Scritto da Mara Di Berardo e Roberto Paura
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Questo articolo si inserisce all’interno di un percorso di approfondimento parte del progetto Aut – Futuri Fuori promosso da Cob Social Innovation. Aut – Futuri Fuori è un processo di immaginazione collettiva sulle possibilità di Futuro per costruire il nuovo modello di società al 2050. L’intento è cambiare la direzione attuale facendo leva sulla capacità umana di aspirare, e sulla possibilità di farlo insieme.
Una delle domande più frequenti che chi si occupa di futures studies si è sentita porre in questo ultimo anno e mezzo è se la pandemia di Covid-19 fosse stata prevista. Domanda lecita, perché nonostante gli studiosi di futuro sostengano che l’obiettivo della loro disciplina[1] non sia quello di prevedere il futuro, è pur vero che i futures studies sono nati da un percorso il cui punto di partenza era proprio quello della previsione scientifica.
Questa speranza, coltivata a cavallo tra XIX e XX secolo nell’ambito della cultura positivista occidentale, tradiva in molti casi l’obiettivo secondo cui prevedere il futuro significhi controllarlo. Non c’è allora da meravigliarsi se a investire maggiormente nella previsione del futuro (nella cosiddetta “futurologia” classica) siano stati il Regno Unito quando ancora era il centro di un grande Impero, poi gli Stati Uniti (seguiti dall’Unione Sovietica, la quale però poggiava il proprio sguardo su una concezione ideologica della storia – quella del materialismo storico marxista – che già sosteneva di offrire metodi scientifici di previsione del futuro) e oggi dalle grandi autocrazie, come quelle arabe o asiatiche.
Alla fine degli anni Sessanta, in concomitanza con una stagione di rottura radicale con il passato in cui gli assunti del positivismo erano già stati abbattuti dalle grandi rivoluzioni scientifiche della prima metà del secolo e che vedeva ora anche il declino delle grandi ideologie della modernizzazione, basate sulla convinzione che tutte le società seguono un’analoga traiettoria di sviluppo verso la “modernità” (qualunque cosa significhi), si mise in discussione la dicotomia previsione-controllo, originariamente tipica dell’approccio descrittivo o estrapolativo dei primi decenni nell’accezione del termine forecast, a favore di studi maggiormente normativi, sistemici, soggettivi, vicini all’accezione di foresight.
La pluralizzazione dei futuri, che già il logo della prima conferenza mondiale di studi sul futuro (Oslo, 1967) includeva, recependo le innovazioni di lavori come ad esempio quelli di Bertrand de Jouvenel[2] e di Robert Jungk[3], restituivano una maggiore complessità all’oggetto di studio della disciplina, non più al singolare (futuro) ma al plurale (futuri), portando poi esponenti di punta della materia come Jim Dator ed Eleonora Barbieri Masini al riconoscimento della necessità di una “s” sia per futures che per studies[4]. Il sociologo Wendell Bell avrebbe successivamente sistematizzato questi concetti in una serie di assiomi alla base dei futures studies, di cui tre soprattutto rappresentano le fondamenta imprescindibili di ogni discorso sul futuro: 1) il futuro non può essere osservato, dunque non esistono fatti relativi al futuro, ma solo possibilità; 2) il futuro è aperto, dunque indeterminato, vale a dire che non “scopriamo” il futuro, dal momento che non esiste un futuro preesistente da scoprire; 3) il futuro può, in una certa misura, essere influenzato dall’azione individuale e collettiva[5]. Quest’ultimo concetto sanciva un principio fondamentale: anche se le nostre azioni sono sempre vincolate da certe condizioni derivanti dall’ambiente, ciò nonostante abbiamo un certo grado di libertà attraverso il quale dare una direzione al futuro. È la dimensione del “futuro desiderabile”, che negli anni ha assunto rilievo crescente all’interno dei futures studies.
Per capire il perché, possiamo tornare alla domanda di apertura: il Covid-19 era prevedibile? I futures studies hanno strumenti in grado di prevedere queste incognite? Certamente sì, tant’è che una pandemia virale era una possibilità considerata da un’ampissima rassegna di pubblicazioni, da quelle dell’OMS e del World Economic Forum ai rapporti del Millennium Project sullo Stato del futuro[6], dai saggi sui rischi esistenziali[7] a quelli focalizzati sui problemi di uno sviluppo insostenibile[8]. Il Millennium Project, in particolare, avvertiva già dal 1997 che «l’aumento delle migrazioni di massa e dei viaggi internazionali avrebbero diffuso malattie più rapidamente che in passato, e che l’aumento dell’urbanizzazione e della densità della popolazione avrebbe accelerato e intensificato la possibilità di portare la vita così come la conosciamo ad un blocco totale»[9], considerando questa possibilità come una delle maggiori sfide globali di fronte alle quali si trova ancora oggi l’umanità.
