Flat tax, chi la vuole? Storia di un dibattito
- 19 Giugno 2018

Flat tax, chi la vuole? Storia di un dibattito

Scritto da Jan Mazza

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Per flat tax, letteralmente “tassa piatta”, si intende una tassa con aliquota costante – proporzionale, quindi, e non progressiva (con aliquote crescenti rispetto al reddito/patrimonio) né, al contrario, regressiva.

Nonostante l’uso improprio che media e politica italiani hanno diffuso nelle ultime occasioni, il termine flat tax ricorre con cadenza ciclica nel dibattito politico e, tra alterne fortune, continua a rappresentarne un riferimento – seppur, come vedremo, più ideale che pratico.

 

Origine e varianti della flat tax

Uno dei più celebri sostenitori di una variante di flat tax fu l’economista premio Nobel Milton Friedman, campione dei freshwater economists (economisti d’acqua dolce, come quelli di Chicago e della regione di Grandi Laghi), sostenitori del mercato libero e ostili agli interventi statali, tradizionalmente opposti ai saltwater economists, maggioritari nelle scuole americane affacciate sugli oceani e inclini ad accettare l’intervento pubblico per correggere i fallimenti di mercato. La proposta di Friedman è stata definita Negative Income Tax (NIT), in quanto implica la possibilità per contribuenti con un reddito (sottratte le debite deduzioni) sotto una certa soglia di ricevere una tassa negativa (ovvero un pagamento dallo Stato). Questo benefit avrebbe teoricamente consentito di sostituire gran parte delle agevolazioni offerte dal welfare state, considerate dispersive e inefficienti, insieme al relativo apparato burocratico.

La NIT rappresenta solo una delle possibili versioni di flat tax, che si distinguono per tre elementi fondamentali: (I) la definizione del reddito tassabile, (II) l’eventuale presenza di soglie (inferiori o superiori), (III) l’estensione delle deduzioni ammesse.

Primo, quale reddito includere? La risposta più semplice è tutto, ma non terrebbe conto di alcune situazioni particolari, come ad esempio i dividendi (di norma già tassati). Determinare il reddito sottoposto alla flat tax, inoltre, ha chiare implicazioni distributive: più estese le fonti prese in considerazione, meno rilevante tende a essere il carico regressivo derivante da forme di reddito da capitale solitamente meno tassate – oltre che concentrate nelle mani di un numero ristretto di contribuenti.

In aggiunta, diverse versioni di flat tax includono soglie inferiori, al di sotto delle quali l’importo dovuto può essere nullo o addirittura negativo (come nel caso della NIT), o superiori (capped flat tax), ovvero con nessun pagamento oltre una certa soglia – rendendo la tassa regressiva. Queste considerazioni evidenziano il ruolo della flat tax all’interno del sistema fiscale, il cui carico complessivo rischia di diventare regressivo se, di fianco a tasse tipicamente tali come quelle su reddito da capitale o sul consumo (l’italiana IVA), si affianca una tassazione sul reddito proporzionale anziché progressiva.

Infine, il labirinto delle deduzioni: definirle si è spesso rivelato il compito più gravoso per sostenitori e policy-maker. Se da una parte alcune voci non possono che essere detratte dal computo del reddito imponibile (interessi sui mutui, donazioni filantropiche, certe spese di gestione a loro volta difficili da determinare), dall’altra ogni dettaglio tecnico rappresenta un’implicita minaccia all’irresistibile fascino della flat tax, invocata proprio in virtù della sua semplicità.

La flat tax viene quindi proposta come nemica della burocrazia (proprio in quanto semplice, almeno sulla carta) e anche dell’evasione, grazie alla sua aderenza ai principi prescritti dalla cosiddetta curva di Laffer, consigliere economico di Ronald Reagan che ipotizzò un’ipotetica aliquota ottimale oltre la quale il prelievo fiscale scoraggerebbe l’iniziativa economica e incentiverebbe l’economia sommersa, diminuendo il gettito complessivo. Da notare come l’evidenza empirica – seppur variabile – suggerisca che tale aliquota ottimale si situi intorno al 70%, circa il triplo della percentuale normalmente proposta dai sostenitori della flat tax[1].

 

Realizzazione storica e fortuna politica della flat tax

Sembra naturale: viste le premesse filosofiche ed economiche, conservatori e libertari, in particolare negli Stati Uniti d’America, terra dall’impareggiata diffidenza verso l’interferenza statale, sono sempre stati i più grandi sostenitori di questa politica fiscale. È curioso tuttavia notare come a tale afflato ideale non sia mai corrisposta un’implementazione pratica (anche se alcuni Stati americani aggiungono una flat tax alla progressiva imposta federale), verificatasi invece, con ironia della storia, in Russia e in altre circoscritte zone del mondo.

