“Filosofia prima filosofia ultima” di Giorgio Agamben
- 27 Novembre 2023

“Filosofia prima filosofia ultima” di Giorgio Agamben

Recensione a: Giorgio Agamben, Filosofia prima filosofia ultima. Il sapere dell’Occidente fra metafisica e scienze, Einaudi, Torino 2023, pp. 128, euro 15 (scheda libro)

Scritto da Giulio M. Cavalli

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In Filosofia prima filosofia ultima. Il sapere dell’Occidente fra metafisica e scienze, Giorgio Agamben estende la sua indagine “archeologica” al concetto di metafisica o «filosofia prima», al fine di «intendere la funzione strategica che questo concetto ha svolto nella storia della filosofia» (p. 3). L’interesse per una simile indagine non è di carattere meramente erudito, poiché l’ipotesi che la muove e che la guida, in accordo con l’approccio dell’autore, è ricca di implicazioni filosofiche, riguardanti la struttura e l’efficacia del nostro sapere. Per Agamben, infatti, «dalla possibilità o dall’impossibilità di una filosofia prima – o di una metafisica – dipendono le sorti di ogni pratica filosofica» (p. 3), e ciò che viene messo in questione è la «relazione di dominio o di sudditanza», il «conflitto fra la filosofia e la scienza nella cultura occidentale» (p. 4). Tale conflitto, com’è noto, è esploso nella modernità, quando Kant ha dichiarato «l’impossibilità di una filosofia prima», compiendo così il passo che «definisce lo statuto del pensiero moderno» (p. 3); tuttavia, secondo Agamben, le origini di questo conflitto e della conseguente sconfitta della filosofia sono addirittura rintracciabili già nella Metafisica aristotelica. L’arco temporale percorso dall’indagine agambeniana, scandita in sei capitoli brevi ma densi, copre quindi l’intera tradizione della metafisica occidentale, da Aristotele (cap. I) a Heidegger (VI), e ne analizza i momenti intermedi più significativi, cioè la scolastica (II-IV) e, appunto, la filosofia kantiana (V).

La metafisica è forse nata prima di Aristotele, ma lo Stagirita è stato il primo pensatore occidentale a interrogarsi con attitudine “metafilosofica” sullo statuto epistemico di questa disciplina, che egli chiama «filosofia prima» (prote philosophia). Il suo problema è quello di garantire alla filosofia prima lo statuto epistemico di scienza teoretica autonoma, cioè distinta dalle altre scienze analoghe (matematica e fisica) e, soprattutto, superiore, “prima” rispetto ad esse. Tale priorità, che è l’aspetto più importante da considerare qui, risiede nel fatto che l’oggetto della filosofia prima, secondo lo Stagirita, è più universale degli oggetti della matematica (le quantità) e della fisica (gli enti naturali in movimento); quale sia questo oggetto, tuttavia, non è chiarito a sufficienza da Aristotele, il quale fornisce anzi risposte diverse, e forse persino contraddittorie, che hanno originato controversie secolari. Nel primo capitolo, Agamben ricostruisce il dibattito intorno a questo problema, presentando e discutendo, in maniera sintetica ma efficace, le posizioni più rilevanti, sempre a partire da una lettura diretta – talvolta anche originale – dei testi aristotelici. L’oggetto della filosofia prima, per Aristotele, sembra essere sia (I) l’«ente in quanto ente» (on hei on), stando al testo di Metafisica Gamma, sia (II) il «divino» (theion), cioè le sostanze eterne e immateriali, stando al testo di Metafisica Epsilon. Di conseguenza, la filosofia prima sarebbe sia (I) una «ontologia», la scienza che studia non un genere particolare di enti (come la matematica e la fisica) ma l’ente «in generale» (haplos), sia (II) una «teologia», la scienza che studia un genere particolare di enti, gli enti divini, che sono «separati» (chorista) e «immutabili» (akineta). Il problema, come hanno notato interpreti importanti come Natorp e Aubenque, è che queste due definizioni della filosofia prima sono a prima vista incompatibili, perché una scienza dell’ente in quanto ente – che studia cioè la struttura ontologica comune a tutti gli enti, ciò in virtù di cui un particolare ente è appunto un ente – non può studiare gli enti in quanto separati e immutabili, dato che la separatezza e l’immutabilità sono proprietà che non appartengono a tutti gli enti ma solo a quelli divini. Secondo Agamben, tuttavia, l’incompatibilità fra le due definizioni di filosofia prima è solo apparente. Egli legge infatti i riferimenti aristotelici alla “divinità”, “separatezza” e “immutabilità” dell’oggetto della filosofia prima in senso non letterale: non si tratta di proprietà che contraddistinguono i soli enti divini, poiché, al contrario, ogni ente, considerato in quanto ente o in generale, è sia “separato” e “immutabile”, nel senso che viene studiato nella sua struttura essenziale e necessaria, astratta col pensiero dagli accidenti contingenti della materia, sia “divino”, nel senso che possiede l’assolutezza, la priorità, l’universalità, quindi la perfezione e la “nobiltà” di ciò che è divino, come comprese Avicenna (pp. 14-18).

