Scritto da Giuseppe Sabella
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Di recente, anche il più autorevole quotidiano economico del mondo, il Financial Times, ha riproposto il dibattito avviatosi qualche anno fa sulla globalizzazione e la sua fine. Con la guerra in Ucraina, e con la crescente contrapposizione tra Est e Ovest, anche il grande capitalismo occidentale si sarebbe convinto del crollo del palinsesto multilaterale e della necessità di impiegare diversamente la sua capacità finanziaria, non più all over the world ma su scala macroregionale. In realtà, è questa una discussione che, sebbene origini più o meno all’inizio della stagione trumpiana, trova risalto solo successivamente, in particolare con l’arrivo della pandemia da Covid-19 in Europa e negli Stati Uniti. La discussione ha coinvolto, pur nelle loro diverse sensibilità, anche economisti e studiosi di fama mondiale, tra i quali Joseph Stiglitz, Paul Krugman, Jeremy Rifkin, Jean-Paul Fitoussi, Thomas Piketty, Slavoj Žižek, Romano Prodi, Giulio Tremonti. Solo più recentemente, invece, il mondo della finanza si sta arrendendo alla realtà del decoupling, ovvero al disaccoppiamento delle catene del valore che, inevitabilmente, porterà al contrasto tra la filiera produttiva occidentale e quella asiatica; in diversi casi, questo coincide con la contrapposizione tra democrazie liberali e autocrazie. Molti sono gli investitori che fino a ieri sostenevano che, alla luce della pandemia, non stesse cambiando nulla: a detta loro, le economie proseguivano nella reciproca interdipendenza, che non è soltanto tecnologica e industriale, ma anche finanziaria. Se, dunque, persino Larry Fink – fondatore di BlackRock, la maggiore società di investimenti al mondo – scrive ai suoi azionisti che «la guerra in Ucraina segna un punto di svolta dell’ordine mondiale, delle tendenze macroeconomiche e dei mercati dei capitali»[1], significa che la globalizzazione è davvero arrivata alla sua fermata di destinazione[2]. Tant’è che, per riprendere un’interessante battuta di Giulio Tremonti, non è la guerra che pone fine alla globalizzazione, ma è la fine della globalizzazione che porta alla guerra. Non si tratta di un semplice gioco di parole: l’ordine mondiale era già stato destabilizzato dalla pandemia; Donald Trump, a suo tempo, disse: «I giorni della globalizzazione sono finiti»[3]. Tuttavia, già ben prima della pandemia gli equilibri nel mondo erano in fase di ridefinizione. La stessa Europa, che non è mai stata agile nei movimenti, nel 2019 – con il programma Green Deal – pianifica la propria risposta alla riconfigurazione dell’economia globale puntando sull’emancipazione energetica e industriale, che al momento è, purtroppo, piuttosto lontana: oggi ci accorgiamo di essere pesantemente dipendenti dal gas russo, ma abbiamo già sperimentato la nostra mancanza di autonomia all’inizio della pandemia, quando ci siamo ritrovati in difficoltà rispetto all’approvvigionamento di dispositivi di protezione. L’Unione Europea è rimasta il solo grande attore internazionale a non avere un proprio vaccino: gli USA ne hanno tre (Pfizer, Moderna e Johnson & Johnson), la Cina ha Sinopharm, la Russia ha Sputnik, la Gran Bretagna ha AstraZeneca. Anche Mosca, come Bruxelles, vuole ridefinire la sua collocazione nel mondo, a fronte dell’emergere di un nuovo ordine multipolare certamente dominato dalle due superpotenze Stati Uniti e Cina, mentre Europa, Russia e India avranno nonostante tutto un ruolo importante.
