Recensione a: Il Grand Continent, Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, Postfazione di Bruno Latour, Luiss University Press, Roma 2023, pp. 174, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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La guerra è ritornata nel lessico del dibattito pubblico occidentale, dopo esserne stata espunta per diversi decenni. La dimensione della guerra non concerne solamente il conflitto caldo in Ucraina, che pure ne rappresenta l’espressione più profonda, ma va a interessare ogni profilo della contemporaneità. La competizione tra Stati Uniti e Cina, giocata per ora su un piano prettamente giuridico-economico, tra dazi, scrutinio degli investimenti e controlli sull’export, è stata ricondotta da taluni autori, come Nial Ferguson[1] o Robert Kaplan[2], alla categoria di “guerra fredda”. La militarizzazione delle infrastrutture finanziarie è alla base delle sanzioni occidentali alla Russia, così come del più generale armamentario utilizzato soprattutto dagli Stati Uniti a fini coercitivi nei confronti di Paesi rivali, si pensi all’Iran, in una logica di weaponization dell’economia globale bene evidenziata dai politologi Henry Farrell e Abraham Newman nel recente libro Underground Empire[3]. Ancora, la stessa weaponization è ormai una dinamica intrinseca nel mercato delle commodity, specie per quanto concerne i prodotti energetici e le materie prime centrali per la transizione ecologica: dall’utilizzo dell’arma del gas da parte della Russia ai tagli strategici nella produzione di petrolio da parte dell’Arabia Saudita, passando per le restrizioni all’export di grafite varate dalla Cina[4] o del nichel dall’Indonesia[5]. Fratture che arrivano a influenzare anche la lotta al cambiamento climatico, non circoscrivibile in meri numeri o categorie scientifiche, ma sempre più assorbita in quella che il filosofo Pierre Charbonnier definisce “ecologia di guerra”; concetto che intende evidenziare la profonda intersezione tra strategie di de-carbonizzazione e logiche geopolitiche, nel contesto di una mobilitazione di risorse, tecnologie e competenze per la primazia nei nuovi mercati puliti che richiama gli sforzi militari di “guerra totale”.
Vi è un nuovo lessico che sta permeando le lenti con le quali siamo costretti ad affacciarci al presente. Alla neutralità del diritto e dell’economia, alla tecnica e all’amministrazione, alla globalizzazione e al mondo piatto, all’apertura e alla pace si affiancano minacciose nuove, ma in realtà intimamente vecchie, categorie interpretative: guerra, militarizzazione, conflitto, confini, protezione, controllo, chiusura, autonomia strategica. Sarebbe ingenuo pensare ad una totale sovrapposizione di queste ultime categorie sulle prime; la realtà è più complessa e costringe a ragionare, piuttosto, sulla profonda contaminazione tra le stesse. Sulla lettura di un mondo allo stesso tempo globalizzato e conflittuale. Sull’interdipendenza economica che si muove nel delicato equilibrio tra pacifica efficienza e militarizzazione. È impossibile dare chiavi di lettura univoche, lineari. Trattasi di un panorama composito, di una guerra estesa dalle numerose fratture, un labirinto pratico e teorico che necessita di una bussola per orientarsi. È proprio questo l’obiettivo del lavoro collettivo della rivista internazionale Le Grand Continent, pubblicato in italiano da Luiss University Press con il titolo Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, con postfazione del compianto Bruno Latour. Un’analisi trasversale, che prova ad affrontare le numerose implicazioni della guerra estesa attraverso diverse sensibilità e prospettive: si va dal conflitto ucraino in senso stretto alle trasformazioni dello scacchiere globale, dalla partita tecnologica a quella energetico-climatica, passando per i riflessi della guerra sulle opinioni pubbliche occidentali. Dare una lettura omogenea di un lavoro così denso non è facile. Si può provare però ad unire taluni tasselli del mosaico concettuale proposto, lasciando poi al lettore i propri spazi e tempi per l’ulteriore approfondimento.
