“Frontiera” di Francesco Costa
- 28 Marzo 2024

“Frontiera” di Francesco Costa

Recensione a: Francesco Costa, Frontiera. Perché sarà un nuovo secolo americano, Mondadori, Milano 2024, pp. 300, 19,50 euro (scheda libro)

Scritto da Daniele Molteni

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Nel 1968 il gruppo blues rock californiano Canned Heat si esibiva con la canzone On the road again sul palco di Woodstock con un testo sull’abbandono, sulla solitudine, ma soprattutto sul valore della libertà e sull’importanza di reinventarsi per affrontare le sfide della vita. A proposito di trasformazioni, su un piano più geopolitico e meno personale, nel dibattito contemporaneo da diversi anni si discute del declino americano, delle sue possibili cause e implicazioni, con analisi che a seconda del punto di osservazione riguardano l’economia, la forza militare, la politica, l’informazione e la cultura più in generale. Ma si può davvero parlare di declino?

Sin dal sottotitolo, l’ultimo libro di Francesco Costa offre una risposta precisa, spingendosi anche più in là nella previsione di quale sarà la potenza egemone da qui alla fine di questo interessante XXI secolo. In Frontiera. Perché sarà un nuovo secolo americano, l’autore prova a smentire la tesi del declino attraverso una serie di dati: aumento della forza lavoro senza precedenti, crescita economica sostenuta, solide alleanze militari, grandi investimenti contro il cambiamento climatico e aumento della popolazione. La fisionomia di un Paese che ha tra le sue caratteristiche quella di riuscire a «reagire ai danni che infligge a sé stesso», attraverso il «culto della libertà, dell’efficienza, del denaro» (p. 8). Perché gli Stati Uniti sono i migliori nel «gioco del capitalismo», per la loro capacità di sfruttare e riscrivere come nessuno le regole – che hanno largamente contribuito a costruire nel mondo contemporaneo – del sistema economico-culturale più diffuso al mondo[1].

Dal punto di vista narrativo il testo è una raccolta di frammenti di realtà che ambisce a ricostruire l’essenza dell’animale sociale, economico e politico statunitense, in un viaggio da cui affiora il fascino dell’autore per questo popolo. Un caleidoscopio di aneddoti ed episodi, analisi e opinioni, che sembra riunire dei puntini sparsi in un foglio per fare emergere, come in un esercizio della Settimana enigmistica, il disegno della figura nascosta. Storie in apparenza scollegate, drammatiche e grottesche, che vengono raccontate sotto cinque parole chiave utilizzate come categorie interpretative e sviluppate in altrettanti capitoli: abbondanza, ingenuità, identità, violenza e frontiera.

«Si stima che nella sola giornata del Super Bowl si consumino negli Stati Uniti circa un miliardo e mezzo di ali di pollo» (p. 73), scrive l’autore in un esempio di come negli Stati Uniti sia «tutto, tanto, troppo, sempre», come viene ripetuto spesso nel primo capitolo. Dalle numerose modalità con cui si può votare al free refill dei fast food, l’abbondanza di cui parla Costa è quella pensata per «evitare qualunque attrito dentro ogni esperienza, soprattutto quella di acquisto e consumo» (p. 20). Oltre a questa abbondanza, il primo capitolo è anche quello che tratta più di altri del perché il declino americano non sia così evidente. Perché se n’è già parlato in passato dopo il caso Watergate, che nel 1974 ha portato alle dimissioni dell’allora presidente Richard Nixon, e poi negli anni successivi, quelli della sfiducia per la crisi petrolifera culminati nel malaise speech di Jimmy Carter del 1979[2]. Ma poi il declino non c’è stato. E quella situazione, da cui gli americani riuscirono a uscire, secondo Costa non è dissimile da quella odierna che vede le conseguenze delle fallimentari guerre in Afghanistan e Iraq, la polarizzazione della società e la spaccatura mai così netta tra partiti guidati da leader ottuagenari.

