Cos’è il franco CFA e perché se ne discute?
- 27 Gennaio 2019

Cos’è il franco CFA e perché se ne discute?

Scritto da Lorenzo Pedretti

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Nel dibattito pubblico nazionale si è imposto, nei giorni scorsi, il tema del franco CFA. Questo perché è stata avanzata la tesi che una delle cause profonde delle migrazioni africane sia l’esistenza degli accordi di cooperazione monetaria sottoscritti con la Francia da quattordici Paesi del continente, dodici dei quali sue ex colonie indipendenti dal 1960. Da un lato si tratta di un’affermazione che appare troppo semplicistica: molti degli immigrati giunti in Italia negli ultimi anni provenivano da Paesi che non adottano la moneta introdotta con tali accordi, e in generale sono molte le economie africane in difficoltà, a prescindere dalla valuta che adoperano. Dall’altro occorre sapere che la mancanza di sovranità monetaria di molti Stati dell’Africa occidentale è un tema controverso e molto dibattuto. In questa sede si cercherà di dare una panoramica della questione.

 

Cenni storici sul franco CFA

Con il nome “franco CFA” (acronimo di “Comunità Finanziaria Africana) si indicano in realtà due monete. Il franco dell’Unione economica e monetaria ovest-africana (UEMOA) è in uso in Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo. Il franco della Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC) circola invece in Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo. La popolazione complessiva di questi Paesi è di circa 155 milioni di persone. Le valute sono emesse da due banche centrali regionali: la BCEAO (Banca Centrale degli Stati dell’Africa Occidentale) con sede a Dakar (capitale del Senegal), e la BEAC (Banca degli Stati dell’Africa Centrale (BEAC) con sede a Yaoundé (capitale del Camerun). Il loro valore è lo stesso nelle due aree, anche se non sono intercambiabili.

Franco CFA

In verde i paesi della Unione economica e monetaria ovest-africana (UEMOA), in rosso quelli della Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC).

La moneta è stata ancorata con un cambio fisso prima al franco francese e poi all’euro, con il quale è pienamente convertibile[1]. Ciò è garantito dalla Banca di Francia, che in cambio custodisce in un conto il 50 per cento[2] delle riserve in valuta straniera[3] della BCEAO e della BEAC. Misura che offre anche una linea di credito in caso di azzeramento delle riserve.

Il franco CFA fu creato nel 1945, col nome di “franco delle colonie francesi d’Africa”[4]. Quando la Francia ratificò gli Accordi di Bretton Woods nel dicembre di quell’anno, il franco fu svalutato al fine di stabilire un cambio fisso col dollaro. Furono così create valute separate da adoperare nelle colonie francesi, cosa che risparmiava loro tale forte svalutazione, ma che facilitava anche le importazioni da parte della potenza coloniale. Guinea Conakry e Mauritania lasciarono l’unione monetaria, iniziando ad emettere valute proprie, rispettivamente nel 1960 e nel 1973; il Mali fece lo stesso nel 1962, ma riprese ad adottare il franco CFA nel 1984. Guinea Bissau e Guinea Equatoriale fanno parte dell’unione monetaria pur essendo state colonizzate da portoghesi e spagnoli.

Per la Francia, nel contesto della Guerra Fredda, il franco CFA favoriva l’ancoraggio delle sue colonie al blocco occidentale. Con l’aggiunta del prestigio geopolitico: De Gaulle considerava il controllo della Françafrique, come allora si chiamava, un modo per contare di più sulla scena internazionale, ad esempio presso le Nazioni Unite[5].

Nella seconda metà degli anni Ottanta, le economie della zona del CFA iniziarono a subire il crollo del prezzo di cacao, caffè e cotone, unito all’apprezzamento del franco francese rispetto ad altre valute, il che penalizzava le loro esportazioni. Successivamente, Francia e Fondo Monetario Internazionale (FMI) decisero la svalutazione del franco CFA, che l’11 gennaio del 1994 perse metà del suo valore (se prima un franco era pari a 50 CFA, in seguito valeva 100 CFA). Questo condusse ad un forte ed improvviso aumento dei prezzi dei beni d’importazione nell’unione monetaria, e al crollo di circa il 40 per cento del potere d’acquisto della popolazione, cosa che a sua volta ha contribuito a provocare instabilità politiche e conflitti in molti Paesi[6].