Un punto di partenza indicato potrebbe essere il discorso tenuto il 27 aprile 2023 da Jake Sullivan, Consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Biden, alla Brookings Institution, tradotto dal Grand Continent e posto in apertura della sezione del volume Quando la guerra contamina tutto: tecnica, tecnologia, tecnocrazia. D’altra parte, ogni partita – militare, tecnologica, climatica – non può che passare per Washington, ancora potenza egemone, e per la sua strategia. In questo senso, il discorso di Sullivan è emblematico e va a tratteggiare quello che è stato ribattezzato come un nuovo, per quanto controverso, Washington Consensus: «Nel complesso, l’architetto della politica estera di Joe Biden disegna un mondo strutturato in cerchi concentrici: al centro, una rinnovata potenza statunitense con una base economica sicura; nell’immediata periferia, gli alleati più stretti degli Stati Uniti, i cui sforzi di ripresa industriale ed ecologica sarebbero coordinati con quelli di Washington; infine, il resto del mondo, che potrebbe commerciare e trarre profitto all’interno di questo quadro rinnovato» (p. 69). Ai margini di questo ambizioso piano, si muovono le grandi sfide del presente: il primato della sicurezza nazionale sull’economia, non più tabù latente nelle dinamiche commerciali ma indirizzo strategico perseguito in modo esplicito dalla prima potenza mondiale; la competizione per la primazia tecnologica, giocata anche tramite una Chip War con la Cina, tra controlli sull’export, sussidi e sanzioni, ben descritta da Chris Miller nel suo contributo, che pone l’attenzione sui riflessi militari di tali tecnologie («le recenti restrizioni sui semiconduttori imposte alla Cina dall’amministrazione Biden […] sono concepite per ostacolare gli sforzi della Cina nel costruire capacità indipendenti di produzione di chip avanzati, preservando così la capacità degli Stati Uniti di controllare l’accesso alle tecnologie che saranno alla base della forza militare del prossimo futuro» p. 95); ancora, la prometeica partita climatica, che si muove tra le grandi contraddizioni della politica, ad esempio tra provvedimenti ambiziosi come l’Inflation Reduction Act statunitense, volto a favorire le energie pulite, e il parallelo boom del gas naturale liquefatto, ambientalmente dannoso (fracking, infrastrutture e trasporto via metaniera) o, se pensiamo alla Cina, la contemporanea leadership nei settori dell’elettrico e delle rinnovabili, ben evidenziata da Adam Tooze nel suo contributo, e l’utilizzo massiccio del carbone.
In questa rassegna, che in generale si colloca principalmente tra Washington e Pechino, secondo le tradizionali logiche bipolari, non bisogna dimenticare però il sempre maggiore spazio che si stanno ritagliando gli attori non allineati, a partire dal gigante demografico indiano (ma si pensi anche all’Indonesia o al Brasile). Al netto delle diverse sfumature, la strategia di tali Paesi passa, secondo Apratim Sahay, per cinque assi: alimentare la crescita tramite trasferimenti tecnologici; rafforzare la propria sicurezza con forniture militari; aumentare il potere negoziale negli accordi con gli interlocutori occidentali da un lato e dell’orbita sino-russa dall’altro; ottenere beni alimentari essenziali ed energia; strappare ristrutturazioni del debito con i creditori occidentali e cinesi. Fattori che rendono lo scacchiere globale ancora più complesso e indecifrabile: determinato sì da una forza gravitazionale attorno ai due poli maggiori, Stati Uniti e Cina, ma che non risulta abbastanza incisiva da negare ampi margini di manovra alle medie potenze.
Quale ruolo per l’Europa in questo composito mosaico conflittuale? La guerra in Ucraina rappresenta una frattura geopolitica dalla portata profondissima, che percorre un destino geografico, per parafrasare l’ex presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, che unisce Europa e Russia, come sottolinea Carlo Galli nel suo intervento. Trattasi, dunque, anzitutto di una questione europea. La prima domanda, anche se di cattivo gusto considerato che il conflitto caldo in suolo ucraino è ancora attuale e con tutta probabilità lontano dal terminare, è quali rapporti futuri si vorranno avere con la Russia, ingombrante vicino che possiede migliaia di testate nucleari. Il livello di conflittualità politica, diplomatica ed economica emerso dopo il 24 febbraio 2022 tra NATO da un lato e Federazione russa dall’altro sembra, paradossalmente, addirittura più marcato di quello presente in epoca di Guerra fredda, in cui quantomeno si registravano parallele distensioni in ambito economico – i primi contratti sul gas e il petrolio.