La chiave di questa resilienza è la capacità di adattarsi al sistema, reinventando a seconda delle esigenze la direzione del proprio capitalismo. Una flessibilità che ha portato negli ultimi anni il governo di Washington a immettere nell’economia statunitense migliaia di miliardi di dollari con misure come l’Inflaction Reduction Act (IRA), il CHIPS & Science Act (CSA) o la Bipartisan Infrastructure Law (BIL), per sostenere la popolazione dopo la pandemia, affrontare i cambiamenti climatici, stimolare la produzione di beni e servizi strategici, migliorare le infrastrutture e quindi rafforzare la propria leadership globale. Un capitalismo politico[3] che antepone la sicurezza al dogma del libero commercio in un riorientamento dell’economia che ha contribuito a impedire il sorpasso del PIL cinese su quello degli Stati Uniti. Anche perché questi ultimi «hanno rubato una pagina dal manuale cinese: investimenti pubblici, investimenti pubblici, investimenti pubblici» (p. 42).

Partendo dal disastro del Ballonfest del 1986 nella sfortunata Cleveland e passando attraverso i sidewalk shed di New York, le cattedrali con gargoyle a forma di Darth Vader e le statue di Superman alte cinque metri, nel secondo capitolo che ha per oggetto l’ingenuity americana, Costa racconta questo misto tra «sincerità e guasconeria, innocenza e inventiva, e quello che viene fuori mescolando gli ingredienti» (p. 82). Una caratteristica che ricorda il personaggio interpretato dall’attore Bob Odenkirk nella serie Better Call Saul, un truffatore e criminale diventato avvocato che riesce a trovare soluzioni originali a situazioni complesse e pericolose, il cui soprannome è un gioco di parole che riprende la frase “it’s all good, man” (va tutto bene, amico): Saul Goodman. Una propensione all’imprenditorialità e alla persuasione, che vediamo anche in Saul, frutto forse di una storia nazionale breve e di un passato che non ha lasciato in eredità tradizioni millenarie, oppure della commistione tra culture e popoli diversi, o ancora per uno sviluppo nazionale avvenuto in concomitanza con l’affermarsi del capitalismo. Quale che sia il motivo, gli Stati Uniti si reinventano e cambiano forma, come dimostrano i loro ultimi quattro presidenti – Bush, Obama, Trump e Biden – estremamente diversi ma tutti con peculiarità americane.

Molteplici incarnazioni dello spirito nazionale, tutte specchio di una società dove la politica più che occuparsi di questioni materiali si trova separata su linee di faglia identitarie, alla ricerca della “correzione” della realtà in base alle visioni delle rispettive parti e dei partiti. Un fenomeno lontano dalla cancel culture che viviamo – o pensiamo di vivere – in Europa, ma che pure è presente, come ha analizzato il giornalista e scrittore Davide Piacenza in un libro[4] e racconta in una newsletter settimanale dal titolo Culture Wars, in cui proprio Francesco Costa è stato ospite in una recente intervista[5]. «Quando l’attività politica si sviluppa quasi esclusivamente attorno a temi legati all’identità personale, things are bound to get ugly, direbbero gli americani: non può che andare a finire male» (p. 129). L’intolleranza aumenta, il compromesso si allontana e lo stigma genera una spirale di violenze ed esclusione sociale e, senza che si possa offrire alcuna possibilità di cambiamento o trasformazione politica, la necessità di validare le posizioni assunte all’interno della propria “bolla” impedisce di guardare alla realtà e la polarizzazione assume tratti irrazionali.

Quello identitario è un racconto del “tribalismo” della destra e della “depressione” della sinistra, della critical race theory, delle questioni di genere. Visioni che si scontrano in una nevrosi che acuisce le tensioni sociali, andando a definire una realtà lontana da quella dell’abbondanza e della rinascita industriale. E le contraddizioni in effetti non mancano, perché la società americana è anche quella dove un gran numero di persone muore per cause violente, molto più che in altri Paesi ricchi e sviluppati, e dove si contano più armi che persone. Un Paese dove la violenza è stata spesso «uno strumento di vita quotidiana, di liberazione, di affermazione di sé e di protezione dei propri interessi, dentro e fuori i propri confini» (p. 185). Da quella metaforica del football come simulazione della guerra, alla violenza reale del Ku Klux Klan; della criminalità che colpisce soprattutto le persone più povere e della violenza sugli afroamericani, che ha avuto come conseguenza il taglio dei fondi alla polizia rivelatosi controproducente per le stesse categorie marginalizzate. Una storia violenta che è anche quella del progetto MKUltra della CIA, dell’esperimento di psicologia sociale di Philip Zimbardo, della conquista ai danni dei nativi, della schiavitù e dei campi di concentramento per i giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. «Un pezzo di quella che è stata a lungo la cultura dominante negli Stati Uniti è stato costruito sulla crudeltà: sulla condivisione del disprezzo per qualcosa che meriti il nostro odio collettivo. Ma forse potremmo dire la stessa cosa per ogni cultura dominante, compresa la nostra» (p. 205).

