“Frankenstein Urbanism” di Federico Cugurullo
- 21 Maggio 2022

“Frankenstein Urbanism” di Federico Cugurullo

Recensione a: Federico Cugurullo, Frankenstein Urbanism. Eco, Smart and Autonomous Cities, Artificial Intelligence and the End of the City, Routledge, Londra 2021, pp. 228, 35 sterline (scheda libro)

Scritto da Otello Palmini

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Frankenstein Urbanism di Federico Cugurullo è scritto con l’obiettivo di restituire con profondità concettuale e documentazione empirica le sfide derivanti dallo sviluppo recente della relazione tra città e tecnologia. Il libro è costruito attorno ad una relazione costante tra la progettazione urbana e la figura immaginata da Mary Shelley a partire da una particolare declinazione della classica similitudine città-corpo, volta a mettere in guardia contro i concetti e le pratiche il cui perseguimento acritico può produrre mostruosità piuttosto che armonia. Per iniziare a comprendere la complessità della dimensione urbana Cugurullo, attraverso Aristotele, suggerisce di pensare la città come un oggetto complesso in cui almeno tre dimensioni entrano in relazione: la dimensione sociale, quella politica e quella fisica. La città è pensata come un processo di formazione in cui, seguendo Aristotele, l’essere umano avrebbe la possibilità di esprimere tutto il suo potenziale. Il pensiero del filosofo di Stagira è attualizzato in maniera originale in relazione ai temi del metabolismo urbano e dell’urbanizzazione planetaria che stanno diventando dannosi. Seguendo Cugurullo, «l’urbanizzazione sta creando spazi dove larghi segmenti della popolazione sono politicamente sottorappresentati, con un accesso scarso o assente alle risorse di base (come cibo ed energia) e esposti in maniera diseguale all’impatto dell’antropocene» (p. 9).

Questa contraddizione, tra ciò che la città dovrebbe essere e ciò che è diventata, fornisce l’occasione per una critica del nostro modo di produzione dello spazio e per la ricerca di soluzioni nuove in grado di riattivare una relazione positiva tra umano e urbano. Lo svolgimento del libro ripercorre la teoria e la prassi di tre modi di interpretazione della sperimentazione urbana fondamentali per la nostra contemporaneità: eco-city, smart city e autonomous city. Nei primi due casi – eco-city e smart city – l’autore considera i due fenomeni da un punto di vista capace di far dialogare una molteplicità di discipline – urbanistica, filosofia, ecologia, pittura e architettura – facendo emergere una visione d’insieme su temi che solitamente vengono affrontati in stretta correlazione con un particolare settore disciplinare e con un univoco taglio interpretativo. Nel terzo caso, che riguarda l’impatto dell’intelligenza artificiale nel contesto urbano, ci troviamo davanti ad una originale operazione di analisi teoretica. Un’indagine in grado di inserire i modi dell’utilizzo di questi strumenti sia all’interno del contesto contemporaneo, riguardo il rapporto tra tecnologia ed esperienza urbana, sia in una prospettiva storico-concettuale riguardante il rapporto tra tecnologia, società e politica.