In America, a dire il vero, ci sono stati due tentativi di introduzione della flat tax, entrambi caduti nel vuoto. Il primo nel 1862, durante la Guerra Civile e quando ancora non esisteva alcuna imposta sul reddito; la tassa fu immediatamente modificata per poi essere abolita. Il secondo nel 1894, ma in questo caso l’introduzione fu respinta dalla Corte Suprema.

Regioni più improbabili hanno invece applicato la ricetta. In particolare, paesi dell’Europa dell’Est particolarmente inclini alla cultura di mercato dopo decenni di dominazione sovietica (Lituania, Estonia, Lettonia, Slovacchia), oltre alla Russia stessa, spesso citata, seppur in modo controverso[2], come esempio dell’efficacia della flat tax. Alcuni Paesi con una forma assimilabile di tassazione sono Arabia Saudita, Bielorussia, Bolivia, Bulgaria, Kazakistan, Romania, Serbia, Ucraina.

In Europa occidentale, dove la progressività della tassazione ha radici culturali più profonde, il principio della flat tax ha tradizionalmente trovato terreno sterile. Seppur suggerita in più occasioni (da tecnici e consiglieri economici in Germania e in Olanda, da George Osborne seppur con qualche emendamento in Regno Unito), nessun governo ha per il momento seguito il consiglio, confermando come la flat tax sia storicamente più portata per le pagine dei programmi elettorali che per quelle dei decreti attuativi.

 

La flat tax in Italia: dalle origini alle elezioni 2018

Il vero genitore della flat tax in Italia, come di tante altre cose, è stato Silvio Berlusconi, che per primo la propose, con un’aliquota unica al 33%, durante la sua prima vittoriosa campagna del 1994, e poi a più riprese fino ai giorni nostri.

Nel dibattito italiano il termine ha poi assunto un uso più esteso, e spesso semplicemente improprio: solo qualche mese fa, ad esempio, venne definita tale una proposta del governo Gentiloni concepita per attrarre la residenza fiscale di stranieri facoltosi: un contributo annuale di cento mila euro (più venticinque mila per ogni familiare interessato), disponibile solo per persone fisiche che avessero trascorso nove degli ultimi dieci anni fuori dall’Italia (allo scopo di evitare il “rientro” di italiani con residenze fittizie), e dalla durata massima di quindici anni. Un’imposta in quel caso regressiva (detta anche imposta capitaria), in quanto insensibile alla reale capacità contributiva del tax-payer, da applicare esclusivamente sui redditi prodotti all’estero.

La nebulosità del concetto di flat tax ha poi raggiunto il suo culmine al crepuscolo della campagna elettorale più allergica a modeste verità di fatto e rigor di logica della storia repubblicana. Dopo essere stata inclusa nel manifesto programmatico della Lega (aliquota unica al 15% con deduzioni su base famigliare) e in quello del centrodestra (aliquota unica non specificata con “no tax area” per redditi bassi a garantirne la nominale progressività), la misura simbolo della proposta economica leghista è sopravvissuta nel “Contratto del governo di cambiamento” firmato da Lega e Movimento Cinque Stelle, con una differenza sostanziale che vale la pena citare per intero:

(…) il nuovo regime fiscale si caratterizza come segue: due aliquote fisse al 15% e al 20% [sopra gli 80.000,00 euro secondo una nuova proposta più dettagliata] per persone fisiche, partite IVA, imprese e famiglie; per le famiglie è prevista una deduzione fissa di 3.000,00 euro sulla base del reddito familiare. La finalità è quella di non arrecare alcun svantaggio alle classi a basso reddito, per le quali resta confermato il principio della “no tax area”, nonché in generale di non arrecare alcun trattamento fiscale penalizzante rispetto all’attuale regime fiscale.

La presenza di due aliquote rende puramente formale la definizione di “flat tax”. Si tratterebbe in realtà di una “dual tax”, o “quasi flat tax”: radicale semplificazione del sistema fiscale, con una riduzione del numero di aliquote e con conseguenze potenzialmente dirompenti per il relativo gettito fiscale (50 miliardi in meno, secondo stime de la Voce).

A giudicare da uno studio dell’Osservatorio sui Conti Pubblici diretto da Carlo Cottarelli, l’introduzione della flat tax non ha portato a una contrazione delle entrate solamente nei casi di Lituania (dove l’aliquota applicata fu la superiore tra le tre precendetemente in vigore), Lettonia (dove la flat tax soppiantò un sistema addirittura regressivo) e Russia. Anche i magnificati effetti positivi sulla crescita economia, spesso citati come abilità della flat tax di “auto-finanziarsi”, sono tutt’altro che comprovati – sul legame tra progressività del sistema tributario e crescita economica si veda lo studio del Fondo Monetario Internazionale sulle diseguaglianze pubblicato l’ottobre scorso.