Con la pandemia, in tempi molto ravvicinati, alcuni fattori hanno modificato il quadro internazionale. In primo luogo, cambia in modo irreversibile – almeno per questa fase storica – la già scricchiolante relazione tra Cina e Occidente. In secondo luogo, non ci sono più Trump e l’America first, ma Joe Biden e Mario Draghi con un ruolo importante in Europa. Infine, in Germania esce di scena Angela Merkel e si insedia il nuovo governo guidato da Olaf Scholz. La relazione difficile tra Stati Uniti e Cina era già evidente durante la stagione di Trump. L’ex presidente statunitense, peraltro, voleva riportare la Russia tra i grandi del mondo, nel G8. Il nostro Paese era favorevole. La forte opposizione a Trump, tuttavia, è stata interna, anche perché vi è una forte influenza cinese negli Stati Uniti; Pechino era contraria a questa soluzione perché avrebbe oltremodo avvicinato Mosca a Washington. Non è un caso che siano poi emersi altri fattori di cambiamento importante: da un lato, la simultanea presenza ai vertici delle istituzioni americane ed europee di Joe Biden e Mario Draghi ha portato ad una riconciliazione nel rapporto tra USA e UE, rapporto ridottosi ai minimi termini durante la stagione di Trump. L’uscita di scena di Merkel, invece, segna l’inizio di una decisiva discontinuità nei rapporti con Mosca e di un’inedita relazione tra Germania e Stati Uniti. I rapporti di Merkel con Putin erano piuttosto forti, tant’è che c’è chi ha invocato la ex cancelliera tedesca come possibile figura del dialogo con Mosca a soluzione della crisi ucraina. È dentro questo nuovo scenario che ha origine la crisi delle materie prime. A lungo Mosca ha pazientemente investito nelle sue relazioni con l’UE, in particolare con Berlino, cogliendo la grande opportunità di aumentare la propria quota di mercato nelle forniture di gas all’Europa; le pipeline che portano il metano dalla Russia – e che arrivano a Tarvisio – sono longeve, esistono infatti da più di cinquant’anni. Quando sono state costruite c’erano ancora la cortina di ferro e il muro di Berlino. Tuttavia, il gasdotto Nord Stream 2, con il quale la Russia puntava ad accrescere ulteriormente la propria relazione commerciale con l’Unione Europea, è sempre stata un’opera controversa: per molti Paesi europei, il rischio era di rendere l’UE ancor più dipendente dalla Russia. Così, questa infrastruttura da oltre 1.200 km si è arenata ben prima della crisi ucraina, motivo di grande tensione tra Bruxelles e Mosca e fattore di aumento del prezzo del gas. Ma non sono solo le pipeline ad arenarsi: ciò che si inceppa è la relazione tra Russia ed Europa. Pur essendo un fenomeno composito, la crisi di microchip, gas e materie prime è anche il risultato di questa instabilità. Da una parte vi sono certamente la forte ripartenza delle produzioni e il disallineamento dei diversi lockdown mondiali e, in particolare, dei paesi fornitori – si pensi al Vietnam –; dall’altra, soprattutto, vi sono fattori politici che rispondono alle scosse della globalizzazione e del commercio mondiale. La Cina, approfittando del calo dei prezzi durante il primo lockdown, ha acquistato materie prime ovunque; questo non soltanto per accumulare scorte, ma anche nella piena consapevolezza che l’Europa è concentrata sul consolidamento del proprio mercato, cosa che non può non avere ricadute sulla penetrazione nel MEC del prodotto made in China. Le materie prime, quindi, scarseggiano e la Cina costringe l’Europa a prezzi notevolmente aumentati, come fa la Russia con il gas. Da qui l’inflazione che nel giro di un anno arriva all’8%: Pechino e Mosca iniziano a farci pagare le nostre scelte di indipendenza. Dal 2015, infatti, quando più o meno il commercio mondiale ha iniziato a rallentare, i mercati vanno consolidandosi attorno alle grandi piattaforme produttive: Cina, USA, UE. L’Europa comprende il proprio gap a livello tecnologico con Stati Uniti e Cina – l’idea del Green Deal deriva anche da qui – e che deve massimizzare i profitti nel suo mercato interno. Il programma Green Deal, che poi trova finalizzazione nel Next Generation EU, è un grande investimento per l’innovazione delle filiere produttive: il meccanismo regge se poi il consumatore sceglie il prodotto europeo e non quello cinese o americano. A partire da questo punto si inizia a delineare qualche problema anche con la Cina, che ha sempre avuto nella Germania un partner commerciale privilegiato. Attualmente, l’UE importa dalla Cina per quasi 400 miliardi di euro ed esporta per circa 200 miliardi, con un saldo commerciale nettamente a favore di Pechino. Questo riposizionamento dell’UE, che la riavvicina agli Stati Uniti e la distanzia dalle autocrazie – in particolare Cina e Russia – precede la decisione di Putin di invadere l’Ucraina. L’Europa non può ignorare questa violazione della sovranità ai suoi confini, che, tra i suoi molti aspetti, solleva anche la questione dei profughi, che può configurare la più grande emergenza umanitaria dalla Seconda guerra mondiale ai nostri giorni.