Il termine eco-city fa riferimento a quel tipo di progettazione che ha per obiettivo un bilanciamento tra sviluppo urbano e ambiente naturale. L’autore connette questa posizione alle controculture degli anni Sessanta e Settanta e indica la sua prima formulazione coerente in Ecocity Berkeley di Richard Register (1987). Qui il rapporto tra urbano e naturale deve essere reso armonico tramite una limitazione del primo che possa favorire, o quantomeno non danneggiare, il prosperare del secondo. Questo senso del limite e questa ricerca dell’equilibrio pongono l’urbanistica ecologica in traiettoria di collisione con una certa visione dell’architettura moderna: tanto con l’incontrollato nascere delle città moderne, contemporaneo alla rivoluzione industriale, quanto con i principi razionali, eleganti e improntati alla salubrità urbana riconducibili al pensiero di Le Corbusier. È proprio la logica della dominazione della natura – che si esprime dopo la rivoluzione industriale come sfruttamento che danneggia l’ecosistema e nel modernismo come subordinazione dell’elemento naturale – a strutturare una relazione conflittuale tra questa modernità e la prospettiva ecologica. Nella prospettiva di Cugurullo, allora, l’ecologia diventa certamente quella scienza attraverso cui pensare il design delle città in relazione alla preservazione dell’elemento naturale, ma essa viene a costituirsi anche come «una metafora di diversità sociale» (p. 35). In questo contesto «una città in salute è quella che si caratterizza per una ricca diversità sociale» (p. 36). All’ossessione per l’organizzazione totale, propria dell’urbanistica di Le Corbusier, la città ecologica contrappone l’etica del contatto, del dialogo, della strada come ecosistema in grado di produrre felicità e sicurezza – una posizione da riferire certamente al pensiero di Jane Jacobs e recentemente ripresa, anche se con qualche variazione, da Richard Sennett. Infine, questa prospettiva interessa anche il campo politico facendo derivare la tendenza allo sfruttamento della natura dalla pratica dello sfruttamento dell’uomo. In questo senso Murray Bookchin (1921-2006) riteneva il superamento del sistema statale una condizione necessaria per l’attuazione dell’urbanistica ecologica. Analogamente, anche se da una prospettiva meno radicale e anarchica, l’eco-socialismo – che affonda le proprie radici teoriche in una lettura non produttivista del pensiero di Marx ed Engels – indicava il capitalismo come problema fondamentale da superare per l’instaurazione di un nuovo bilanciamento tra dimensione antropica e ambiente naturale.

La relazione tra sostenibilità e urbanità viene quindi ad essere considerata come una totalità articolata, in cui progettazione urbana, ecologia e politica contribuiscono alla strutturazione di un modo diverso di pensare la città. Una ragione urbana nettamente in contrapposizione a quella modernista, e in parte moderna, caratterizzata dalla volontà di dominio sulla natura, da uno spiccato antropocentrismo e da un riduzionismo che percorre la via dell’omogeneizzazione forzata e funzionalistica delle differenze. Non è un caso, nota Cugurullo, che l’elemento tecnologico decisivo per il pensiero modernista risulti assente: all’epopea del progresso tecnico occidentale è sostituito piuttosto il richiamo ad alcuni esempi antichi di armonia tra uomo e natura. Tutti gli aspetti citati segnano la distanza, forse incolmabile, tra questo esempio di urbanistica sperimentale e quello la cui concettualizzazione è affidata all’espressione smart city.

Il discorso sulla smart city riguarda principalmente l’utilizzo di tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) nel contesto urbano al fine di rendere maggiormente efficiente il sistema città. La grande quantità di dati prodotti e la crescente capacità algoritmica di analisi sono i capisaldi su cui l’urbanistica smart fonda la propria pretesa di effettualità. La tecnologia viene interpretata, in questo quadro, come portatrice di un ordine applicabile ai vari disordini urbani premoderni e moderni. Tale modello è stato variamente criticato da accademici afferenti a diversi ambiti disciplinari – per una certa vaghezza nella definizione, per una mancanza di attenzione nei riguardi dei contesti, per una spiccata continuità con l’urbanistica neoliberale, per una tendenza a frammentare più che a rendere più omogeneo il corpo sociale, per una concezione riduzionistica del cittadino e della società. Nel volume, Cugurullo focalizza la sua analisi sulla riconnessione di questo fenomeno contemporaneo con le sue radici moderne.