L’altro problema relativo allo statuto della filosofia prima, secondo Agamben, concerne la sua autonomia rispetto alle altre due discipline scientifiche che fin dai tempi di Aristotele hanno ambito ad essere “prime”: la matematica e la fisica (a cui si aggiungerà poi la teologia). L’autore osserva infatti che tutti i testi nei quali occorre l’espressione prote philosophia rivelano «l’impossibilità di definire il suo oggetto se non rispetto a quello delle altre due. La filosofia prima nomina, cioè, uno spazio epistemico la cui unità è da una parte apertamente rivendicata, e dall’altra incessantemente messa in questione. E il nesso fra questi due gesti è così stretto, che si è potuto scrivere che la filosofia prima si costituisce per differenziazione rispetto alla fisica e che pertanto “il concetto di filosofia prima è un concetto di filosofia seconda”» (p. 27). Ad essere davvero in questione, già con Aristotele (se non con Platone), è insomma «l’unità del sapere» e la capacità di «governare i conflitti che nascono dalle partizioni interne a questa pretesa unità» (p. 27), poiché tutto ciò è storicamente dipeso dalla possibilità di un ordinamento gerarchico dei saperi – fondato, per lo Stagirita, sulla maggiore universalità dell’oggetto della filosofia prima rispetto agli oggetti delle altre scienze. Secondo Agamben, proprio l’originaria volontà della filosofia di essere prima, cioè «sovrana […] sulle altre scienze» (p. 28), ha segnato il suo destino nella cultura occidentale, che l’ha condotta ad «asservirsi ad esse», dapprima come «ancilla theologiae» e «ora, secondo ogni evidenza», come «impotente ancilla scientiarum» (p. 29). Al contrario, la rinuncia «a porsi come scienza», insieme con una maggiore attenzione alla delimitazione degli «ambiti rispettivi», «avrebbe assicurato tanto alla filosofia che alle altre scienze non sovranità o dipendenza, ma una piena e reciproca autonomia» (pp. 28-29).

