“Fatti non foste a viver come robot” di Marco Magnani
- 22 Gennaio 2021

“Fatti non foste a viver come robot” di Marco Magnani

Recensione a: Marco Magnani, Fatti non foste a viver come robot, UTET, Milano 2020, pp. 288, 15 euro (scheda libro)

Scritto da Giacomo Centanaro

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Fatti non foste a viver come robot (UTET 2020), così come le innovazioni di cui tratta, è il prodotto dell’incontro di variabili diverse per natura e provenienza. È il lavoro di un economista, di uno studioso appassionato di storia e quindi di un attento osservatore dei cambiamenti della società in cui vive. Il risultato è un saggio ricco che si colloca all’epicentro della triade economia-società-tecnologia, e in questo non vi è alcuna contraddizione poiché i tre elementi sono uno in funzione dell’altro e i bisogni, le idee e la natura stessa dei processi innovativi sono umani. Questo perché i processi produttivi e la natura dei servizi sono, nelle necessità che li originano e negli effetti che producono, lo specchio di una società. Il libro di Marco Magnani, a partire dalla copertina – un corpo robotico su cui capeggia un mezzo busto marmoreo raffigurante Ulisse – mette l’essere umano al centro. Lo fa evocando, da subito, il concetto alla base della millenaria attività dell’uomo come pastore: l’umanità, per il suo benessere, deve stimolare le innovazioni, permettendo a queste di svolgere la loro funzione di motore di crescita economica ma allo stesso tempo deve dirigere sapientemente i fenomeni, senza sfoghi luddisti. Se in passato un nuovo equilibrio nel mondo del lavoro durava diverse generazioni, la frequenza delle innovazioni dirompenti non è mai stata così veloce come negli ultimi venti anni, «ogni generazione è testimone, nel corso della propria vita lavorativa, di diverse innovazioni radicali» (p. 16). All’automazione fisica si affianca anche quella cognitiva e per la prima volta sono a rischio professioni con competenze elevate e si fa sempre più forte il disallineamento tra le competenze richieste dalle imprese e quelle offerte dai lavoratori. Magnani affronta interrogativi che per le società occidentali contemporanee rappresentano una spada di Damocle: la crescita economica può continuare inesorabilmente? È possibile coniugare la sostenibilità ecologica con quella sociale? Come governare le nuove innovazioni in campo digitale e robotico per tutelare imperativi sociali?

Quali cambiamenti deriveranno dalla nuova ondata di innovazioni tecnologiche e quale impatto avranno sul benessere della società? Nella storia, la distruzione creatrice provocata dall’applicazione massiccia di innovazioni ha sempre scardinato cambiamenti dirompenti, «scardinando equilibri consolidati» ma nel lungo periodo «ha sempre avuto un impatto positivo su crescita e occupazione» (p. 11). Ed è questo che ha permesso alle società di ogni epoca storica – con innovazioni incrementali o meno, si veda il progressivo miglioramento dell’aratro in epoca medioevale e quindi l’incremento della produzione agricola o la macchina a vapore – di superare vincoli demografici e delle risorse disponibili e di sfuggire quindi ai timori di Malthus. La questione che pare sempre più urgente non è quindi solo quella sociale ma anche quella che attiene al rapporto tra economia e ambiente, affrontata anche da Kenneth Boulding con le due metafore opposte della cowboy economy (caratterizzata da abbondanza di risorse) e della spaceman economy (con risorse limitate e quindi necessariamente attenta a temi di sostenibilità).

Nella ricognizione storica dell’impatto delle innovazioni sullo sviluppo delle società, Magnani sottolinea come altrettanta attenzione vada prestata a innovazioni di carattere organizzativo e finanziario. Queste ricoprono il ruolo fondamentale di cinghia di trasmissione tra il cambiamento tecnologico e la crescita economica, consentendo in maniera più efficiente ed efficace allocazioni di capitale, transazioni e gestione dei rischi. Le innovazioni finanziarie hanno da sempre consentito quindi lo sviluppo e la diffusione di nuove tecnologie, si pensi all’importanza delle banche di investimento nel valutare e monitorare la redditività delle compagnie ferroviarie e quindi nel consentire ai tradizionali fornitori di capitale, poco propensi ai rischi, di investire e quindi sostenere un nuovo settore. Questa dinamica si ripropone attualmente con le società di venture capital, capaci di valutare e comprendere le opportunità offerte dalle nuove startup, che spesso faticano a presentarsi e a essere “comprese” dal sistema finanziario tradizionale. Un esempio è la collaborazione tra operatori finanziari (capitali e conoscenza dei mercati) e grandi aziende farmaceutiche (conoscenze scientifiche e reti di distribuzione): «la storia della biotecnologia nel XXI secolo rappresenta una naturale prosecuzione del circolo virtuoso tra innovazione finanziaria, cambiamento tecnologico e crescita economica» (pp. 36-37). Questo dimostra come un processo innovativo coinvolga inevitabilmente ogni aspetto e dimensione di una società. Le nuove tecnologie influenzano il modo di vivere, pensare, produrre e lavorare», il processo innovativo quindi non è confinato solo alla dimensione economico di crescita ma anche a una puramente umanistica dovuta all’introduzione di «nuovi modelli mentali, culturali, strategici» (p. 43).