Dal multilateralismo al regionalismo aggregato
La pandemia è un avvenimento che ha lasciato un segno importante nella nostra storia, il suo impatto sul processo di globalizzazione e sulla vita di ognuno di noi è paragonabile all’attacco del World Trade Center e al crollo di Lehman Brothers. È, nei fatti, il terzo momento di frizione della globalizzazione; nel 1994 viene siglato l’accordo per il commercio mondiale (WTO), nel 2001 la Cina entra a farne parte, nel 2008 vi è lo scoppio della grande crisi economica che poi diventa anche sociale e politica. La Cina è la grande “fabbrica del mondo”, incidendo per quasi un terzo sulla produzione manifatturiera mondiale, in forte miglioramento rispetto al 8,3% registrato nel 2000. Si situa davanti agli Stati Uniti e ai grandi Paesi europei come Germania, Italia e Francia. Eppure, se pensiamo alla pandemia, era prevedibile che lo sviluppo accelerato della Cina – in cui è fortissima la distanza tra gli stili di vita in parte ancora tradizionali dell’interno e quello ipermoderno della costa – dovesse prima o poi manifestare qualche problema di tenuta strutturale. Tuttora, il futuro della Cina resta un enigma: l’economia cinese è fortemente votata all’export e, più degli USA, la Cina ha bisogno della globalizzazione. Come uscirà da questa vicenda? Dall’incognita cinese dipendono in maniera significativa gli scenari futuri dell’economia mondiale. Non è da escludere che emergano le fragilità di quel sistema, portando la Cina finanche ad una crisi interna. Le informazioni che ci giungono da Pechino sono sempre frammentate, ma pochi mesi fa si sono avuti segnali dell’esplosione della bolla immobiliare; qualche problema arriverà anche dalla crisi del debito, da noti aspetti demografici che divengono sempre più seri – ricambio generazionale debole, città che si spopolano, carenza di forza-lavoro – e dalla crescente siccità nella Cina settentrionale. Lo stesso progetto della “nuova via della seta” sembra incontrare difficoltà. In sintesi, che la Cina possa continuare a crescere al ritmo del 7% annuo senza rallentamenti non è affatto scontato. Vi sono poi l’impegno e gli obiettivi di Xi Jinping per la cosiddetta “prosperità comune”: finita la fase dell’“arricchirsi è glorioso” lanciata da Deng Xiaoping, la Cina sceglie di rivedere le sue politiche di distribuzione della ricchezza e di investire sul mercato domestico. Va tuttavia detto che a Pechino si era giunti a un punto di non ritorno: per questo Xi e il suo governo hanno scelto di rivolgere una maggiore attenzione alle questioni domestiche. Può essere questa una buona notizia anche per il resto del mondo, perché è possibile che preluda a un atteggiamento meno aggressivo da parte della Cina. Tuttavia, in prospettiva Cina e Stati Uniti restano i due soggetti che hanno la possibilità di influire maggiormente sul governo del mondo. Europa, Russia e India non sono potenze che possano porsi allo stesso livello dei due colossi, ma possono contribuire a rendere il decoupling centrato più sugli Stati Uniti o sulla Cina. Le quotazioni del Vecchio Continente, prima di questa guerra, erano in ripresa, ma la crisi ucraina genera ora molta incertezza. La riconfigurazione del palinsesto multilaterale nella prospettiva del macroregionalismo – o regionalismo aggregato, come viene definito da Alberto Quadrio Curzio – è in atto da prima della pandemia. Vi sono tre fattori di cambiamento che paiono a oggi fortemente probabili. In