Recensione a: Stefano Mancuso, Fitopolis, la città vivente, Laterza, Bari-Roma 2023, pp. 168, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Enrico Comes
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Agli inizi degli anni Duemila, la pubblicazione dello studio condotto dal chimico dell’atmosfera Paul Crutzen e dal biologo Eugene Stoermer ha posto subito in chiaro quanto il nostro secolo si sarebbe progressivamente caratterizzato per una mutazione radicale della relazione tra storia umana e storia naturale, le cui conseguenze non avrebbero tardato a manifestarsi[1]. La tesi sostenuta dai due scienziati è che l’attività umana ha profondamente inciso sull’atmosfera e sui cicli naturali generando una mutazione irreversibile del nostro spazio di vita. Siamo così entrati in una nuova era geologica denominata appunto “Antropocene”, in cui con il termine “anthropos” si intende rimarcare il peso dell’agire umano. Una nuova era che mette fortemente in questione la sua condizione primaria, ovvero l’abitabilità, imponendoci di ripensare il nostro modo di stare nel mondo.
Con il libro intitolato Fitopolis, la città vivente, edito da Laterza, Stefano Mancuso sembra voler far fronte a tale sfida, auspicando sin dalle prime pagine una possibile soluzione: destinare gran parte della superficie delle città alle piante, facendo sì che «il rapporto fra piante e animali si riavvicini al rapporto che troviamo in natura: 86,7% piante contro 0,3% animali (uomini inclusi)» (p. 7). Un modo, quello più adeguato secondo l’autore, per «preparare le nostre città» ad affrontare i cambiamenti innescati dalla mutazione ambientale. Sempre più decisivo sarà infatti «il discrimine principale fra le città che si potranno adattare al riscaldamento globale e quelle che ne subiranno le conseguenze» (p. 137) – in altre parole, fra le città che sapranno assumere una dimensione ecologica e quelle che perpetueranno schemi consumistici. Ancora una volta, è alle piante che Mancuso si rivolge, tema a cui sono dedicate gran parte delle sue pubblicazioni[2]. Già, perché Mancuso, direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale dell’Università di Firenze, da anni conduce studi orientati a mostrare quanto il “comportamento” delle piante sia indispensabile per la nostra vita. Una prospettiva a lungo criticata ma che inizia ad essere sempre più confermata da evidenze scientifiche.
In questo ultimo libro Mancuso intreccia tale prospettiva con quella politica. Si tratta infatti di un invito a ridisegnare il volto delle nostre città, o, se vogliamo, della formulazione di un modello di città a cui aspirare. In tal senso, forzando gli intenti del libro, si potrebbe finire addirittura per interpretare Fitopolis, la città (polis) delle piante (phyton), nella scia di quei racconti utopici che teorizzano forme di città perfette. Del resto, basta combinare l’idea di una città caratterizzata da «vie degli alberi», «strade chiuse al traffico», «spazi dedicati alle piante», con una forte critica al modello di sviluppo moderno occidentale e il gioco è presto fatto. Tuttavia, nelle pagine che Mancuso ci consegna di utopico c’è ben poco. Non solo perché a sostegno della sua tesi l’autore fornisce dati e analisi scientifiche, ma anche perché “lì fuori”, nella realtà contemporanea in cui ci ritroviamo a vivere, alcune città hanno da tempo intrapreso un percorso di cambiamento come quello auspicato dallo stesso Mancuso. Oltre agli esempi riportati nel libro, è interessante tener presente la trasformazione che dal 2019 ad oggi ha riguardato un angolo di Princes Circus a Londra grazie al progetto The West End Project, rivolto anche ad altre aree della città. Resta però singolare il fatto che una soluzione fin troppo semplice come quella di lasciare spazio alle piante possa essere considerata utopica. Lo riconosce lo stesso Mancuso nel corso di alcune pagine e in particolar modo in quelle conclusive, in cui tenta di difendere strenuamente la sua idea da chi la taccia appunto di utopismo o dai «benaltristi», quelli che «magari bastasse coprire le strade di alberi, i problemi della città sono ben altri» (p. 156). Il libro, infatti, sembra rivolgersi proprio a quel demos «di dura cervice» (Es, 32,7-14): a costoro – ma non solo – Mancuso offre un’analisi chiara che cerca di ripercorrere la storia dell’idea di città così come è venuta articolandosi nell’ambito della cultura occidentale, mostrandone ogni possibile incongruenza.