La Nuova Atlantide di Francesco Bacone si configura come il luogo di nascita di quella declinazione della modernità che nutre il discorso sulla smartness; una modernità in cui la tecnologia si impone come elemento fondamentale attraverso cui risanare la società. La razionalità tecnologica giunge in Bacone alla gestione della società, al fine di promuovere il massimo dello sviluppo dell’umanità. Questo elemento informa di sé anche il periodo della seconda rivoluzione industriale, infatti, «dal tardo Diciannovesimo secolo alla prima parte del Ventesimo, la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica sono state massivamente supportate da investimenti di capitale» (p. 50). Nell’interpretazione di Cugurullo, questo stadio della modernità pulsa di una relazione tra ordine scientificamente e tecnicamente imposto e caos che resiste a questa imposizione. L’autore utilizza – contestualizzandole nell’ontologia regionale dell’urbano – le categorie nietzscheane di apollineo e dionisiaco come vettori attraverso cui comprendere una modernità in cui «la città è uno spazio razionale, controllato e plasmato dagli uomini, dove le tecnologie sono strumenti per lo sviluppo umano. Simultaneamente, la città è un luogo caotico in cui gli individui si appropriano del potere dell’innovazione tecnologica per dei guadagni personali. Loro non sanno se saranno capaci di controllarlo, ma non gli importa, come non gli importa della devastazione che la loro azione sta portando all’ambiente circostante» (p. 53). Una modernità, quindi, estremamente materiale, in cui l’innovazione tecnologica comporta un grande impatto fisico sulle città, evidente nella costruzione di infrastrutture e abitazioni, in cui il paesaggio urbano e la sua percezione vengono pesantemente modificati dall’intervento dei progettisti. 

Lo svilupparsi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sembra condurre verso un diverso rapporto tra l’innovazione e il suo impatto materiale sulla società. Scrive Cugurullo: «Nonostante la sua radicalità, la network society teorizzata da Castells non impatta in maniera decisiva sulla struttura fisica delle città» (p. 56). Questa fase della modernità sembra essere più leggera e seguire una logica, descritta dai lavori di Bauman ad esempio, in cui la tecnologia agisce mettendo tra parentesi o non facendo troppo caso alla dimensione spaziale e materiale. La teorizzazione più chiara dell’impatto urbano di questi fenomeni è quella di William J. Mitchell, secondo cui «le ICT creano uno spazio virtuale caratterizzato da nuove geometrie e temporalità che non sono in sincronia con le forme urbane tradizionali. Tanto più questo spazio virtuale diventerà importante tanto più le città dovranno adattarsi per accogliere queste nuove spazialità digitali» (p. 59). Lo spazio digitale viene interpretato come uno spazio virtuale che si affianca a quello reale entrando in certi casi anche in competizione con esso. Questa ricognizione delle fonti teoriche della smartness restituisce livelli di profondità ad un concetto che spesso viene presentato come assolutamente sganciato dalla storia. La dimensione tecnologica è certamente l’elemento caratterizzante di questo modello urbano: tuttavia l’utilizzo e la considerazione dell’elemento tecnologico vanno contestualizzati, come si è visto, in una certa lettura del moderno che interpreta la tecnologia come elemento mediatore tra ordine e caos, come fattore in grado, di per sé, di produrre un miglioramento in seno alla società.

Attraverso la discussione di questi due primi modelli teorici di urbanistica sperimentale – eco e smart – Cugurullo invita a riflettere anche sulla loro compatibilità. Se da una parte abbiamo infatti un modello che mette in discussione l’approccio moderno nelle sue varie declinazioni, ponendo l’accento sul tema del limite dell’azione umana senza tenere in particolar conto l’elemento tecnologico, dall’altra abbiamo una smartness che si fa erede di una certa modernità che intende l’innovazione tecnologica come cardine del progresso sociale e materiale della società. La riflessione di Cugurullo sembra suggerire, allora, che l’auspicabile matrimonio ‘tra il verde e il blu’ – citando il titolo di un libro di Luciano Floridi – necessiti un profondo lavoro concettuale, capace di re-interpretare l’elemento tecnologico attraverso categorie, che ne informano le prassi, differenti rispetto a quelle correnti e, al contempo, capace di declinare il discorso ecologico in un senso che non sia solamente rivolto al passato e di netta opposizione al moderno. 