Un simile scenario era prevedibile perché frutto di una serie di grandi tendenze, i cosiddetti megatrend, ampiamente note e di cui è in parte possibile prevedere gli sviluppi: la perdita di biodiversità e i sistemi di produzione alimentare che favoriscono le zoonosi; l’aumento esponenziale del numero di persone che viaggia nel mondo, che facilita la diffusione di agenti patogeni; i cambiamenti climatici, che favoriscono la circolazione di certi virus; l’urbanizzazione crescente, che moltiplica il rischio di focolai; e altri più tecnici ben noti agli specialisti, come ad esempio l’aumento degli eventi pandemici negli ultimi anni.
L’analisi dei megatrend, un importante settore dei futures studies, a partire perlomeno dal grande classico di John Naisbitt[10] fino ad arrivare agli studi più recenti (per esempio i rapporti annuali Long-Term Megatrends dell’Italian Institute for the Future, i rapporti sui megatrend di PwC, il Progetto Macrotrends di Harvard Business Review Italia), ci fornisce non solo dati utili per prevedere l’evoluzione di certi fenomeni, ma soprattutto una visione sistemica indispensabile quando si ha a che fare con sistemi complessi come la biosfera e l’umanità. I megatrend sono usati non solo a livello macro, ma anche a livello micro da organizzazioni e aziende per prevedere le possibili trasformazioni del proprio settore di riferimento sul medio-lungo termine nell’ambito dello strategic foresight. Ed è senz’altro possibile rendere più sofisticati i metodi di analisi dei megatrend e dei trend attraverso strumenti tanto quantitativi (es. big data analysis) che qualitativi (es. analisi di scenario), pur con la consapevolezza che i sistemi dinamici cambiano e ciò implica che dobbiamo continuare a misurare, comprendere, e modellare anche ridefinendo le nostre classificazioni per continuare a tenere sotto controllo fenomeni complessi, e riuscire a comprendere anche i cosiddetti known unknowables[11].
Il vero problema è che la previsione, da sola, non sembra più sufficiente. Il caso della pandemia di Covid-19 lo spiega bene: pur essendo uno scenario ampiamente previsto e prevedibile, poco o nulla si è fatto per la sua mitigazione. Il solo studio delle dinamiche e delle tendenze future, come l’analisi dei megatrend, o la definizione degli scenari di medio-lungo termine, non basta. Manca un collegamento tra la previsione e l’azione, come discusso di recente anche da Ted Gordon e Vint Cerf, pionieri della futures research e di Internet, nel corso del World Future Day 2021, l’ottava edizione della conversazione mondiale di 24 ore sul futuro organizzata dal Millennium Project il primo marzo di ogni anno. L’attività di chi si occupa di futures studies si scontra sempre più con una logica “presentista” che non fa programmi né assume decisioni nei confronti di eventi più o meno certi e incognite più o meno prevedibili che si verificheranno su un orizzonte temporale superiore alle responsabilità dei decisori, mentre sempre più persone nella società interagiscono sempre meno con il futuro.
Il lavoro degli esperti di futures studies è quindi sottoposto a un’importante trasformazione. Jennifer Gidley, già presidente della World Futures Studies Federation, ha ridefinito di recente una serie di categorie per raccogliere i diversi approcci allo studio dei futuri[12]. Il primo, quello “empirico-predittivo”, è l’approccio della futurologia classica, fondata su analisi quantitative di trend e serie storiche e basato sulla convinzione di poter ottenere una comprensione scientifica del futuro. Il secondo, l’approccio “critico-postmoderno”, è quello avviato dal cambio di paradigma citato in precedenza e sancito dalla fondazione della World Futures Studies Federation, più attento alla componente. Ulteriori approcci considerati sono: 1) quello “culturale-interpretativo”, che punta a promuovere l’immaginazione di futuri altri, diversi dalla visione egemonica del futuro offerta dai gruppi dominanti, e che sfrutta metodologie immaginative, ricerca etnografica e attività di dialogo per favorire l’emergere di immagini alternative di futuro con l’obiettivo della comprensione; 2) l’approccio “partecipativo-prospettico”, focalizzato sull’attivismo e l’empowerment dei gruppi sociali attraverso la loro idea di futuro, che diventa strumento di emancipazione e pratica cooperativa; 3) l’approccio “integrale-olistico”, focalizzato sulla multidisciplinarietà, il modo in cui le tendenze globali possono essere trasformate dall’azione delle nuove generazioni e l’anticipazione degli impatti sociali delle nuove tecnologie.