 

I punti del dibattito 

Chi è favorevole al franco CFA sostiene assicuri stabilità del cambio, credibilità, disciplina fiscale e protezione dall’inflazione. Chi è contrario nota invece come esso sia una moneta troppo forte, che non aiuta le esportazioni e anzi costringe le economie che lo adottano a importare prodotti stranieri in maniera massiccia, favorendo altresì gli investimenti privati, le importazioni di materie prime e il rimpatrio di capitali da parte della Francia. Altri argomenti a sfavore sono: la non convertibilità della moneta fra la zona della BCEAO e quella della BEAC, un ostacolo al commercio regionale; il fatto che tutti gli scambi debbano passare dalla Banca di Francia, che detiene il corrispettivo in oro della massa circolante di CFA; la perdita di controllo sulla politica di cambio da parte degli Stati africani, che subiscono le fluttuazioni dell’euro sui mercati mondiali[7].

Nella politica internazionale si discute da tempo se l’unione monetaria abbia favorito o rallentato lo sviluppo. Il FMI è sempre stato contrario al franco CFA[8]. Nessun Presidente francese ha mai espresso la volontà di abbandonarlo, anche se Emmanuel Macron, in campagna elettorale, aveva dichiarato che la decisione spetta ai Paesi africani coinvolti[9]. Le cui leadership, peraltro, sono sempre state perlopiù favorevoli alla moneta unica[10]. Fa eccezione Idriss Déby, presidente del Ciad e storico alleato regionale della Francia, che l’11 agosto 2015, in occasione del 55° anniversario dell’indipendenza del suo Paese, ha inaspettatamente esortato i politici francesi a “prendere una decisione coraggiosa: tagliare un cordone ombelicale che impedisce all’Africa di decollare”[11].

Attribuire alla moneta la mancanza di sviluppo è assurdo, ha affermato Ismaël Dem, direttore generale della BCEAO, dal momento che alcuni dei Paesi che la adottano, come la Costa d’Avorio, stanno conoscendo una crescita economica molto significativa[12]. Tuttavia, la zona franco continua a dipendere dalle esportazioni di materie prime e a mancare di industrie di trasformazione, proprio come accadeva durante il colonialismo, e gli Stati che ne fanno parte commerciano più con la Francia che fra di loro. Un ulteriore criticità dipende dal fatto che nei Paesi dov’è in vigore il franco CFA esistono sia un il cambio fisso sia la libera circolazione dei capitali, per cui ogni tentativo di espansione del credito interno si scontra con la necessità di mantenere il cambio fisso e alla fine risulta impossibile[13].

Fra gli economisti, un celebre oppositore del franco CFA è Kako Nubukpo, ex ministro della Prospettiva e della Valutazione delle politiche pubbliche del Togo. Nel 2015, intervistato da Le Monde, ha dichiarato: “Il caso della Grecia dimostra che avere un’economia debole con una moneta forte richiede degli aggiustamenti molto difficili da sostenere. I processi di crescita e sviluppo non dipendono unicamente dalla moneta, ma bisogna rivedere il cambio fisso del franco CFA con l’euro. Inoltre, nessuno ci impedisce di attingere alle eccedenze delle riserve di cambio depositate presso la Banca di Francia (stimate nel 2005 in 3600 miliardi di franchi CFA, circa 5 miliardi e mezzo di euro) per finanziare la crescita. Io la chiamo servitù volontaria”[14]. Gli fa eco il senegalese Ndongo Samba Sylla, economista della Rosa Luxemburg Foundation: “Dall’introduzione dell’euro, il reddito pro capite nella zona del franco è aumentato dell’1,4 per cento annuo, a fronte di una crescita del 2,5 per cento nell’Africa sub-sahariana nel suo complesso. Nessun Paese che si trovi sotto una tutela neocoloniale sul piano monetario si può sviluppare. Purtroppo le élite politiche della zona del franco non vogliono assumersi i rischi dell’uscita dalla moneta unica, ed è per questo che abbiamo bisogno di un dibattito democratico su questo tema. In questo senso, il 7 gennaio 2017 ha rappresentato una data storica: sono state organizzate per la prima volta manifestazioni contro il franco CFA in un gran numero di Paesi tanto africani quanto europei. I temi della governance e dei diritti umani sono importanti, ma non possono essere separati dal problema della sovranità economica”[15].