Frankenstein Urbanism affianca alla componente teorica una ricca indagine empirica, che attraverso l’analisi di due casi notevoli mostra l’applicazione dei principi illustrati dall’urbanistica ecologica e da quella smart. Tuttavia, gli esempi che Cugurullo prende in considerazione mettono in evidenza una certa distanza tra la teoria e la prassi. Infatti, i casi di Masdar City e Hong Kong – indagati a partire dai contesti geografico-culturali ed esaminati in virtù di un articolato e pluriennale lavoro sul campo – rappresentano due fallimenti dei rispettivi paradigmi. In primo luogo, le definizioni e l’articolazione concettuale tanto della sostenibilità (Masdar) quando della smartness (Hong Kong) sono largamente parziali e insufficienti, producendo un vero e proprio difetto di impostazione di quelle che Cugurullo definisce «equazioni urbane». Da una parte, infatti, il progetto di Masdar definisce la sostenibilità come un rapporto tra innovazione tecnologica e riduzione delle emissioni di carbonio, che deve tuttavia massimizzare i profitti delle aziende coinvolte e della città stessa, riservando ad altri aspetti – climatici e sociali – uno spazio scarso in termini di considerazione e di investimenti. Dall’altra, ad Hong Kong la smartness è articolata attraverso una somma di investimenti in ICT, biotecnologie e intelligenza artificiale intesi come nuovi driver economici di alcune zone della città e della regione. Questo elemento è strettamente legato ad un dato strutturale messo in evidenza da Cugurullo: «In termini di sostenibilità e design le iniziative di Masdar City e Hong Kong non sono riuscite a produrre spazi urbani omogenei, perché si sono sviluppate in una maniera scoordinata. Un assunto fondamentale dell’urbanistica sperimentale è un approccio scientifico allo sviluppo urbano basato su un piano di azione olistico e rigoroso» (p. 142). Questo elemento è venuto meno in virtù del fatto che ad una pianificazione coerente e capace di coordinare le varie componenti si è preferito un approccio in cui gli investitori avessero una libertà di azione quasi totale. Queste direzioni, spesso contrastanti negli obiettivi e nei mezzi utilizzati per perseguirli, hanno comportato una frammentazione urbana e una disomogeneità che ha reso difficile porsi un obiettivo ambizioso come quello della sostenibilità. 

Se infatti la storia dell’urbanistica ha evidenziato la scarsa percentuale di riuscita di una progettazione eccessivamente rigida, è anche vero che per raggiungere obiettivi ambiziosi come quello della sostenibilità ambientale e sociale un certo grado di coordinazione dell’azione appare necessario nella prospettiva di Cugurullo. Questo è particolarmente vero se la mancanza di coordinazione deriva dall’aver lasciato alle iniziative di privati, legittimamente interessati al profitto, la strutturazione della direzione di senso dello sviluppo urbano. Seguendo l’autore «se tematiche come il sistema educativo, la giustizia, l’eguaglianza di genere, la salute pubblica, l’accessibilità, la disabilità e la cura degli anziani non sono integrate nell’urbanistica sperimentale, gli esperimenti urbani che ne risulteranno saranno città in cui un numero consistente di persone faticheranno a sopravvivere e la realizzazione personale sarà impossibile per molti» (p. 146). Dunque, sia la ricognizione teorica sia l’analisi empirica sembrano suggerire che la strada per raggiungere una smartness e una sostenibilità effettive sia quella di articolare in maniera più comprensiva le equazioni urbane, e concentrarsi meno sulla cieca applicazione di strumenti tecnologici. Tuttavia, la parte finale del libro di Cugurullo, dedicata alle Autonomous city, indaga una tendenza contemporanea e probabilmente futura dell’urbanistica ad affidarsi ad una nuova tecnologia che prometterebbe, ancora una volta, di risolvere i problemi delle nostre città.

Le intelligenze artificiali sono ormai parte integrante della nostra esperienza quotidiana. Per intelligenza artificiale urbana (UAI) Cugurullo intende «artefatti autonomi capaci di acquisire conoscenza dall’ambiente urbano circostante e rendere sensati i dati acquisiti, usandoli per agire razionalmente in base ad obiettivi predefiniti in situazioni complesse e in spazi in cui alcune informazioni potrebbero essere mancati e, soprattutto, in cui gli umani non indirizzano le loro azioni» (p. 159). L’autore, inoltre, traccia una differenziazione interna alle UAI dividendole in automatiche e autonome. Le UAI automatiche agiscono in spazi interamente progettati per la loro azione e in cui non entrano in contatto con altri agenti – umani, naturali o animali ad esempio –; si parla invece di UAI autonoma quando questa agisce in uno spazio ibrido, che coinvolge altri agenti e non è interamente progettato per la sua azione. Come è facile notare, in contrasto con la lettura per cui la modernità digitale non avrebbe un consistente impatto sullo spazio fisico delle città, in entrambi i casi – autonomia e automazione – le UAI saranno portatrici di rilevantissime modificazioni dello spazio fisico. 