I capitoli successivi sono dedicati alla ricostruzione delle vicissitudini della metafisica, al fine di mostrare come sia potuto accadere che essa si riducesse a «impotente ancilla». Nel medioevo «la filosofia prima di Aristotele, divenuta ormai metaphysica, continua a essere definita da un’intima scissione e, insieme, dall’incondizionata pretesa di sovranità sulle altre scienze» (p. 34). È in questo periodo che l’ambiguità della metafisica tra ontologia e teologia trova «la sua formulazione più radicale» con Avicenna e Averroè. Le loro rispettive posizioni, come l’autore mostra con dovizia di particolari (pp. 34-37), sono state ritenute non inconciliabili da filosofi come Tommaso d’Aquino, ma sembra che tra le due la vincente sia stata quella ontologica di Avicenna. Con Duns Scoto la metafisica diventa «scientia transcendens, sia nel senso che essa ha per oggetto […] i predicati trascendentali, sia perché essa si definisce costitutivamente attraverso il suo trascendere le altre scienze speciali» (pp. 36-37). I cosiddetti «trascendentali» (ens, unum, verum, bonum) sono «i termini più generali e comuni a tutte le cose, […] inseparabili dall’essere fin quasi a coincidere con esso», e sono stati chiamati così «perché trascendono ciascuna delle categorie di Aristotele» (p. 39). Intesi in questo senso, i predicati trascendentali erano certamente già contemplati dallo Stagirita fra gli oggetti della filosofia prima, quali proprietà formali di ogni ente in quanto ente: ad esempio, è rimasta celebre la tesi aristotelica secondo cui i concetti di «ente» (on) e di «uno» (hen) si “convertono” reciprocamente perché hanno la medesima, massima estensione (p. 41). Tuttavia – e sta qui la novità radicale dell’ontologia scotista –, se ad Aristotele interessava soprattutto determinare la struttura comune a ogni ente in quanto esistente, costituita dalle sue «cause prime», che nulla hanno a che vedere coi predicati più universali (in estensione) e perciò più vuoti (in intensione), «a partire dal secolo xiv» l’indagine metafisica, come Agamben non manca di rilevare, si sposta invece «dall’esistente alla rappresentazione, dalla sfera dell’essere a quella della conoscenza» (p. 38). Assumendo come oggetto della propria indagine i predicati trascendentali e i loro soggetti possibili, la metafisica si trasforma infatti in una disciplina puramente formale, che indaga non più la struttura causale dell’«obiectum, l’oggetto reale», bensì la struttura formale dell’«obiectivum, il puro correlato di ogni atto di conoscenza, indipendentemente dalla sua esistenza al di fuori della mente» (p. 38). Intesa come scientia transcendens, dunque, «la metafisica non delimita più un ambito dell’essere, il più ampio e comune, del quale le scienze ricevono in carico una regione, ma una sfera della conoscenza, la più generica e indeterminata», e ciò favorisce il rafforzamento dell’«autonomia dei saperi che a questa conoscenza vuota di oggetti sostituiscono delle operazioni efficaci e dei contenuti determinati» (p. 38).

