“Geografia economica dell’Europa sovranista” di Gianmarco Ottaviano
- 12 Agosto 2019

“Geografia economica dell’Europa sovranista” di Gianmarco Ottaviano

Recensione a: Gianmarco Ottaviano, Geografia economica dell’Europa sovranista, Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 176, 16 euro (scheda libro).

Scritto da Luca Picotti

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Negli ultimi anni il cosiddetto fenomeno populista ha occupato una posizione centrale nel dibattito pubblico. Dall’Italia alla Francia, dall’Austria alla Danimarca, il continente europeo ha visto crescere movimenti capaci di porsi, grazie soprattutto a ottime strategie comunicative, come espressione di un “popolo” volenteroso di tornare ad essere una forza trainante della Storia, riprendendo così quel potere che, sempre basandosi sul messaggio ormai radicato nell’immaginario collettivo, un’élite autoreferenziale ha sottratto e conservato avidamente negli ultimi decenni.

Questo fenomeno è stato analizzato attraverso lenti diverse, da una prospettiva politica ad una più squisitamente economica, passando per la psicologia sociale, l’analisi culturale e antropologica. Un approccio interessante, che proprio di recente sta diventando oggetto di studi sempre più accurati, è quello relativo alle diseguaglianze territoriali e, più in generale, alla geografia elettorale. Il focus sulle differenze – di reddito, istruzione, cultura – territoriali è in grado di spiegare in parte i fenomeni politici più recenti: se da un lato abbiamo metropoli inserite negli ingranaggi della globalizzazione e in costante sviluppo, nelle quali Europa e globalizzazione vengono viste come un’opportunità, dall’altro abbiamo periferie abbandonate, zone completamente deindustrializzate, aree interne fuoriuscite dai circuiti economici, luoghi dimenticati dove covano le istanze sovraniste e di chiusura.

Gianmarco Ottaviano, professore di Economia Politica all’Università Bocconi di Milano, con il suo ultimo libro Geografia economica dell’Europa sovranista, edito da Laterza, propone un’interpretazione geografica della sfiducia montante nel Vecchio Continente nei confronti delle istituzioni europee. L’analisi, supportata da dati e numerose ricerche, affronta tematiche di grande importanza per i cittadini, come la concorrenza internazionale, la delocalizzazione e l’immigrazione, in modo da far chiarezza su alcune delle questioni più pregnanti in termini elettorali e per aiutare a capire gli intrecci, economici, sociali, culturali e territoriali, alla base del successo “sovranista” in Europa.

Il volume, agile nelle sue circa centosettanta pagine, si apre con un’immagine emblematica relativa alla disuguaglianza territoriale, in particolare ai due quartieri contigui di Londra: Notting Hill, la collina e Notting Dale, la valle, facenti parte dello stesso municipio, il Royal Borough of Kensington and Chelsea. Il salario medio del Borough è di circa 140 mila euro, nonostante la metà degli abitanti non guadagni più di 40 mila euro annui e Notting Dale faccia parte del 10% di circoscrizioni più povere del Regno Unito in termini di reddito. Mentre Notting Hill si presenta come una delle aree più ricche del Paese, confinante ad ovest con il viale dei miliardari Kensington Palace Gardens, Notting Dale soffre su tutti gli indicatori statistici: presenta un tasso di occupazione del 62% contro il 68% del Borough, la percentuale di persone che ricevono un sussidio di disoccupazione è il doppio che nell’intero municipio, il 56% delle famiglie vive in abitazioni di edilizia popolare e un abitante su cinque non ha qualifiche, a parte quella derivante dalla scuola dell’obbligo, contro l’uno su dieci dell’intero municipio.