Cugurullo mette in luce le tre incarnazioni più impattanti di intelligenze artificiali nel contesto urbano: auto a guida autonoma, robot e cervelli urbani. La mobilità urbana, la composizione fisica del lavoro e la gestione dei flussi informativi urbani saranno rivoluzionate da questi strumenti. Tuttavia, l’innovazione tecnologica in sé non deciderà se l’implementazione di auto a guida autonoma porterà ad una riduzione o ad un aumento del traffico urbano; non assicurerà che una città in cui buona parte della forza lavoro è stata automatizzata possa diventare un luogo di realizzazione personale per i cittadini; infine non garantirà che la gestione e la pianificazione urbana svolta da un cervello artificiale possa essere in linea con gli interessi generali di una comunità. Insomma, anche l’intelligenza artificiale, in quanto strumento tecnologico, non può essere l’unico vettore di senso per formulare e risolvere le nostre equazioni urbane. Questo sia perché le intelligenze artificiali, per loro strutturazione tecnica, agiscono con una certa razionalità strumentale, ma in base a degli obiettivi predeterminati da umani che, in quanto tali, devono essere messi in discussione e sottoposti al vaglio democratico; sia perché anche una volta impostati i valori in base ai quali questi strumenti agiscono, l’applicazione di questi in contesti complessi resta un problema tecnico rilevante. È allora necessario allontanare l’illusione che questa nuova tecnologia, seppur utilissima, possa essere bastevole a formulare e risolvere le nostre equazioni urbane. Dobbiamo rifuggire da questo approccio per un motivo che è al contempo tecnico e concettuale: «I sensori più avanzati e gli algoritmi più perfezionati non possono scoprire e codificare il significato di buono e cattivo. Semplicemente perché le idee, i concetti e i significati non sono qualcosa che si può scoprire: sono qualcosa che viene discusso. Le società sviluppano i propri ideali attraverso la ricerca filosofica e il dibattito intellettuale […]» (p. 176).

L’intelligenza artificiale è una tecnologia radicale e così anche le sue incarnazioni urbane «che possono colonizzare ogni aspetto delle città e delle società fino al punto di ridefinirle, in modo da produrre configurazioni spaziali e organizzazioni sociali differenti da ciò che oggi chiamiamo città» (p. 183). Anche in questo caso l’approccio di Cugurullo inserisce l’innovazione tecnologica in una tendenza culturale definita come transurbanismo, un termine derivato dalla traduzione urbana della posizione filosofica transumanista. Così come il transumanismo pensa lo sviluppo-superamento dell’essere umano attraverso l’innesto di componenti tecnologiche nel corpo e nella mente, il transurbanismo applica questa stessa prospettiva all’ambiente urbano: l’intelligenza artificiale sarebbe il medio attraverso cui ridefinire e superare i classici problemi dell’urbanità. La razionalità dell’azione garantita dalle UAI dovrebbe portare verso una migliore formulazione delle nostre equazioni urbane e ad una loro più efficiente soluzione. Tuttavia, questo preteso razionalismo si scontra con il contesto economico e di mercato. Infatti, come nota Cugurullo «questa immagine ideale di sviluppo transurbanista si sgretolerebbe contro un’economia di libero mercato in cui le differenti tecnologie sono commercializzate e distribuite in maniera non uniforme» (p. 190). In un contesto in cui l’efficienza urbana fosse basata solamente sull’elemento tecnologico, le città più ricche potrebbero permettersi la tecnologia più avanzata e quindi standard di vita più elevati, e questa disparità si replicherebbe anche all’interno delle città stesse aumentando le disuguaglianze. La comparsa di queste tecnologie radicali non dovrebbe essere affrontata facendo di esse l’unico vettore di sviluppo, ma ragionando su come utilizzarle per raggiungere alcuni scopi desiderabili nel contesto urbano attraverso il design di nuovi quadri concettuali etici, che possano regolare questi nuovi spazi ibridi in cui fini umani devono essere perseguiti da catene di mezzi tecnologicamente caratterizzate. 