Siamo di fronte a un punto di non ritorno? C’è una corrente di pensiero, che Benjamin Tallis nel suo intervento ha battezzato come neoidealismo, particolarmente diffusa nella cosiddetta nuova Europa (Paesi baltici, Polonia, in prospettiva l’Ucraina di Zelensky), che vorrebbe recidere in modo radicale i rapporti con Mosca, in una logica che vede passare per il suolo ucraino lo scontro tra libertà e tirannide; in questo senso, la democrazia diventa un “fine geopolitico”, che può giustificare un approccio anche molto conflittuale nei confronti di attori, come la Russia, che la mettono in pericolo. Più scettica invece è la cosiddetta vecchia Europa, capitanata da Germania e Francia, poco incline a prospettive che escludano la Russia da future architetture di sicurezza europea (per ragioni storiche e geografiche). Queste indecisioni all’interno del costrutto comunitario hanno reso, peraltro, l’assertività della NATO – più affine alle esigenze della nuova Europa – maggiormente attrattiva, con una sussunzione dell’europeismo nell’atlantismo (una conseguenza del conflitto, secondo Jean-Marie Guéhenno, è la «probabile esasperazione della dipendenza europea nei confronti degli Stati Uniti» p. 27). La partita dell’Europa di fronte alla guerra è, dunque, anzitutto esistenziale: quale baricentro trovare al termine di questo interregno? L’allargamento è un’opzione inevitabile dopo l’investimento politico, economico e militare in Kiev? C’è uno spazio per l’Europa oltre la NATO? Che equilibri tratteggiare rispetto all’ingombrante vicino russo? Ovviamente, prodromico alla risoluzione di questi quesiti, vi è il nodo centrale: cosa accadrà sul campo. Su questo, gli sviluppi del conflitto non sembrano indicare una fine vicina.
Il tema si interseca con quello del fattore tempo, che incide notevolmente sulle opinioni pubbliche occidentali, più che su quella russa, in larga parte sedata dal regime e storicamente incline al sacrificio. Per molti, infatti, la guerra appare lontana e, tra la libertà di un cittadino ucraino e la tranquillità della propria micro-economia, non avrebbero dubbi su cosa scegliere. L’investimento economico – armi e aiuti finanziari – su Kiev potrebbe, alla lunga, perdere sostegno. Questo tema si intreccia con le riflessioni di Giovanni Orsina sulla politica post-populista, riletta attraverso la convincente metafora del “vistocogliocchi” contro il “sentitodire”. In questo senso, le dinamiche “populiste” di ieri (e di domani?) vengono ricondotte ad una protesta del concreto contro l’astratto, nella cornice delle fratture centro/periferia, anywhere/somewhere, vincitori/vinti. La metafora proposta da Orsina coglie alla perfezione taluni profili dell’antropologia “populista”: ad esempio, il freddo e la pioggia a maggio 2023 sono un “vistocogliocchi”, mentre l’aumento delle temperature certificato dalla scienza un “sentitodire”; il cognato infettatosi di Covid-19 dopo il vaccino un “vistocogliocchi”, l’efficacia del vaccino un “sentitodire”; così, con la stessa logica, l’investimento economico sull’Ucraina per “la libertà e la democrazia” rischia, alla lunga, di tradursi in un astratto “sentitodire”, rispetto alla più concreta bolletta o all’inflazione al supermercato (“vistocogliocchi”). Una chiave di lettura utile non solo per cogliere l’intima natura delle proteste populiste di oggi e di domani, ma anche per tastare la tenuta della causa ucraina nelle opinioni pubbliche occidentali, sempre più fragili di fronte alle molteplici fratture della guerra estesa, amplificate peraltro da una sfera mediatica ipertrofica.
Gli spunti di riflessione sono molti. La guerra estesa impone uno sforzo intellettuale all’altezza della sfida: una capacità di analisi trasversale, su più livelli, che sappia muoversi tra contraddizioni e paradossi, nel solco delle fratture di un mondo sempre più complesso. Il libro curato da Il Grand Continent, grazie a contributi di autori di rilievo internazionale e un approccio multidisciplinare, è capace di dare uno spaccato di queste fratture, giocando su più piani e tematiche senza abbandonare il filo conduttore di fondo: il conflitto nello spazio contemporaneo, in tutte le sue dimensioni; o, meglio, per riprendere il titolo, le fratture della guerra estesa.
[1] Nial Ferguson, Is the United States in a New Cold War with China?, Silverado Policy Accelerator, Debate Series, 17 novembre 2020.
[2] Robert D. Kaplan, A New Cold War Has Begun, «Foreign Policy», 7 gennaio 2019.
[3] Henry Farrell e Abraham Newman, Underground Empire. How America Weaponized the World Economy, Penguin Books, New York 2023.
[4] Alberto Prina Cerai, Guerra dei materiali, stop della Cina all’export di grafite, «Formiche.net», 20 ottobre 2023.
[5] Leslie Hook, Harry Dempsey e Ciara Nugent, The new commodity superpowers, «Financial Times», 8 agosto 2023.