primo luogo, Cina e Stati Uniti cercheranno sempre più di chiudere i propri mercati alla penetrazione esterna e di conquistare il solo altro grande mercato che esiste al loro esterno, vale a dire l’Europa. In secondo luogo il mondo va configurandosi verso le tre grandi piattaforme produttive di USA, Cina ed Europa. Tuttavia quest’ultima, in senso industriale, si riduce principalmente alla Germania. Per la Germania il principale mercato di sbocco diverrà in misura sempre maggiore l’Europa; è dunque interesse vitale per l’industria tedesca che il mercato europeo cresca e si consolidi[4]. In terzo luogo, in ragione di questa grande riconfigurazione politica ed economica, le catene globali del valore cambieranno morfologia: i processi di decoupling e di back reshoring si velocizzeranno.
L’Europa e l’ineludibile transizione energetica
A questa ridefinizione del palinsesto multilaterale, la Commissione europea ha risposto, nel dicembre 2019, con il piano Green Deal. Non si tratta soltanto di un programma per affrontare il cambiamento climatico: con il Green Deal, l’Europa punta alla sua autonomia industriale ed energetica e, per l’appunto, a un riposizionamento politico rispetto al resto del mondo. La pandemia ha indotto Bruxelles a moltiplicare i propri sforzi per far fronte all’emergenza sociale e per rilanciare l’economia: il Next Generation EU, di fatto, diventa la costola finanziaria del Green Deal; ora, a fronte della guerra in Ucraina, Commissione e Stati membri devono fare i conti con la dipendenza energetica. Oggi Putin rappresenta un problema per l’Europa ed è necessario pensare a come ridurre rapidamente la dipendenza in essere. Al tempo stesso, bisogna evitare di crearne un’altra, per esempio dal gas naturale liquido. Al di là dei costi, il processo è molto complesso. Il gas viene prima liquefatto a temperature molto basse (-160°C), poi viene trasportato e in ultimo viene rigassificato. Per il momento, il 13% circa del gas che consumiamo arriva sotto forma di GNL, in prevalenza dal Qatar. In futuro ne arriverà, come noto, anche dagli Stati Uniti. Questo processo è anche piuttosto costoso, a livello di produzione e di impatto ambientale[5]. Mentre, nell’immediato, contiamo di aumentare le forniture di gas dagli altri partner, Algeria e Azerbaijan in particolare[6], occorre rilanciare in modo deciso i progetti di transizione energetica: è questa l’unica strada per diventare autonomi. Peraltro, i continui rincari delle bollette energetiche per famiglie e imprese stanno compromettendo i rimbalzi positivi dell’economia, in quasi tutti gli Stati membri. Per quanto riguarda l’Italia, a gennaio 2022 i prezzi alla produzione dell’industria sono aumentati del 9,7% su base mensile e del 32,9% su base annua. Gli aumenti sono trasversali a tutti i settori, da quelli particolarmente energivori – acciaierie, aziende ceramiche – a quelli dell’agricoltura e del terziario. Il peso dei costi dell’energia va a toccare anche il trasporto dei beni materiali, già fortemente condizionato durante il periodo della pandemia. L’Italia rischia quindi di pagare un prezzo enorme a fronte della crisi del gas anche in ragione di alcune scelte politiche compiute nel recente passato, il cui risultato è stato quello di accrescere la nostra dipendenza dal gas russo. Consideriamo che il gas naturale sarà fondamentale per i prossimi trent’anni per alleggerire la produzione di emissioni di CO₂ rispetto a carbone e petrolio. È