Questo progressivo svuotamento della metafisica, che si accompagna all’estensione del suo ambito d’indagine dal reale al possibile (il conoscibile, il pensabile, il dicibile), nonché a un formalismo sempre più esasperato, è testimoniato in maniera «decisiva» dalla fortuna filosofica del «termine “cosa”, che acquisterà una sorta di primato tra i trascendentali, fino a costituirsi nel secolo xvi come una sorta di “supertrascendentale”» (p. 48). Infatti, “cosa” (res) differisce da “ente” (ens) in questo, che “ente” si riferisce a qualcosa in quanto realmente esistente (per i Greci ta onta era sinonimo di “realtà”), mentre “cosa” si riferisce a qualcosa in quanto oggetto del conoscere, del pensare, del dire – ed è quindi il termine che «nomina […] la pura intenzionalità del linguaggio, cioè il fatto che ogni enunciato si riferisce a qualcosa, indipendentemente dalla sua esistenza fattuale» (p. 43). «Comincia così il processo che porterà progressivamente, ma inflessibilmente, a trasformare la teoria dell’essere in una dottrina della conoscenza, l’ontologia in una gnoseologia […], che in Kant raggiungerà la sua massa critica» (p. 57). Ciò che Kant approfondisce di tale problematica è in particolare il «modo in cui le nostre rappresentazioni si riferiscano a un oggetto» (p. 57), ed è in questo contesto che egli impiega la nozione di «oggetto trascendentale», «perfettamente corrispondente al supertrascendentale degli scolastici» (p. 83) e che per Agamben equivale al «noumeno» – termine col quale Kant indica un oggetto pensabile ma non propriamente conoscibile, poiché non si manifesta empiricamente come «fenomeno». Introducendo la distinzione fra il pensabile e il conoscibile, il concetto di noumeno opera come «concetto-limite» funzionale alla «critica della ragione». La Vernunft, infatti, quando trascende – ad esempio nella moderna metafisica razionalistica – l’ambito conoscitivo determinato dalla sintesi di intelletto e sensibilità, si illude di trovare oggetti reali corrispondenti ai «concetti puri» dell’intelletto, alle pure forme del conoscere, là dove, invece, può imbattersi in oggetti soltanto pensabili, noumenici. Da un lato, dunque, la metafisica come prodotto della ragione, non potendo conoscere nulla di (empiricamente) reale, non è una scienza, e in questo senso sembra venire definitivamente detronizzata a favore delle scienze naturali. Dall’altro lato, tuttavia, c’è ancora «un ambito in cui il noumeno svolge una funzione che […] assicura alla metafisica […] la sua legittima pretesa regale» (p. 84), che è appunto la critica della conoscenza, ossia la determinazione dei limiti nell’uso dei concetti puri: «Ancora una volta il primato della regina di tutte le scienze subisce una conferma e, insieme, una perentoria restrizione a favore delle scienze. […] Il trascendentale è il fortilizio in cui la metafisica, di fronte al progresso incessante delle scienze, si è arroccata per mantenere in qualche modo il suo primato su di esse, pretendendo così di limitare e, insieme, fondare il loro ambito di validità. Per far questo, essa ha dovuto svuotarsi di ogni riferimento all’esperienza […]. Quel che di fatto è avvenuto […] è che le scienze hanno proseguito il loro inarrestabile svolgimento senza curarsi né di limiti né di fondamenti e la regina ha dovuto accettare di aver perso ogni controllo sui suoi pretesi sudditi e vassalli» (pp. 85-86). Ciò vale anche per la «fisica postquantica», che nella rinuncia «a ogni pretesa di accedere alla realtà delle cose in se stesse» si attiene sì alle «prescrizioni» della metafisica kantiana, ma solo perché «il concetto stesso di realtà», nel frattempo, «è stato messo fuori gioco» dalla stessa pratica scientifica «e sostituito dalla probabilità» (p. 86), indipendentemente dal “parere” della metafisica.

L’ultimo capitolo affronta Heidegger a partire dal suo continuo confronto con la metafisica aristotelica, pervenendo alla conclusione che «egli sostituisce alla scissione dell’oggetto della filosofia prima fra l’ente in quanto ente e il divino un’altra e più originaria scissione, quella fra l’essere e l’ente (la differenza ontologica). L’oggetto della filosofia permane in questo modo scisso e se il tardo pensiero di Heidegger consiste appunto nel tentativo di venire a capo di questa scissione, è quanto meno dubbio che egli sia riuscito a superarla» (p. 97). Infatti, se «il compito del pensiero» consiste nel «tentativo di pensare l’essere senza l’ente» (p. 98), è evidente che la scissione non possa affatto venire ricomposta, poiché l’essere viene nuovamente reificato come oggetto del pensiero, rischiando così di diventare «una sorta di arcitrascendentale, distinto ancora una volta dalle cose […] che in esso vengono alla presenza» (p. 98). L’esito dell’intera ricostruzione di Agamben, dunque, è che, finché la filosofia non riuscirà «a venire a capo» di «quella scissione originaria», pensando insieme «l’essere e l’ente», «la cosa e l’esistente», «il trascendentale e l’empirico», non sarà mai degna «del nome di scienza», sarà costretta a lasciare il posto di «regina delle scienze» a «una pseudoscienza che rinuncia a conoscere il reale per poter agire su di esso», e «il sapere dell’Occidente non potrà che dividersi in una pluralità di scienze, la cui unificazione resterà sempre problematica» (p. 100). Paradossalmente, conclude Agamben, bisogna riconoscere che sono state proprio le pretese universalistiche e fondazionalistiche della metafisica a legittimare «la validità dei saperi» particolari, così come è stata proprio «la separazione dell’essere dall’ente» a legittimare «la regionalizzazione dell’ontologia secondo la molteplicità delle scienze» (p. 101). In questo senso, è solo «nella sua inaggirabile erranza», nella storia delle sue illusioni, «che la metafisica costituisce il fondamento dei saperi dell’Occidente» – una situazione indubbiamente paradossale e aporetica, per uscire dalla quale la filosofia deve «rinunciare al suo primato per farsi ultima» (p. 101), diventando consapevole della contingenza cui è costitutivamente esposta, nella misura in cui essa può autodefinirsi soltanto «per differenziazione» dalle altre scienze. La metafisica si rivela allora «una donchisciotteria», sospesa com’è fra la propria necessità, connaturata all’uomo «animal metaphysicum», e la propria aporeticità, «che “sempre ci mette in una strada senza uscita”» (pp. 101-103).