In linea con il lavoro di ricucitura dell’urbanistica sperimentale contemporanea con le sue fonti concettuali, Cugurullo conclude la trattazione inquadrando i passaggi svolti fino ad ora attraverso una coppia concettuale elaborata da uno dei più acuti critici della modernità: il riferimento è al Max Horkheimer di l’Eclisse della ragione (1947) e precisamente alla differenziazione tra ragione oggettiva e ragione soggettiva. Cugurullo invita a pensare tutte le contraddizioni e i malfunzionamenti dei modelli che ha indagato in questo volume nei termini di un uso eccessivo e ipertrofico della ragione soggettiva e di una dimenticanza della ragione oggettiva. La prima forma di ragione, infatti, è motivata dal perseguimento degli interessi personali o parziali e da un’attenzione quasi esclusiva per l’efficienza dei mezzi, che nasconde una riflessione monca dal punto di vista della configurazione degli scopi. Utilità soggettiva e efficienza tecnica dei mezzi sono i due imperativi della ragione urbana soggettiva. Come emerge dalla trattazione, se a strutturare l’azione è solamente la ragione soggettiva, concetti come smartness e sostenibilità finiscono con il diventare delle coperture per gli investimenti di grandi compagnie e la ricerca tecnologica. La ragione oggettiva è ciò che viene tagliato fuori in questo schema, ovvero «la ragione di gruppi composti da individualità differenti che condividono lo stesso spazio. È la ragione delle società e degli stati. Su scala planetaria, la ragione oggettiva è quella dell’umanità come unità, e dell’intero pianeta in cui l’umanità e le altre specie risiedono» (p. 195). Pensare le ragioni oggettive dell’urbanistica sperimentale è certamente molto diverso dal concentrarsi solo sull’attrarre investimenti e sviluppare soluzioni tecnologiche: significa interrogarsi sull’ontologia e sulla teleologia dell’urbano.

Il lavoro di Cugurullo segna dunque una tappa rilevante nella formazione di un nuovo approccio alla relazione tra tecnologia e città. Un approccio capace di ricostruire le condizioni di possibilità culturali e sociali di una certa declinazione del rapporto tra tecnologie e società, e per questo in grado di portare avanti una critica non solamente specialistica, ma focalizzata sulla direzionalità di senso che questa relazione sta prendendo. Questo lavoro risulta particolarmente interessante agli occhi di chi volesse tentare di riconnettere i problemi urbani contemporanei alla storia culturale e tecnica della modernità occidentale. Infine, si tratta di un lavoro in grado di mobilitare in maniera produttiva alcuni paradigmi teorici decisivi per la storia della cultura occidentale – Aristotele, il pensiero ecologico e Horkheimer tra gli altri – per interpretare e modificare la situazione presente. Il libro è costantemente giocato, come si ricordava, sulla similitudine tra la situazione dell’urbano e quella di Frankenstein. Uno degli elementi più interessanti che questo continuo rimando lascia emergere riguarda l’importanza della cura per una creatura certamente problematica, ma il cui destino non è segnato già dalla nascita. Come la creatura di Shelley, così anche le città hanno bisogno di più cura per non trasformarsi in mostruosità. Una cura che non può venire soltanto da un particolare ambito specialistico, ma che deve interessarsi ad una contestualizzazione, ad una critica e ad una ricostruzione di senso complessivo, come nel caso di questo lavoro. 

Scritto da
Otello Palmini

Dottorando in Architettura e Pianificazione urbana all’Università di Ferrara (IDAUP). Laureato in Scienze filosofiche all’Università di Bologna. Membro fondatore del gruppo Prospettive Italiane. Tra gli ambiti di ricerca: Filosofia della tecnica e della tecnologia; intersezione tra tecnologia digitale e pianificazione urbana.

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