Un’idea che ci riporta alla presunta centralità dell’umano elevato ai vertici di quella sin troppo nota “scala naturae”. «L’uomo è misura di tutte le cose» titola infatti il primo capitolo, nel quale, più che al filosofo greco Protagora, Mancuso fa riferimento a un paradigma sviluppatosi nel corso della modernità e che ha strutturato il nostro modo di intendere la realtà. Tale visione, secondo l’autore, affonda le proprie origini nell’incapacità del nostro cervello di processare la complessità del reale ed è, d’altra parte, dipendente «dall’insanabile avversione di fronte a tutto ciò che non ci è conforme» (p. 12). La stessa tutela della “natura” sembrerebbe paradossalmente soffrire di tale bias, essendo rivolta prevalentemente agli animali, ovvero a quegli esseri a noi più prossimi. Le campagne di sensibilizzazione e tutela sono infatti «quasi tutte limitate a mammiferi, soltanto qualcuna agli uccelli e pochissime agli anfibi (anche se, in pratica, sono scomparsi), ai rettili o ai pesci» (p. 20). Come mai, si chiede Mancuso, «siamo interessati (poco, sia chiaro) a quel misero 0,3% della biomassa che rappresenta la vita animale e non reputiamo degno di alcun interesse l’87% circa della vita, ossia le piante?» (p. 20). Non ce ne occupiamo semplicemente perché le piante stanno in fondo, ai piedi di quella scala naturae prima ricordata. Così distanti da noi e incomprensibili da essere addirittura invisibili agli occhi dell’uomo moderno, relegate a semplici risorse da utilizzare. «Rimuovendo la natura dal nostro sguardo, abbiamo iniziato a percepirci come al di fuori, o meglio al di sopra di essa» (p. 14). Un processo certamente di lungo corso, ma che in epoca moderna è venuto connotandosi ontologicamente, secondo la celebre distinzione ontologico-metafisica di natura e cultura. Quella che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk ha definito una “ontologia dello sfondo” in forza di cui si è ritenuto che l’essere umano fosse l’unico attore dotato di capacità agentive, libero di muoversi all’interno di un piano naturale a sua completa disposizione[3]. A lungo abbiamo creduto dunque di poter essere noi gli autori dell’evoluzione, rapportandoci alla natura in termini del tutto strumentali, piegandola alle nostre esigenze e plasmandola a nostra immagine.
È considerando la storia dell’architettura che si può comprendere la radicalità di tale discorso. Nella sua inclinazione a riprodurre “nicchie” utili per la propria sopravvivenza, l’essere umano non ha fatto altro che usare se stesso come termine di paragone. L’intera storia dell’architettura lavora con le dimensioni e le proporzioni del corpo umano, un «corpo che si fa architettura» come recita il secondo capitolo del libro. In fondo è quel corpo «che deve trovare riparo e che deve muoversi negli edifici» (p. 25). Il capitolo è volto allora a ripercorrere le varie tappe di tale idea, lungo un tragitto che connette antico e moderno e che da Leonardo e il suo Vitruvio passa al Le Modulor di Le Corbusier con la sua idea di creare uno strumento in grado di ricondurre le misure del corpo umano alle proporzioni della sezione aurea. Il riferimento a Le Corbusier permette inoltre di soffermarsi su un dettaglio interessante. La strategia antropomorfa adottata nel Modulor era volta a sfuggire a criteri di progettazione soltanto geometrici, per questo veniva da Le Corbusier stesso presentata come una forma di progettazione organica, che facesse cioè riferimento all’organismo umano. «Aveva ragione, è davvero la biologia la nuova parola dell’urbanistica; ciò che era sbagliato era limitare la biologia alla sola forma animale» (p. 30), commenta Mancuso.
L’approccio “biologico” ha trovato poi ulteriore formulazione con uno dei padri dell’urbanistica moderna, Patrick Geddes. Siamo nella Londra degli anni Cinquanta dell’Ottocento e Geddes, allievo di Thomas Henry Huxley, il noto “mastino di Darwin”, si preoccupò di adattare la teoria evoluzionista all’urbanistica, teorizzando una città “solidale”. Una città che «trae la sua forza fondamentalmente dalla cooperazione fra i suoi abitanti» (pp. 39-41) e che oggi, grazie agli studi della biologa Lynn Margulis, sappiamo essere sostenuta da prove scientifiche. Mancuso, inoltre, si sofferma nel mostrare la deriva assunta dalla teoria di Geddes allorché la stessa dottrina darwiniana ha finito per essere interpretata come “lotta per l’esistenza”. Un discorso che conduce il lettore al cuore del cosiddetto darwinismo sociale, di cui l’autore si preoccupa di mostrare i limiti teorici. Tuttavia, ciò che dell’analisi di Geddes è importante recuperare è proprio l’idea della città che in quanto organismo riceve influenza dall’ambiente, ma a sua volta è in grado di esercitarla.