Nella ricostruzione archeologica di Agamben si nota subito una lacuna che l’autore avrebbe potuto colmare in un capitolo intermedio fra Kant e Heidegger: mi riferisco, ovviamente, a Hegel, menzionato solo di passaggio nell’ultimo capitolo. Egli è stato infatti colui che nella modernità, più di chiunque altro, ha cercato di opporsi alla deriva formalistica della metafisica, dopo averla energicamente denunciata; per questo motivo, un capitolo sulla sua filosofia sarebbe stato quanto mai opportuno, anche solo per mostrare le ragioni del suo significativo fallimento. La critica agambeniana alla «dottrina della scienza» di Fichte, che figura in corpo minore come digressione conclusiva nel capitolo su Kant (p. 87), avrebbe in tal senso potuto fungere da perfetto ponte per una sintetica trattazione della metafisica hegeliana, dato che questa ha avuto origine proprio dalla critica alle «filosofie della riflessione» di Kant e Fichte. Tra le altre lacune, minori e fisiologiche, mi limito a segnalare che l’importante discussione sull’interpretazione “linguistica” delle categorie aristoteliche (pp. 18-26), cui Agamben contribuisce e che sta alla base di alcune tesi centrali del volume (che non posso menzionare qui), avrebbe sicuramente tratto giovamento dal confronto con l’imponente monografia di L. M. de Rijk, Aristotle. Semantics and Ontology (Brill 2002), che ben figurerebbe accanto agli altri studi specialistici citati dall’autore.

Lacune a parte, questo libro di Agamben ha il non trascurabile merito di riuscire a presentare in poche pagine una chiave di lettura unitaria e storicamente fondata del rapporto tra filosofia (prima) e scienze, capace di rendere ragione dell’odierna sconfitta dell’una, se così si può dire, a vantaggio delle altre. L’autore, riprendendo nella sostanza alcuni fondamentali studi aristotelici del secolo scorso, non sempre considerati come dovrebbero dagli odierni specialisti, fa vedere che i germi di tale sconfitta sono già presenti nell’originaria problematica dello Stagirita, riuscendo inoltre a far emergere in modo netto la logica interna dello sviluppo di questa problematica, contro tutte le semplificazioni che fanno di Descartes e Kant gli autentici “rivoluzionari” della filosofia moderna. Agamben mostra infatti come da Aristotele a Kant (se non a Heidegger), limitatamente a una problematica pure così fondamentale e pervasiva, vi sia una sostanziale continuità scandita da piccole e graduali trasformazioni concettuali, arrivando così a dipingere un quadro non solo storicamente più verosimile di altri, ma anche filosoficamente più pregnante. La ricostruzione agambeniana, opportunamente approfondita ed estesa, permetterebbe altresì di contestualizzare e valutare l’attuale revival della metafisica in ambito analitico, nonché la stessa “disputa” fra analitici e continentali, incentrata su una presunta contrapposizione tra una filosofia “rigorosa” ma formalistica e autoreferenziale, e una filosofia “concreta” ma irrazionalistica e letteraria. La stessa “svolta linguistica” del Novecento risulterebbe pienamente inseribile nel paradigma di Agamben, nel quale l’interesse per il linguaggio rappresenterebbe l’ultimo stadio di una metafisica che dall’essere è passata dapprima al conoscere, e poi – secondo la stessa logica di svuotamento – al pensare, al dire, al linguaggio stesso. Cos’altro rimane da indagare alla filosofia prima, se non la pura operatività algoritmica?