Questa spaccatura è la stessa che ha percorso il Regno Unito nel voto della Brexit: una cesura, radicata nell’immaginario collettivo, tra gli “haves” (chi ha) e gli “have-nots” (chi non ha). I primi schierati per il Remain, i secondi per il Leave. Ci sono numerosi studi che hanno evidenziato più approfonditamente le caratteristiche degli elettori del referendum[1]: «Il Leave tende a prevalere nelle circoscrizioni con: minori livelli medi di istruzione e qualificazione; maggiore tradizione di industria manifatturiera; minori salari e maggiore disoccupazione; maggiore crescita dell’immigrazione, in particolare dai paesi dell’Est Europa a seguito del loro accesso all’Unione Europea; minore qualità dei servizi pubblici, specialmente nell’ambito della sanità e laddove hanno inciso maggiormente i tagli della spesa pubblica associati ai programmi di austerity seguiti alla crisi finanziaria del 2008; minore partecipazione dei giovani al voto» (pp. 10-11).

L’analisi di Ottaviano si spinge oltre le condizioni individuali degli elettori, andando ad analizzare l’impatto della globalizzazione sui vari territori – con un focus particolare sulla concorrenza della Cina a partire dagli anni Novanta. Si evince che, confrontando la distribuzione geografica del voto Leave con quella dell’indice di esposizione alla globalizzazione, le economie locali più esposte hanno votato maggiormente per la Brexit; la geografia della Brexit, afferma l’Autore, è una «geografia economica dello scontento».

Vi è un punto fondamentale, strettamente legato a questo discorso, su cui Ottaviano si sofferma: globalizzazione ed integrazione europea non sono la stessa cosa. Se la prima ha mostrato la sua faccia aggressiva nei confronti delle economie locali, non presentandosi allo stesso tempo come un nuovo bacino di mercati di sbocco nel resto del mondo – cosa invece successa nel caso delle aree ricche, per esempio quella relativa alla metropoli di Londra – la seconda si è presentata anche come fornitrice di nuovi clienti e non a caso le aree meno sviluppate sono quelle più dipendenti dai benefici del mercato unico europeo. Ci troviamo quindi di fronte ad un equivoco, sostiene l’Autore: si sono confusi gli effetti della globalizzazione dei mercati, negativi per vaste aree espressione dell’economia locale, con quelli più positivi della loro “europeizzazione” – e sarebbero quindi proprio le aree più povere, secondo Ottaviano, a subire maggiori danni da un’uscita dal mercato unico.

Il fenomeno globale cui stiamo assistendo, e che va necessariamente compreso per analizzare la contemporaneità, è quello della «grande divergenza», ovvero del crescente squilibrio del rapporto di forza economica tra aree geografiche all’interno dei vari paesi, esacerbato dalla complementarietà all’interno del processo produttivo tra le nuove tecnologie e il livello di istruzione dei lavoratori, con la conseguente concentrazione di ricchezza e capitale umano nelle aree più sviluppate e innovative. In particolare, negli ultimi decenni di integrazione europea si è seguito il Leitmotiv per cui, riprendendo l’immagine iniziale, se cresce la Collina cresce anche la Valle. Nel lessico dei geografi economici, si chiamano “forze centripete” i vantaggi che inducono lavoratori e imprese a concentrarsi geograficamente – incontro nel mercato del lavoro, scambio di competenze e collaborazione stretta – mentre vengono specularmente battezzate come “forze centrifughe” gli svantaggi derivanti dalla concentrazione – affollamento, inquinamento: l’equilibrio tra queste due forze determina la geografia economica e le sue peculiarità. «L’andamento della disuguaglianza in Europa […] sembra suggerire che, almeno negli anni più recenti a partire dalla crisi, il processo di integrazione economica europea potrebbe aver spostato la bilancia a favore delle forze centripete e rafforzato l’effetto di lock-in, accentuando gli squilibri regionali anziché ridurli e violando in questo mondo la promessa di crescita inclusiva che ne aveva motivato l’avvio. Il successo delle zone più dinamiche sembra infatti trasmettersi con crescente difficoltà a quelle meno attive» (p.93). Non vi è stata quindi quella convergenza che si pensava scaturisse automaticamente dall’integrazione; al contrario, il deficit redistributivo ha accentuato la polarizzazione, andando così a determinare un’Europa dalle regioni diseguali.