In effetti, diversi movimenti popolari hanno affiancato alla lotta per una maggiore democrazia nazionale il tema dell’uscita dal franco CFA: in particolare Le Balai Citoyen in Burkina Faso e Y’en A Marre in Senegal[16]. Proprio da quest’ultimo Paese è stato allontanato, nel settembre del 2017, lo scrittore e attivista pan-africanista franco-beninese Kemi Séba. In agosto aveva bruciato una banconota da 5000 franchi: portato in giudizio era stato assolto, ma lo Stato aveva deciso di espellerlo, suscitando la mobilitazione della società civile all’aeroporto di Dakar[17].

 

Decolonizzazione incompiuta?

Quale futuro per il franco CFA? Le richieste di riforme sono sempre più frequenti. Issiaka Coulibaly, docente dell’Università di Bamako (capitale del Mali), sostiene che in primo luogo bisognerebbe modificare gli accordi di cooperazione monetaria con la Francia, consentendo la convertibilità fra la moneta in uso nella zona della BCEAO e in quella della BEAC, e rendendo più trasparenti le operazioni effettuate dalla Banca di Francia[18]. Carlos Lopes, ex segretario esecutivo della Commissione Economica per l’Africa delle Nazioni Unite, sostiene che il franco CFA andrebbe ancorato non all’euro, bensì a un paniere di valute, come il dollaro e lo yuan, consentendo una maggiore flessibilità in politica monetaria[19]. Altri propongono un tasso di cambio che fluttui intorno a un obiettivo, altri ancora vogliono che la Francia esca del tutto dalla valuta.

Quel che è certo è che si tratta di un dibattito decisamente più politico che tecnico. E del resto non potrebbe essere altrimenti, visto che si discute, né più né meno, dell’emancipazione dall’eredità del dominio francese. Che continua a manifestarsi nella storia africana recente, ben oltre la fine ufficiale dell’epoca coloniale.

Due esempi su tutti. Il 29 luglio 1987, ad un vertice dell’Organizzazione per l’Unità Africana (l’attuale Unione Africana) ad Addis Abeba, il presidente del Burkina Faso Thomas Sankara dichiarò che il debito accumulato dai Paesi africani con i paesi occidentali, il FMI e la Banca Mondiale era una vera e propria riconquista del continente da parte dei suoi ex colonizzatori, in grado di impedirne la crescita, e come tale non andava ripagato[20]. Il 15 ottobre dello stesso anno Sankara fu ucciso in un colpo di Stato orchestrato dal collega Blaise Compaoré. Quest’ultimo rimase al potere per i successivi 27 anni, annullando le riforme socio-economiche del predecessore e normalizzando le relazioni con la Francia, che è stata accusata di averne sostenuto la presa di potere sotto la presidenza di François Mitterrand[21].

E ancora. Risale al gennaio 2016 la notizia che Hillary Clinton, quando era Segretario di Stato USA, aveva ricevuto nell’aprile del 2011 un rapporto dal suo consulente Sidney Blumenthal, relativo all’intervento militare internazionale contro la Libia. Secondo tale documento, uno dei motivi per cui Nicholas Sarkozy intendeva rovesciare il regime di Muammar Gheddafi era evitare che esso prendesse il posto della Francia come potenza dominante nell’Africa francofona. In che modo? Accumulando 143 tonnellate d’oro da usare per stabilire una valuta pan-africana legata al Dinar libico, da offrire come alternativa al franco CFA[22]. Un’informazione che non ha mancato di far discutere – dell’intervento contro la Libia si è occupata anche una commissione parlamentare del Regno Unito nel 2016, muovendo pesanti critiche a David Cameron e Sarkozy[23] – sebbene alcuni osservatori l’abbiano accolta con scetticismo[24].

L’Africa rimane strategica per la Francia, soprattutto ora che subisce l’espansione della Cina e la concorrenza di India, Brasile e Turchia. In palio ci sono risorse importanti, come l’uranio di Niger e Repubblica Centrafricana, nonché il petrolio di Ciad e Gabon. E Parigi non ha mai esitato a organizzare campagne militari: non solo in Libia, come già accennato, ma anche in Costa d’Avorio (2002-2004; 2011), in Ciad (2006) e in Mali (2013)[25].