il vettore ideale della transizione energetica verso l’energia pulita. Nel 2018 la forte opposizione politica alla TAP, pur non fermando l’arrivo del gasdotto dall’Azerbaijan, ha finito per condizionare scelte e sviluppi in merito al gas naturale: da qui la progressiva riduzione della produzione di gas – nel 2000 l’Italia ne produceva 20 miliardi di metri cubi, oggi non arriviamo a 4 miliardi –, il blocco della ricerca e delle estrazioni già programmate e una serie di provvedimenti sbagliati che stiamo pagando pesantemente proprio in questa delicata fase storica. Secondo i dati di Terna, per quanto riguarda l’energia pulita, il 35% della nostra produzione energetica viene dalle fonti di energia rinnovabile. Inoltre, l’Italia ha la più alta percentuale di riciclo sulla totalità dei rifiuti: 79%, il doppio rispetto alla media europea. Tuttavia si trova a scontare ancora qualche problema, a cominciare dall’impiantistica, per quanto concerne il trattamento delle scorie di natura prevalentemente domestica e indifferenziata. I Paesi virtuosi del nord Europa hanno collocato gli impianti di termovalorizzazione all’ultimo step della “catena del rifiuto”: l’industria del waste management in Italia può essere sviluppata proprio sulla scia di modelli come Svezia e Danimarca.
Se consideriamo inoltre che l’Italia è uno dei Paesi a maggior efficienza energetica, con una intensità energetica primaria inferiore di circa il 18% rispetto alla media UE, secondo i dati forniti dal MISE, possiamo dire che il nostro Paese è ben incamminato verso la transizione ecologica ed energetica. Per quanto riguarda i livelli occupazionali, secondo l’International Labour Organization la grande transizione verde ha il potenziale per creare 60 milioni di posti di lavoro entro il 2030. In Italia, le imprese che negli ultimi 5 anni hanno investito nella green economy sono circa 441.000 e gli occupati sono oltre 3 milioni, che significa il 13,4% del totale, in base ai dati raccolti da Unioncamere-Fondazione Symbola. Un’indagine di Legambiente poco prima della pandemia stimava che, nel giro di 5 anni, la domanda occupazionale della green economy avrebbe riguardato oltre 1,6 milioni di posti di lavoro. Vista la spinta impressa dal Next Generation EU, che destina il 37% delle risorse agli investimenti green, è più che plausibile che questo un numero possa addirittura crescere. A oggi, l’Italia è tra i Paesi europei più disciplinati nell’emissione di CO₂. L’Europa emette circa l’8% del totale globale delle emissioni di CO₂ (Cina 30%, USA 14%, India 7%, Russia 5%). Se tuttavia analizziamo la questione da un punto di vista pro-capite/anno (PC/anno) – tenendo conto che la media mondiale è 4,4 tonnellate per ciascun abitante – i livelli rilevati ci danno indicazioni significative[7]. I maggiori emettitori sono paesi produttori di petrolio: Bahrein, Emirati Arabi, Kuwait, Oman e Qatar arrivano a 19,5 tonnellate di CO₂ PC/anno. Il Canada, Paese industrializzato ma a bassa densità abitativa, viene subito dopo: 15,2 tonnellate PC/anno. L’Arabia Saudita, altro grande estrattore di petrolio, produce emissioni per 14,5 tonnellate PC/anno. Gli USA sono attorno alle 14 tonnellate PC/anno. Gli stati europei oscillano tra i 4 e i 7,8 tonnellate PC/anno. L’Italia è a quota 5,9 tonnellate PC/anno, mentre altri grandi emettitori sono Australia e Nuova Zelanda: 13,5 tonnellate PC/anno. La Cina produce 7,1 tonnellate di CO₂ PC/anno[8], mentre India e Stati