Secondo la lezione dell’urbanista inglese, si tratta allora di leggere la città come un vero e proprio ecosistema al cui interno tutti gli enti sono funzionali al mantenimento della vita. Così facendo, occorrerà chiedersi come i nostri ecosistemi si stanno evolvendo in relazione ai cambiamenti ambientali. Uno sguardo alle specie animali che condividono con noi lo spazio urbano non lascia presagire niente di buono. Diversi sono gli esempi portati da Mancuso: dalle zanzare della metropolitana di Londra che hanno modificato il loro processo di vita per sopravvivere al chiuso, passando ai ratti di città i cui denti sono diventati più piccoli e il cui muso si è allungato per meglio rovistare tra i sacchi della spazzatura, fino poi alle falene i cui pigmenti diventano scuri in maniera proporzionale all’inquinamento atmosferico della città. L’uomo stesso sta producendo varianti fenotipiche, forse presto anche genotipiche, per adattarsi al contesto urbano. Da specie generalista la vita in città ci ha progressivamente reso una specie specialista, riducendo drasticamente le nostre possibilità di sopravvivenza. Così anche le piante stanno cambiando i loro comportamenti per adattarsi nel modo migliore ad un contesto urbano che toglie loro sempre più possibilità di crescita.
L’essere prossimi all’interno dello spazio urbano ha certamente comportato dei vantaggi in termini di sviluppo. La prossimità induce efficienza, «essere in tanti vuol dire moltiplicare le possibilità e dividere i costi. Tutto vero tranne che per alcuni aspetti, non secondari, che riguardano la nostra salute» (p. 81). Gran parte degli agenti patogeni in grado di infettare l’uomo sono la risultante dei cosiddetti spillover, salti di specie che trasportano, per via diretta o indiretta, malattie; il recente virus Covid-19 costituisce un fulgido esempio[4]. Senza considerare poi il consumo energetico di cui le città sono responsabili, quello che Mancuso definisce il «metabolismo urbano». Per crescere e sopravvivere le città si servono di risorse sempre più ingenti sulla cui provenienza non riflettiamo abbastanza: «già oggi avremmo bisogno di 1,6 Terre per mantenere gli attuali standard di vita, e in futuro andrà sempre peggio» (p. 94). Rifacendosi agli studi di Luis Bettencourt e alla sua tripartizione delle forme di sviluppo, Mancuso inquadra le città secondo il modello “superlineare”, tale per cui all’aumentare del numero delle persone, la richiesta di energia aumenta. Un po’ come le stelle, le nostre città bruciano in misura maggiore all’aumentare delle loro dimensioni e, così come esaurita l’energia intrinseca le stelle si spengono e cadono, anche le città vanno incontro ad un destino di esaurimento di risorse e successivamente di morte.
Che fare allora? Possiamo fare quanto è in nostro potere, ribadisce Mancuso, trasformando il metabolismo delle città da lineare in circolare. Per farlo occorre imparare dalle piante, apprendere da loro modelli di comportamento di cui noi umani sembriamo non essere più capaci. Nello specifico si tratta di replicare la modularità dei vegetali, il loro essere specializzati nella diffusione, nella condivisione e nella cooperazione. Occorre allora dismettere quelle forme di organizzazione gerarchica che finiscono per concentrare le risorse unicamente nelle mani di pochi. Per imparare dalle piante, però, dovremmo consentire loro di avere maggiore “cittadinanza” all’interno dei nostri spazi urbani. Dedicare loro apposite aree ripensando quindi le nostre abitudini di fruizione dello spazio. «So che a questo punto in molti starete pensando che, sì, sarebbe bello, ma è impossibile immaginare di chiudere le strade. Che forse lo si potrebbe fare, ma prima bisognerebbe migliorare lo stato e l’efficienza dei nostri mezzi pubblici. Che senza una mobilità alternativa è impensabile, eccetera eccetera» (p. 156). La risposta che Stefano Mancuso propone è semplicemente una: «facciamolo». È un compito certo non facile, ma occorre tentare di assolverlo in ogni modo possibile e nel minor tempo possibile. Occorre presto comprendere che dal modo in cui immagineremo le nostre città nei prossimi anni dipenderà gran parte delle nostre possibilità di sopravvivenza.
[1] Paul Jozef Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene! L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era, Mondadori, Milano 2005.
[2] Cfr. Stefano Mancuso, La tribù degli alberi, Einaudi, Torino 2022; Stefano Mancuso, La pianta del mondo, Laterza, Roma-Bari 2020; Stefano Mancuso, La Nazione delle Piante, Laterza, Roma-Bari 2019; Stefano Mancuso, Plant Revolution. Le piante hanno già inventato il nostro futuro, Giunti, Firenze 2017.
[3] Peter Sloterdijk, Che cosa è successo nel XX secolo?, Bollati Boringhieri, Torino 2017.
[4] Un interessante libro per approfondire la tematica spillover è quello di David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Adelphi, Milano 2017.