Gradualmente, assistiamo dunque da un lato all’apertura ad apporti disciplinari diversi, contaminazioni e metodologie miste che superano la fede aprioristica nei soli strumenti quantitativi come metodi per esplorare i futuri; dall’altro, all’ampliamento degli obiettivi dei futures studies, sempre meno descrittivi e più prescrittivi, non più come in passato fondati sull’idea che studiare il futuro permette di controllarlo, ma sull’idea che lo studio dei futuri sia uno strumento di conoscenza, emancipazione e azione, per perseguire la giustizia globale.
Del resto, a nessun’altra disciplina è richiesto di cambiare come ai futures studies, che fanno della dinamicità una delle proprie caratteristiche fondamentali e che sono così comprensivi da includere tutte le forme con cui si guarda al futuro. Tre principi di base[13] dei futures studies generalmente accettati da chi vi lavora sono: 1) il costante dilemma tra conoscenza del passato e del presente per guardare al futuro da un lato, e desideri e paure rispetto al futuro dall’altro, che spesso non vi corrispondono o addirittura lo contraddicono; 2) la consapevolezza che l’unico spazio in cui gli esseri umani possono avere un impatto è il futuro; 3) e l’idea che non esista un unico futuro ma molti possibili futuri, essendo il futuro relativo a valori, scelte, e principi che possono essere differenti e alternativi tra loro sulla base di generazioni, culture, discipline ed esperienze diverse.
È vero. Il futuro non può essere predetto in maniera affidabile, e i futures studies non danno certezze. Il futuro, diceva Ted Gordon durante il World Future Day 2021, è molto più casuale di quanto pensiamo, e le piccole cose possono fare la differenza, oggi molto più che in passato, aumentando il livello di imprevedibilità. I futures studies, e i metodi della cosiddetta futures research[14], possono però aiutarci ad analizzare i potenziali cambiamenti nei prossimi 10-25 anni, a capire cosa potrebbe accadere e vorremmo che accadesse, ad anticipare alternative per l’azione per orientare la decisione[15]. I futures studies, insomma, possono aiutarci ad abbassare il livello di incertezza, a indirizzare la complessità attraverso un’attenta strutturazione e analisi dei problemi, e a superare le nostre paure nei confronti del futuro, migliorando il nostro futures thinking, un pensiero multi-futuro per riflettere sui cambiamenti che accadranno in tutte le aree della vita, con la consapevolezza che guardare al futuro è un obbligo generale e comporta un gran senso di responsabilità.
[1] Eleonora Barbieri Masini, Why Futures Studies?, Grey Seal Books, 1993.
[2] Bertrand de Jouvenel, L’arte della congettura, Vallecchi, Firenze, 1969 (ed. orig. 1964).
[3] Johan Galtung e Robert Jungk (a cura di), Mankind 2000, Allen&Unwin, Londra, 1969.
[4] Cfr: Jennifer Gidley, The Future: A Very Short Introduction, Oxford University Press, 2017.
[5] Wendell Bell, Foundations of Futures Studies, Routledge, 2003.
[6] Ad esempio: Jerome C. Glenn, Elizabeth Florescu (a cura di), Lo stato del futuro 19.1, edizione italiana a cura di Mara Di Berardo e Roberto Paura, Italian Institute for the Future, 2018.
[7] Ad esempio: Martin Rees, Il secolo finale, Mondadori, 2005; Nick Bostrom, Milan C. Cirkovic (a cura di), Global Catastrophic Risks, Oxford University Press, 2011.
[8] Ad esempio: Jorgen Randers, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni, Edizioni Ambiente, 2013; Jeffrey Sachs, L’era dello sviluppo sostenibile, Università Bocconi Editore, 2015.
[9] Jerome C. Glenn, Theodore J. Gordon, State of the Future, American Council for the United Nations University, 1997.
[10] John Naisbitt, Megatrends: Ten New Directions Transforming Our Lives, Warner Books, 1982.
[11] Joseph Luft, Harrington Ingham, The Johari window, a graphic model of inter-personal awareness, “Proceedings of the Western Training Laboratory in Group Development” University of California, Los Angeles, 1995.
[12] Jennifer Gidley, The Future, op. cit.
[13] Eleonora Barbieri Masini, Why Futures Studies?, op. cit.
[14] Jerome C. Glenn, Introduction to the futures research methodology, in Jerome C. Glenn, Theodore J. Gordon, Futures Research Methodology 3.0, The Millennium Project, 2009.
[15] Jerome C. Glenn, Introduction to the futures research methodology, op. cit.