africani sono sotto la media mondiale. Per raggiungere l’obiettivo della carbon neutrality – che per Europa e USA è fissato al 2050, per Cina e Russia al 2060, per India al 2070 – il gas naturale è in questa fase fondamentale. Nel frattempo, si dovrà progressivamente incrementare l’utilizzo di energia pulita. Al tempo stesso, dobbiamo essere consapevoli che il pianeta non può passare dalle fonti fossili a quelle rinnovabili immediatamente. Prima della crisi ucraina, l’Europa contava di arrivare al 50% della generazione totale di energia da fonti rinnovabili entro il 2035. Questo processo oggi potrebbe essere accelerato, ma anche la domanda complessiva di oil&gas a livello mondiale è destinata a crescere ancora almeno fino al 2030. Seguendo le tendenze in atto, la temperatura terrestre è destinata ad aumentare di 3,5°C – e non di 1,5°C come prefissato a livello globale per la scadenza del 2050. Questo ci dice che sebbene, negli ultimi anni, sia cresciuta la sensibilità nei confronti della questione ambientale e si siano avviati processi importanti per far fronte al riscaldamento globale, siamo ancora ampiamente fuori asse. Inoltre, includere i Paesi emergenti nella lotta al climate change sarà decisivo, non vi è altra strada che quella della cooperazione internazionale. Da questo punto di vista, purtroppo, è probabile che la contrapposizione emergente tra Est e Ovest non faciliti questo andamento. Tuttavia, anche se per qualcuno la carbon neutrality arriverà più tardi, se nel frattempo l’Unione Europea e gli Stati Uniti riusciranno a centrare gli obiettivi intermedi del 2030 e quelli del 2050, avremo già gettato le basi per vivere, sotto molti aspetti, in un mondo diverso.
[1] The Editorial Board, The changing nature of globalization, «Financial Times», 11 aprile 2022.
[2] Se consideriamo la definizione di globalizzazione proposta dall’OCSE («processo attraverso il quale mercati e produzione nei diversi Paesi diventano sempre più interdipendenti, in virtù dello scambio di beni e servizi e del movimento di capitale e tecnologia»), è piuttosto evidente quanto sia proprio il processo del decoupling ad avviare la fine dell’interdipendenza multilaterale.
[3] Il 14 maggio 2020, l’allora Presidente USA viene intervistato da Maria Bartiromo per Fox News.
[4] Così Angela Merkel il 19 maggio 2020 a commento dell’accordo sul Next Generation EU in sede di Consiglio Europeo: «Lo Stato nazionale non ha futuro, la Germania starà bene solo se l’Europa starà bene».
[5] Il fracking (o hydrofracking) è una tecnica estrattiva che sfrutta la pressione di un fluido, in genere acqua, per creare e poi propagare una frattura in uno strato roccioso nel sottosuolo. La tecnica del fracking – nota anche come “fratturazione idraulica” – è discussa in tutto il mondo per i rischi ambientali che comporta, in particolare sismici, al di là dei benefici che l’utilizzo del gas genera rispetto a quello del carbone.
[6] L’Italia importa gas dalla Russia (38,2%), dall’Algeria (27,8%), dall’Azerbaijan (9,5%), dalla Libia (4,2%) e per il 2,9% dal Nord Europa (nello specifico da Norvegia e Olanda). Dati Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.
[7] International Energy Agency (IEA), Global Energy Review: CO2 Emissions in 2021, marzo 2022.
[8] Il dato cinese sorprende solo in prima battuta. Si consideri che – come si è detto in precedenza – la regione sviluppata è soltanto quella della costa: le industrie sono quasi tutte lì.