Questo è evidente in una serie di innovazioni tecnologiche, il cui potenziale impatto economico e sociale viene enucleato in un capitolo che stila anche un bilancio delle minacce e delle opportunità che ne derivano, dalla robotica avanzata alla manifattura additiva, dall’Internet of Things all’intelligenza artificiale e i processi collegati di machine e deep learning. Secondo l’autore, il compito primario di ogni innovazione è quello di migliorare la vita dell’uomo, e di farlo in maniera generalizzata. Questo può sembrare banale, ma non è scontato, soprattutto guardando ai potenziali impatti della rivoluzione tecnologica sull’occupazione caratterizzati, da tre distorsioni: «sono a intensità di capitale, quindi sfavoriscono chi investe rispetto a chi offre lavoro; sono a intensità di competenze, quindi sfavoriscono i lavoratori che hanno forti abilità tecniche; sono a risparmio di manodopera, quindi tendono a ridurre il numero complessivo di lavoratori poco specializzati» (p. 95). Questo condurrà a un maggiore rischio non solo per mansioni pericolose o semplici ma anche per professioni complesse e che richiedono elevati gradi di istruzione.

L’autore è però intenzionato a dare una lettura più complessa di una semplice ricognizione dei rischi derivanti dal “nuovo”, ed evidenzia, per esempio, come le nuove tecnologie possano sostituire i lavoratori in mansioni difficili, rischiose o addirittura impossibili e come la tecnologia in molti casi possa aumentare la qualità del lavoro dell’uomo, aumentandone benessere e produttività – per esempio un operaio aiutato nelle sue mansioni da un esoscheletro; «diminuiscono gli operai ma aumentano gli addetti a controllo e supervisione della produzione». Tra le prospettive future non vi sarebbe solo quella della scomparsa di numerose professioni tradizionali, quanto una loro evoluzione, affiancata dalla nascita di nuove, specifiche figure. Se, per esempio, BlackRock, Goldman Sachs e JP Morgan hanno da tempo iniziato a sostituire i consulenti con piattaforme di Intelligenza Artificiale per individuare opportunità di investimento attraverso l’analisi di milioni di notizie, la crescita del settore fin-tech (uso della tecnologia per migliorare le attività finanziarie) determinerà il bisogno di figure come data scientist e analyst ed esperti di regolamentazione e cybersecurity.

Un altro modo in cui l’automazione può creare occupazione è la capacità di rendere meno importanti o addirittura irrilevanti per le imprese i vantaggi derivanti dalla delocalizzazione per abbattere i costi del lavoro. Questo favorisce il rientro in patria di aziende manifatturiere precedentemente delocalizzate che così facendo si avvicinano ai mercati di sbocco finale (reshoring); l’autore evidenzia come la tendenza sia già in atto da diversi anni negli Stati Uniti, con importanti gruppi manifatturieri (Lockheed Martin, Ford e altri) ma anche tecnologici (Apple, Microsoft e Google). Il motivo alla base di questa tendenza non è solo l’aumento del costo del lavoro nei paesi emergenti ma anche «la maggiore efficienza della supply chain quando la produzione è prossima ai centri di ricerca e sviluppo e ai clienti, il risparmio di dazi doganali […] anche per contrastare la perdita di proprietà intellettuale» (p. 103). L’autore fa notare come, nonostante le ricadute occupazionali di questo fenomeno non siano molto rilevanti in termini di numeri, – le fabbriche chiuse dalla delocalizzazione riaprono ospitando al loro interno non più operai, bensì robot – l’impatto rimane positivo in virtù degli investimenti, dei posti di lavoro qualificati e del conseguente indotto.

Tra le opportunità offerte dall’innovazione tecnologica vi è sicuramente anche l’aumento della sostenibilità ambientale, che consente di affrontare il più importante vincolo alla crescita che si pone alle società contemporanee e che influisce direttamente sugli standard di vita delle popolazioni e sul sistema finanziario mondiale, includendo anche questioni relative alla quantità, qualità e sicurezza di approvvigionamento delle risorse alimentari (per via della maggiore volatilità dei prezzi agricoli dovuta a sempre più improvvisi e catastrofici eventi ambientali) e della disponibilità di acqua dolce.