Il capitolo che chiude il saggio e dà il titolo al libro legge i tratti peculiari e contraddittori del popolo americano attraverso il loro mito fondativo: la frontiera. Una frontiera che è lo sguardo su sé stessi e sul mondo di un popolo che si considera eletto e che vede nell’espansionismo la conditio sine qua non per la propria prosperità; e i suoi valori, la cultura e l’identità come obiettivo a cui tendere per sé e il mondo. E in qualche modo, ci dice Costa, gli Stati Uniti una frontiera effettivamente la rappresentano ancora per i Paesi idealmente più vicini a loro – o i più influenzati culturalmente e politicamente – in quanto anticipatori di avvenimenti destinati a diffondersi. Ma la frontiera è anche sinonimo di confine e richiama il fenomeno migratorio in aumento, mal gestito da una politica che compie scelte repressive, fallimentari, costose e disumane.

La scrittura di Costa scorre fluida in paragrafi brevi, intervallati da sezioni più lunghe, che comprimono passato e presente in diapositive sparse, in cui è possibile giocare a intuire ciò che ancora potrà essere disegnato con il passare del tempo e della Storia. Un racconto di eccezionalità, paradossi, aporie e antinomie di un Paese che si è posto come guida dell’ordine liberale negli ultimi decenni, ancora forte della convinzione del “destino manifesto”, da cui dipenderà nel bene e nel male il nostro futuro. Se non altro, per quanto percepiamo che il mondo verrà influenzato dall’esito delle elezioni presidenziali di novembre, i cui candidati danno un’immagine da gerontocrazia, che vedranno sfidarsi Donald Trump impegnato a fronteggiare 88 capi d’accusa in quattro processi penali[6] e Joe Biden considerato dalla maggioranza di chi lo ha votato nel 2020 non più in grado di governare[7].

Nonostante tutto questo, o forse proprio per le ragioni raccontate in questo libro, gli Stati Uniti sono lì, sicuramente per la forza del loro smart power[8] ma anche per la loro capacità di raccontarsi al mondo e a loro stessi, perché «[c]i credono, quindi ogni tanto ci riescono» (p. 6). Se il nuovo libro di Francesco Costa, vicedirettore de Il Post, giornalista e saggista, perde la linearità dei suoi altri lavori, acquisisce quella di un viaggio giornalistico ricco e informativo alla scoperta di una nazione che da tanti punti di vista è on the road again.


[1] Un punto spiegato più nel dettaglio in un’intervista a Francesco Costa apparsa sulla newsletter settimanale Tempolinea della rivista «Iconografie», dal titolo I migliori nel gioco.

[2] Jimmy Carter, Energy and the National Goals – A Crisis of Confidence, 15 luglio 1979.

[3] Alessandro Aresu, Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, La Nave di Teseo, Milano 2020.

[4] Davide Piacenza, La correzione del mondo. Cancel culture, politicamente corretto e i nuovi fantasmi della società frammentata, Einaudi, Torino 2023.

[5] Davide Piacenza, Il mondo dalla frontiera, «Culture Wars», 8 marzo 2024.

[6] Derek Hawkins e Nick Mourtoupalas, Breaking down the 88 charges Trump faces in his four indictments, «The Washington Post», 3 agosto 2023, ultimo aggiornamento 14 marzo 2024.

[7] Lisa Lerer e Ruth Igielnik, Majority of Biden’s 2020 Voters Now Say He’s Too Old to Be Effective, «The New York Times», 3 marzo 2024.

[8] Il concetto di smart power, che riguarda l’integrazione di hard e soft power in politica estera, è stato espresso e analizzato all’indomani dell’11 Settembre 2001, data indicativa quando si parla del potenziale declino degli Stati Uniti, dall’attuale Segretario di Stato Anthony Blinken. Si veda: Anthony J. Blinken, Winning the war of ideas, «The Washington Quarterly», 25(2), 101–114, 2002.

Scritto da
Daniele Molteni

Laureato in Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano, lavora come editor e collabora con diverse realtà giornalistiche. È interessato a tematiche riguardanti la filosofia politica, la politica estera, la geoeconomia, i mutamenti sociali e politici e gli effetti della tecnologia sulla società. Ha partecipato al corso 2023 di “Traiettorie. Scuola di lettura del presente”.

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