Tragedy of the Commons, che sarebbe divenuto un caposaldo della letteratura sul tema. La tesi di Hardin è che la gestione comune di un bene porti inevitabilmente all’eccessivo sfruttamento di esso, per la tendenza innata nell’uomo a massimizzare il proprio guadagno. A sostegno di questa idea propose l’esperimento, puramente mentale, di un campo aperto a tutti, in cui ciascun pastore avrebbe tentato di installare quanto più bestiame possibile, fino al completo esaurirsi della risorsa.
Elinor Ostrom, economista premio Nobel nel 2009, ha avversato le tesi di Hardin in numerosi saggi, dimostrando con vasti studi di campo come siano possibili gestioni collettive di beni non necessariamente distruttive[14]. Particolarmente interessante, però, è quanto ebbe a dire durante un incontro pubblico con Amartya Sen alla University of California: «l’argomento di Hardin (…) diventa una sorta di pensiero religioso, secondo cui gli uomini sono senza speranza (…): devono quindi avere un’autorità esterna che gli dica cosa fare, oppure la risorsa va privatizzata» (p.115).
La visione di Hardin parte dagli stessi assunti che hanno nutrito, negli ultimi decenni, il motto neoliberista per eccellenza: there is no alternative. Una formulazione non suffragata da dati, fondamentalmente religiosa, che tende a naturalizzare quelli che invece sono processi sociali ed economici dotati di una loro storia e di un’ideologia soggiacente[15]. Lo sconvolgimento finanziario del 2008, con cui il volume si apre, ha avuto l’effetto di sgretolare la fiducia nel neoliberismo, mettendo in questione anche la visione dell’essere umano ad esso legata. Come scrive Ventura, la crisi ha rappresentato uno shock anche sul piano intellettuale: ha mandato in pezzi un edificio teorico che sembrava, per i suoi sostenitori, inscalfibile e destinato a durare in eterno. Ed è in questo vuoto riflessivo che gli autori hanno l’ambizione di inserirsi per proporre un’alternativa.
Che la teoria economica, sia quella classica che quella neoclassica, con il suo riferimento ad un modello di essere umano raziocinante ed egoista si fondi in sostanza su un pregiudizio sulla natura umana più che su una conoscenza scientifica solida, è forse ormai una realtà consaputa da molti[16]. Ma è come se tutte queste tracce disperse non fossero mai riuscite a mettersi a sistema in una visione complessiva. Ora i tempi, suggeriscono gli autori del volume, sembrano maturi per un salto epistemologico, per un nuovo paradigma.
L’antropologia proposta dalla teoria della nascita mina alle fondamenta ogni tentativo di ricondurre il comportamento ed il pensiero umano ad una dimensione di puro calcolo razionale, fornendo le basi per impostare anche in campo economico un discorso sulle esigenze umane oltre i bisogni fisiologici. Questo percorso riflessivo, di cui il volume non è che una tappa, potrà auspicabilmente condurre, com’è stato scritto, alla nascita di una nuova economia umanistica.
[1] M. Sahlins, Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, Elèuthera, Milano 2010, p. 127.
[2] R. R. Wilk, L. Cliggett, Economies and cultures. Foundations of economic anthropology, Westview press, Boulder 2007, pp. 40-42.
[3] Per un’ampia rassegna delle principali correnti dell’antropologia economica, e del dibattito tra formalisti e sostantivisti, vedi: C. Hann, K. Hart, Economic anthropology. History, ethnography, critique, Polity press, Cambridge 2011.
[4] Questi aspetti sono stati approfonditi da studiosi come David Graeber e Larry Randall Wray. In particolare, vedi: D. Graeber, Debt. The first 5000 years, Mellville House, Brooklyn-London 2014; L. R. Wray, “Introduction to an alternative history of money”, Levy Economics Institute, Working paper n. 717 (mag. 2012).
[5] D. Graeber, D. Wengrow, “How to change the course of human history (at least, the part that’s already happened)”, Eurozine, 2 marzo 2018.
[6] M. Patou-Mathis, Préhistoire de la violence et de la guerre, Odile Jacob, Parigi 2013.
[7] G. Bataille (1955), Lascaux. La nascita dell’arte, Abscondita, Milano 2014. Per un ulteriore sviluppo di queste idee vedi anche i più recenti: S. Maggiorelli, Attacco all’arte. La bellezza negata, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2017; U. Tonietti, L’arte di abitare la terra, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2011.
[8] M. Fagioli (1972), Istinto di morte e conoscenza, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2017; Id. (1974), La marionetta e il burattino, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2011; Id. (1975), Teoria della nascita e castrazione umana, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2012.
[9] In questa idea si può rinvenire una risposta alle obiezioni sollevate da Yuval Noah Harari rispetto alla legittimità del concetto di uguaglianza umana. Vedi: Y. N. Harari, Sapiens. Da animali a dèi, Bompiani, Milano 2019, pp. 142-145.
[10] Per la quale vedi anche: M. Fagioli, “Bisogni ed esigenze, 1980: un’intervista a M. Fagioli, 1999: un dibattito”, Il sogno della farfalla, n. 4 (1999), pp. 5-29.
[11] Á. Heller, “La teoria, la prassi e i bisogni umani”, in P. A. Rovatti (a cura di), Il coraggio della filosofia. Aut aut, 1951-2011, Il saggiatore, Milano 2011, pp. 173-175.
[12] A. Ventura, La trappola. Radici storiche e culturali della crisi economica, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2012, p. 90.
[13] Sugli stessi temi vedi anche i precedenti: A. Ventura, La trappola, cit.; E. Longobardi, “L’economista”, in E. Amalfitano, Le gambe della sinistra, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2014, pp. 119-132; A. Pettini, A. Ventura (a cura di), Quale crescita. La teoria economica alla prova della crisi, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2014; A. Ventura, Il flagello del neoliberismo. Alla ricerca di una nuova socialità, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2018.
[14] E. Ostrom (1990), Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia 2006.
[15] Sulla carattere fortemente normativo e valoriale dell’economia capitalistica, vedi i riferimenti in: L. Pennacchi, De valoribus disputandum est. Sui valori dopo il neoliberismo, Mimesis, Milano-Udine 2018, pp. 102-106.
[16] Sta a testimoniarlo il lungo percorso critico dell’antropologia economica. A questo proposito, due autorevoli studiosi come Chris Hann e Keith Hart concludono il loro saggio già citato invitando a dire definitivamente addio alla figura dell’homo oeconomicus. Vedi: C. Hann, K. Hart, Economic anthropology, cit., pp. 172-174.