Ma la questione che troneggia su tutte è il timore di trovarci davanti a una stagnazione secolare, le cui cause dividono gli economisti: sono da collocare dal lato dell’offerta o della domanda? Le aziende dell’economia digitale hanno meno dipendenti e quindi «la diminuzione della forza lavoro si traduce in un calo strutturale dei consumi» (p. 147) e in termini di investimenti i colossi digitali investono di meno, in quanto non necessitano di impianti e infrastrutture (Airbnb non ha alberghi, Uber non possiede una flotta di veicoli e Netflix non possiede sale cinematografiche). Questo fenomeno, insieme alla maggiore propensione al risparmio e alla crescente precarizzazione, costituisce quindi una forte restrizione alla domanda aggregata. Dal lato dell’offerta però si ha l’ipotesi che «le grandi innovazioni generatrici di rilevanti incrementi di produttività sarebbero già state per la maggior parte introdotte»; dunque il riapparire di tassi di crescita più modesti sarebbe quindi inevitabile.

L’innovazione tecnologica impatta sull’economia attraverso due canali di trasmissione: la creazione di valore grazie all’aumento di produttività (quindi diminuzione dei costi di produzione) e di personalizzazione dell’offerta; l’ampliamento delle dimensioni dell’economia con l’aprirsi di nuovi cicli di sviluppo. Il primo canale, tuttavia, non determina automaticamente un aumento dell’occupazione: a dispetto di quanto è avvenuto in passato, nell’economia digitale il passaggio tra produttività, crescita dei salari, aumento dei consumi e, infine, occupazione non è scontato. Questo perché «il valore economico creato è in larga misura ripartito tra i consumatori, in termini di riduzione dei prezzi, e chi ha investito il capitale. Molto meno va a migliorare la remunerazione del lavoro […] la maggiore efficienza produttiva potrebbe non avere effetti netti positivi sull’occupazione» (pp. 158-159). Guardando al secondo canale, l’introduzione di tecnologia permette la creazione di nuovi prodotti e servizi e quindi, a cascata, di nuove attività e nuovi mercati. La tecnologia “allarga” l’economia dando avvio a nuovi cicli di sviluppo. Questo processo può richiedere tempo e causare nel breve termine una flessione di crescita e occupazione ma, dopo un periodo di transizione, l’economia in passato è sempre cresciuta insieme all’occupazione.

Il timore, però, è che il circolo virtuoso di crescita, occupazione e benessere possa non replicarsi. In effetti, secondo le statistiche, a partire dal 2000 negli Stati Uniti crescita e occupazione non sono più strettamente accoppiate: «jobless growth e disoccupazione tecnologica sono rischi concreti» (p. 161). Il grande paradosso moderno è composto da produttività elevata e innovazioni disruptive sempre più frequenti, veloci e pervasive nei loro effetti sui mercati, che convivono con una diminuzione dell’occupazione e una sempre maggiore difficoltà di adattamento delle competenze. Nella nuova geografia del lavoro e della competizione internazionale a vincere sono i paesi che riescono ad accogliere le innovazioni e ad adattarvisi, senza ricorrere a strumenti protezionistici, che non supereranno la prova del lungo periodo. In tutto questo, si collocano profonde questioni di disparità salariale, in quanto a resistere ai cambiamenti sono lavori che richiedono vicinanza fisica e contatto personale, come i servizi alla persona, o mestieri creativi e manageriali: tutti gli step intermedi tra i due estremi sono quelli sempre più sostituiti dalle macchine. L’autore sottolinea come questo aspetto costituisca una minaccia sociale, in quanto il lavoro è un elemento imprescindibile dall’identità e realizzazione personale di ogni cittadino; «l’uomo viene da secoli d’identità chiara nella società, strettamente collegata al proprio lavoro», oggi non è più scontato. In tutto questo si inserisce il rapporto da intrattenere con le innovazioni tecnologiche, complicato da questioni etiche, giuridiche ma soprattutto “di prospettiva” riguardo al ruolo che sarà riservato all’azione umana. L’autore passa quindi in rassegna le diverse teorie economico-sociali che affrontano il tema: i cui estremi sono rappresentati dall’ozio e reddito universale da una parte, la piena occupazione garantita – indipendentemente dal livello di automazione – dallo Stato dall’altra. Le proposte di politiche innovative “riformatrici” e non radicali sono però numerose, tra le quali: reddito minimo garantito, il concetto di no robotization without taxation (che prevede che i proventi derivati da una tassa sui robot siano impiegati per finanziare, ad esempio, programmi di riqualificazione per i lavoratori licenziati) o il “dividendo digitale”, da distribuire ai cittadini a fronte della cessione dei loro dati personali, che sono di grande valore per le aziende digitali.