Bisogna in ultima analisi osservare che l’«archeologia» di Agamben, imparentata con la genealogia di Nietzsche e poi di Foucault, e con la decostruzione di Heidegger e poi di Derrida, non è forse il metodo più adatto per affrontare – ed eventualmente sciogliere – l’aporia donchisciottesca con la quale il volume si chiude. Per pensare in maniera costruttiva il rapporto tra filosofia e scienze, che è certamente un’esigenza da soddisfare nel presente, è infatti necessario interrogarsi anche – e soprattutto – sulla validità dei metodi e delle proposizioni delle “filosofie prime” (metafisica ed etica), al di là di considerazioni di ordine storico-culturale; e il metodo genealogico-decostruttivo, riconducendo il valere epistemico-normativo a quell’ordine di motivi, semplicemente elude tale questione. Nella sua disamina, Agamben si tiene alla larga da alcune ingenuità della tradizione nietzschiana, individuando il problema centrale della metafisica nel fatto che la ricerca di un’universalità sempre maggiore, necessaria per mantenersi in una posizione «sovrana» rispetto alle scienze, comporta una sempre maggiore mancanza di presa sul reale, di conseguenza soggiogato dalla tecnoscienza. Ma quando l’autore afferma, ad esempio, che la filosofia prima è subordinata alle altre scienze – tanto da essere in verità «seconda» – perché il suo oggetto viene definito «per differenziazione» dagli oggetti (già determinati) di quelle, egli sembra di nuovo ridurre il piano epistemico-normativo della validità al piano storico-fattuale della genesi. Che la metafisica dipenda geneticamente dalle altre scienze (e queste, a loro volta, dalla Lebenswelt, come insegna Husserl), e che in questo senso debba presupporle, lo sapeva persino il “panlogista” Hegel; ma dal punto di vista veritativo e normativo sono quelle a dipendere dalla metafisica, poiché solo una filosofia prima – ammesso e non concesso che invocarla abbia ancora senso – potrebbe fondare, cioè giustificare, la validità dei presupposti epistemici delle singole scienze, dai quali dipende la validità della conoscenza scientifica, e orientare eticamente la loro efficacia. Naturalmente, si potrebbe sempre obiettare che la separazione fra genesi e validità di un discorso è proprio l’errore secolare che Nietzsche e i suoi epigoni hanno finalmente smascherato, riconducendo il valere ideale a motivi fattuali; ma se tale obiezione fosse, a sua volta, “vera” (o che dir si voglia), allora non potrebbe nemmeno pretendere di essere più valida della posizione cui si oppone, finendo sostanzialmente per autodelegittimarsi.

Ciò che bisognerebbe chiedersi, dunque, è se e come possa esservi una filosofia prima capace di fondare e orientare gli altri saperi, indipendentemente da quanto è storicamente accaduto finora; e questa è una domanda che Agamben, almeno nel presente volume, non si pone. Egli si ferma davanti all’aporia donchisciottesca che la sua indagine archeologica ha tematizzato, non prima di aver evocato Hölderlin per accennare a una fin troppo vaga e scontata filosofia a venire, che «si decida ad abbandonare tanto l’essere quanto la sua roccaforte trascendentale per pensare una cosa che non sia mai separabile dalla sua apertura e un aperto mai separabile dalla cosa» (p. 100). Per ripensare il rapporto tra filosofia e scienze in una maniera che sia all’altezza del nostro tempo abbiamo bisogno di strumenti che la genealogia, la decostruzione e l’archeologia non possono fornirci; tuttavia, senza queste pratiche storico-diagnostiche, di cui il volume di Agamben è un esempio istruttivo, forse non sapremmo neppure da dove iniziare, né che senso possa avere, oggi, interrogarsi su tali questioni. E non è poco.

Scritto da
Giulio M. Cavalli

Dottorando in Filosofia presso l’Università di Parma. Laureato in Scienze filosofiche presso l’Università di Bologna. È membro del gruppo di ricerca bolognese Prospettive Italiane e socio fondatore del Centro Studi Giorgio Colli di Torino.

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