C’è infine il tema politico per eccellenza degli effetti sulla redistribuzione del reddito. A giudicare dalle simulazioni del Sole 24 Ore:

In rapporto ai guadagni dichiarati, i risparmi promessi dalla Dual tax si fanno più rilevanti nella fascia fra i 60mila e gli 80mila euro, si riducono un po’ intorno ai 100mila euro e risalgono sopra, dove però i contribuenti interessati diventano rari. Scendendo nella piramide dei redditi, invece, anche i benefici si riducono, fino ad azzerarsi per le fasce più basse dove dovrebbe scattare la clausola di salvaguardia che mantiene l’attuale sistema di aliquote e detrazioni quando è più conveniente della proposta giallo-verde. Un’incognita non da poco, quest’ultima, sull’obiettivo della semplificazione, perché per un’ampia fascia di contribuenti imporrebbe di mettere a confronto due sistemi fiscali diversi per individuare il più conveniente.

L’impatto distributivo regressivo della flat tax in quanto tale potrebbe addirittura sommarsi a quello delle sue fonti di finanziamento. Se, come si percepisce dalla prima intervista programmatica rilasciata al Corriere della Sera dal ministro dell’Economia Giovanni Tria, il nuovo governo non fosse intenzionato a finanziare la riforma fiscale in deficit – onde evitare contenziosi politici con Bruxelles e “sentimentali” con i mercati, le mancate entrate da imposta sul reddito personale potrebbero essere recuperate tramite il previsto scatto delle cosiddette “clausole di salvaguardia” sull’IVA.  Le aliquote IVA aumenterebbero così automaticamente il prossimo gennaio al fine di generare 12,5 miliardi di entrate in più nel 2019 (aumentando l’aliquota intermedia dal 10 al 12% e dal 22 al 24,2% quella ordinaria) e 20 miliardi in più nel 2020 (alzando ulteriormente le citate aliquote al 13 e al 24,9%). Si tratta di un’ipotesi non peregrina, sostenuta dallo stesso neoministro in un intervento recentemente pubblicato sul sito Formiche.net, nel passaggio dedicato alla flat tax:

La scommessa, secondo i sostenitori della riforma, è che essa porti ad effetti benefici sulla crescita e quindi generi quel gettito fiscale aggiuntivo che dovrebbe compensare, almeno in parte, anche il costo iniziale della riduzione delle aliquote. Sarebbe preferibile, tuttavia, contare meno sulle scommesse e far partire la riforma con un livello di aliquota, o di aliquote, che consenta in via transitoria di minimizzare la perdita di gettito, per poi ridurle una volta assicurati gli effetti sulla crescita. Inoltre, non si vede perché non si debba far scattare le clausole di salvaguardia di aumento dell’IVA per finanziare parte consistente dell’operazione.

Vi è la “vulgata”, molto sostenuta anche a livello istituzionale, che serva subito un governo per impedire che queste clausole di aumento dell’IVA vengano attivate, perché ciò sarebbe recessivo. La tesi non mi sembra sostenibile a meno che si pensi di impedire l’aumento delle aliquote IVA creando altro deficit. Poiché non è questa, credo, l’intenzione di chi sostiene questa “vulgata”, impedire l’aumento dell’Iva recuperando risorse da un’altra parte, con tagli di spesa o aumenti di altre tasse, non muta di certo il presunto effetto recessivo. Al contrario, come ho sostenuto da oltre un decennio e non da solo, ritengo che in Italia si debba riequilibrare il peso relativo delle imposte dirette e di quelle indirette spostando gettito dalle prime alle seconde.

Il finanziamento della flat tax tramite l’aumento di un’imposta regressiva (in quanto indiretta) come l’IVA rappresenterebbe quindi un piccolo terremoto in termini redistributivi, con conseguenze politiche, almeno nel medio periodo, tutte da valutare, in particolare per quella parte di elettorato composto da lavoratori dipendenti minacciati dalla globalizzazione (definiti “declassati” da Raffaele Alberto Ventura in Teoria della classe disagiata), rivoltisi ai movimenti anti-sistema ora al governo per protesta verso condizioni di vita in peggioramento, e non certo in cerca di un’ulteriore diminuzione del proprio potere d’acquisto.

In attesa di diradare i dubbi su quali tra le variegate direttrici di politica economica e fiscale al momento coesistenti in seno al governo Conte ne ispireranno le riforme, resta da tenere a mente l’irremovibile articolo 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Chiaro e semplice, quasi come la flat tax.


[1] Voce “Laffer curve” nel New Palgrave Dictionary of Economics: http://www.dictionaryofeconomics.com/article?id=pde2008_L000015.

[2] Pro e contro dell’esperienza russa vengono analizzati in questo studio del Fondo Monetario Internazionale: http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2006/wp06218.pdf.

Scritto da
Jan Mazza

Dottorando in economia all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole (FI), in precedenza ha studiato a Bologna, Parigi, Monaco di Baviera e Londra e lavorato al centro di ricerca economico Bruegel.

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