La rivoluzione che fino a ora è stata descritta insieme alle implicazioni è, secondo Magnani, primariamente politica, poiché comporta «scelte di valore che la collettività deve fare per sé e per le generazioni future. La prima scelta […] è se dare priorità alla crescita a ogni costo o mettere l’uomo al centro» (p. 222). Non sembra più possibile che il sistema economico trovi autonomamente un punto di equilibrio; si deve ricercare una via che permetta all’umanità di interagire con la tecnologia cercando di coniugare gli imperativi sociali con la crescita, seguendo un sistema valoriale solido che venga espresso in un nuovo quadro normativo «che regoli alcune criticità – legali, fiscali, etiche – relative alle nuove tecnologie e che aiuti a inserire i vincoli di sostenibilità nel modello di crescita economica» (p. 223). La nuova politica economica dovrà rendere vantaggiosi comportamenti sostenibili, non una “rottamazione” ma un “aggiustamento” dell’attuale modello di sviluppo che, peraltro, ha a lungo dimostrato di essere migliore di altri dal punto di vista sia economico che sociale e di sapersi adattare ad aggiustamenti (tutele del lavoro, welfare, normative antitrust). A quale livello è possibile concepire gli interventi per affrontare problematiche diffuse ed eterogenee? Si va da necessità di coordinamento mondiale a sinergie locali tra cittadini, imprese e amministrazioni. E quale modalità dare a questi interventi? Coercitivi, sanzionatori, incentivanti, disincentivanti o di persuasione? L’autore discute delle possibili modalità che queste possono assumere, definendo come fondamentale però l’introduzione di strumenti di valutazione delle politiche che tengano in considerazione tutti i diversi fattori che contribuiscono al benessere della popolazione.

Le sfide che si pongono ai decisori per essere affrontate necessitano misure che riducano la tassazione del lavoro, creino un terreno fertile per l’innovazione e promuovano la riqualificazione professionale. Questi aspetti sono centrali in una visione, come quella di Magnani, che mira a includere il potenziale benefico delle innovazioni tecnologiche senza escludere gli imperativi sociali. L’autore cita la necessità di sostenere l’occupazione in aree che rischiano di perdere la competizione con l’attrattività dei centri urbani e l’importanza nel «dare dignità al lavoro precario, saltuario e a collaborazioni di tipo informale che non rientrano in modelli standard». Dal welfare tradizionale occorre evolvere verso una concezione «in cui diritti sociali standardizzati sono sostituiti da diritti ritagliati sui bisogno effettivi delle persone» (p. 241). L’ipotesi formulata dall’autore per rispondere e prevenire esasperazioni della disparità di opportunità formative e occupazionali derivanti dalle disuguaglianze economiche è la combinazione di tre misure che mirano non a distribuire, bensì a pre-redistribuire i mezzi necessari per generare ricchezza. Ognuna di queste tre misure è pensata per sostenere il cittadino in una diversa fase della sua vita: «istruzione di base e gratuita (per la scuola), prestito universale (per formazione universitaria o professionale) e capitale di dotazione (per il periodo lavorativo e della pensione)» (p. 247).

Sicuramente, uno dei maggiori pregi di Fatti non foste a viver come robot è la capacità di fare chiarezza e dare il contesto necessario a chiunque voglia affrontare le tematiche ricondotte al grande campo, dai contorni incerti, della “Innovazione”, combinando una grande capacità espositiva con il valore e la complessità delle riflessioni offerte. È chiaro che la nostra epoca è testimone di rischi, ma anche di opportunità uniche e questo saggio offre un’analisi che alle considerazioni economiche affianca il precipitato di queste sulla realtà sociale e che include sia l’azione pubblica sia quella privata. La soluzione deve provenire dal sistema paese, in cui la cittadinanza, le imprese, le amministrazioni locali e il governo centrale hanno ognuno un ruolo necessario da giocare. L’universo che accompagna e circonda il tema della rivoluzione tecnologica è spesso percepito come asettico, un freddo distillato di laboratorio, ma, come Marco Magnani ci dimostra, non c’è nulla di più umano. Gli uomini hanno dedicato e spesso devono la propria vita proprio allo sforzo intellettuale alla base dell’azione innovatrice, uomini in quanto capaci di incrinare gli equilibri esistenti, sia che questa azione richieda secoli sia che richieda pochi anni. Proprio da questo punto di vista, forse, la scelta di Ulisse per incarnare l’Umanità è particolarmente efficace: perché l’Odissea, come la storia umana, è un continuo susseguirsi di equilibri spezzati e perché «favorire la centralità dell’uomo non significa rifiutare il progresso».

Scritto da
Giacomo Centanaro

Laureato presso la Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze. Ha conseguito titoli post-laurea presso l’Università LUISS di Roma e ha completato un periodo di studio presso l’Université Paris 1 Pantheon-Sorbonne. È stato coordinatore del Limes Club Firenze ed è alumno della Scuola di Politiche.

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