Il volume prosegue con un’analisi sull’impatto dell’immigrazione sul mercato del lavoro, anche attraverso un excursus storico sull’immigrazione in Europa, a partire dalla richiesta di manodopera immigrata da parte dei paesi nordici per la ricostruzione post-bellica fino ad arrivare alla crisi migratoria degli ultimi anni. L’allarme migratorio, molto sentito dai cittadini, secondo Ottaviano va inserito in un quadro più socio-culturale – l’idea di un fenomeno epocale e il conseguente senso di spaesamento – che economico, dal momento che non si riscontrano effetti negativi rilevanti dell’immigrazione sui cittadini dei paesi di destinazione né in termini di occupazione né in termini di salari; in particolare, sostiene l’Autore, all’aumentare degli immigrati i salari e il tasso di disoccupazione dei lavoratori autoctoni hanno continuato a oscillare seguendo le fasi del ciclo economico senza variazioni tendenziali. In altre parole, se per alcuni settori a bassa qualificazione la concorrenza dell’immigrato può aver rappresentato un problema, in un’ottica più generale non si può parlare di consistenti effetti negativi.

Nelle ultime pagine Ottaviano riflette intorno al binomio popolo-élite concludendo con un focus sulla rottura dell’ascensore sociale nei maggiori paesi occidentali e in particolare in Italia e sul concetto di bene pubblico europeo. Le ultime parole sono un appello alla moderazione e alla riflessione davanti alle tentazioni di “chiusura” cui stiamo assistendo in questi anni: «Prima di decidere di cedere alle tentazioni sovraniste e uscire dall’Unione Europea, ci si dovrebbe chiedere quali sono i problemi specifici che si vogliono risolvere e come l’eventuale uscita aiuterebbe a risolverli. Ci si dovrebbe anche interrogare su quali siano esattamente i vantaggi, non solo monetari, che l’Unione Europea può garantirci, in un mondo in cui l’egemonia economica, sociale, culturale e militare dei singoli paesi del Vecchio Continente, anche quelli più grandi, si va sempre più affievolendo. I travagli della Brexit nel Regno Unito sono un esempio lampante di che cosa vuol dire decidere di lasciare l’Unione Europea senza essersi posti prima queste domande».

La posizione di Ottaviano è chiara, così come le sue analisi, in particolare quelle volte a discernere tra gli effetti della globalizzazione sulle economie locali e quelli dell’integrazione europea – punto di grande originalità che evidenzia quanta confusione ci sia nel dibattito pubblico e nello stesso elettorato. Geografia economica dell’Europa sovranista ha infatti il merito di affrontare e fornire al lettore strumenti di discussione su rilevanti questioni aperte, ad esempio: come invertire il trend di maggiore diseguaglianza territoriale che con l’integrazione europea è accelerato? Come rivitalizzare le aree interne? Il focus sulla geografia economica diseguale, i dati che riporta e le domande che pone sono ingredienti preziosi per una dialettica di spessore su temi fondamentali come quello della globalizzazione e dell’integrazione europea. Temi sui quali è sempre più necessario discutere, proprio a partire da volumi come questo, in un confronto continuo che possa portare ad una maggiore comprensione del presente e delle sfide future.


[1] In particolare, Ottaviano si rifà a S.O. Becker, T. Fetzer, D. Novy, Who voted for Brexit? A comprehensive district-level analysis, «CEP Discussion Paper», n.1480, aprile 2017. Ai fattori economici si aggiungono ovviamente anche quelli legati ad aspetti culturali, di identità nazionale o appartenenza di classe.

Scritto da
Luca Picotti

Avvocato e dottorando di ricerca presso l’Università di Udine nel campo del Diritto dei trasporti e commerciale. Autore di “La legge del più forte. Il diritto come strumento di competizione tra Stati” (Luiss University Press 2023). Su «Pandora Rivista» si occupa soprattutto di temi giuridico-economici, scenari politici e internazionali.

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