È forse anche a causa di queste ramificazioni geopolitiche che interessarsi al franco CFA sembra difficile. Diversi autori, infatti, non mancano di far notare come a questo tema non sia ancora data tutta l’attenzione che merita. Nel 2016, il docente dell’Università di Montreal Christian Agbobli lamentava la scarsità di riflessioni sul franco CFA nell’ambito della ricerca universitaria[26]. Il già citato Ndongo Samba Sylla ha contestato ai capi di Stato dell’Africa francofona la mancanza del coraggio necessario ad affrontare la questione[27]. Infine, secondo il saggista camerunese Yann Gwet, la mobilitazione contro il franco CFA è uno degli eventi più positivi nella storia africana degli ultimi anni, ma c’è ancora troppa ignoranza e apatia sul tema[28]. La “moneta unica” africana sopravvive, ma la discussione su di essa non si arresta.


[1] 1 euro è pari a 655,957 franchi CFA. Lisciandro M. (2019).

[2] Dopo le indipendenze i Paesi che adottavano il franco CFA dovevano depositare il 100 per cento delle loro riserve in valuta straniera; la quota è stata abbassata al 65 per cento nel 1973 e al 50 per cento nel 2005. Sylla N. S. (2018).

[3] Attualmente il valore dei depositi è stimato in 7 mila miliardi di franchi CFA, poco più di 10 miliardi di euro, una cifra giudicata contenuta. Ibidem; Sesana I. (2018).

[4] Nel 1958, il significato della sigla CFA fu cambiato in “comunità francese dell’Africa”; oggi, invece, la sigla sta per “comunità finanziaria dell’Africa” nei Paesi membri dell’UEMOA, e “cooperazione finanziaria dell’Africa Centrale” per i Paesi membri della CEMAC. Il codice della moneta dell’UEMOA è “XOF” mentre quello della moneta della CEMAC è “XAF”.

[5] African Business Magazine (2012).

[6] De Georgio A. (2017), African Business Magazine (2012).

[7] De Georgio A. (2017).

[8] Giro M. (2019).

[9] Konkobo L. (2017).

[10] Come fa notare Massimo Amato, docente dell’Università Bocconi di Milano, le classi dirigenti africane dei Paesi che adottano il franco CFA “possono aprire conti corrente all’estero senza restrizioni sui flussi”. Sesana I. (2018).

[11] De Georgio A. (2017), Dieng C. (2015).

[12] The Economist (2018).

[13] Sesana I. (2018).

[14] Le Monde (2015).

[15] Ballast (2017).

[16] Konkobo L. (2017).

[17] Africa (2017).

[18] Coulibaly I. (2017).

[19] The Economist (2018).

[20] Akugizibwe P. (2012).

[21] BBC (2016); Chanda T. (2016).

[22] Parry R. (2016)

[23] Bastié E. (2016); Norton B. (2016).

[24] Bobin F. (2016)

[25] Bongiorni R. (2019).

[26] Agbobli (2015).

[27] Sylla N. S. (2018)

[28] Gwet Y. (2019).


Bibliografia

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Bobin F. (2016), L’étrange « mémo » américain sur la trésorerie de Kadhafi.

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https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2019-01-22/francia-africa-i-legami-controversi-parigi-e-ex-colonie–101811.shtml?uuid=AEijAVJH

Chanda T. (2016), Mitterrand-Sankara: le vieux président et le capitaine impertinent,

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The Economist, Francophone Africa’s CFA franc is under fire, https://www.economist.com/middle-east-and-africa/2018/01/27/francophone-africas-cfa-franc-is-under-fire

Scritto da
Lorenzo Pedretti

Nato a Bologna nel 1990. Nel 2015 consegue la laurea magistrale in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso la Scuola di Scienze Politiche “Roberto Ruffilli” dell’Università di Bologna, con tesi su “Immigrazione e stato sociale in Germania e in Italia negli anni Novanta e Duemila”. Nel 2016 completa il Master in cooperazione internazionale di ISPI a Milano. Nel 2017-2018 svolge il servizio civile in Senegal. Attualmente vive e lavora a Torino. Particolarmente interessato al tema delle migrazioni internazionali, ha vinto la Targa Athesis, nel quadro del Premio di Natale UCSI 2019, per un articolo sulla migrazione di ritorno dall’Italia al Senegal scritto insieme alla giornalista Giulia Paltrinieri e pubblicato su «La Stampa». Ha scritto anche per «Altreconomia», «The Bottom Up», «Policlic» e per «Resistenza e Nuove Resistenze» (periodico di ANPI Bologna).

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