Un futuro incerto per l’Iraq
- 06 Novembre 2018

Un futuro incerto per l’Iraq

Scritto da Francesco Salesio Schiavi

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Gli eventi finora susseguitisi in Iraq durante il 2018 hanno dimostrato come i problemi strutturali del Paese non siano più inclini ad essere risolti oggi rispetto a quanto lo fossero dopo la liberazione di Mosul un anno fa. Nel 2018 la politica irachena è stata dominata da quattro eventi in particolare: le elezioni nazionali in maggio, il conseguente riconteggio dovuto alle diffuse accuse di frode, l’insorgere di proteste di massa contro la corruzione endemica e il fallimento delle istituzioni nel far fronte ai problemi pressanti che attanagliano il Paese e le nomine di Adil ‘abdul-Mahdi e di Barham Salih.

L’ottimismo generato dalle vittorie ottenute contro il sedicente Stato islamico (IS) aveva convinto un certo numero di osservatori che la politica irachena avesse finalmente prevalso sulle fonti del conflitto che avevano precedentemente spinto il Paese nella guerra civile e favorito l’ascesa di Daesh. Ciò nonostante, gli eventi dell’estate del 2018 hanno dimostrato che le dinamiche strutturali alla base dell’escalation di violenza dopo il 2003, l’etno-confessionalismo al centro del sistema politico iracheno e la corruzione endemica dello Stato rimangono forze dominanti che tutt’oggi plasmano la politica irachena e le dinamiche costanti del suo conflitto interno.

 

L’Iraq e l’eredità di Daesh

Con la liberazione di Mosul, annunciata dall’allora premier Al-Abadi nel luglio 2017, l’Iraq sanciva la sua vittoria sul campo di battaglia contro il sedicente Stato Islamico e la fine di una sanguinosa campagna militare che lacerava il Paese sin dall’anno precedente. Ciò nonostante, il compito che oggi lo Stato iracheno si trova ad affrontare è ugualmente scoraggiante. Le sfide sicuramente non mancano: dal finanziamento dei continui sforzi per ricreare una stabilità, al più ampio ricorso di risorse necessarie alla ricostruzione del Paese e al risanamento delle sue istituzioni e del suo fragile tessuto sociale.

I danni alle strutture rimangono tutt’ora ingenti. La città di Mosul è sicuramente uno dei centri maggiormente colpiti, sebbene rappresenti soltanto un esempio (per quanto rilevante) dei diversi luoghi delle sette regioni del Paese che portano i segni delle feroci battaglie per colpire lo Stato Islamico. Dopo Mosul, infatti, la campagna contro Daesh ha interessato diverse aree in precedenza sotto il suo controllo, incluse Hawija e Tal Far, così come diverse città minori.[1] Non stupisce dunque che il costo della ricostruzione, stimato dalla World Bank e dal governo iracheno sui 45,7 miliardi di $, sia alquanto alto (tale cifra andrebbe poi inserita in quella complessiva di 88 miliardi di $ ritenuta necessaria per garantire una ripresa totale dal conflitto).[2]

In una simile ottica, la ricerca di fondi diviene di fondamentale importanza, non solo per la stabilizzazione e la ricostruzione del Paese in generale, ma nello specifico anche per risolvere situazioni complesse come la gestione degli sfollati. I dati del dicembre 2017 mostrano che 3.2 milioni di iracheni fuggiti dal conflitto sono tornati alle loro case, mentre un rimanente 2.6 milioni rimane ancora dislocato.[3] Le ragioni dietro a questo fatto sono principalmente da ricercarsi nella distruzione delle abitazioni e delle infrastrutture essenziali, nonché nella cessazione dei servizi pubblici fondamentali. Allo stesso tempo, diverse aree civili risultano ancora insicure a causa della vasta presenza di residui bellici (IED e ERW).

Il rientro degli sfollati è ulteriormente complicato da fattori come le tensioni tribali (preesistenti e ulteriormente esacerbate dal conflitto contro l’ISIS) e la presenza di disparate forze armate (è necessario infatti assommare alle forze di sicurezza irachene anche i peshmerga curdi, le milizie filo-iraniane Hash’d al-Shaabi e le forze della Coalizione). Queste divisioni rischiano di intaccare la fragile coesione sociale su cui poggia l’Iraq e di aggiungere così ai preesistenti danni fisici, agli scarsi servizi essenziali e alle limitate prospettive economiche che affliggono oggi il Paese l’insicurezza e la paura di rappresaglie per cause identitarie.

 

Un travagliato processo elettorale

Le interpretazioni ottimistiche (e le speranze) verso la traiettoria politica dell’Iraq post-ISIS hanno acquistato forza durante la corsa alle elezioni nazionali del 12 maggio 2018. Questa tornata elettorale, la quarta a cui ha assistito il Paese dopo la caduta del regime di Saddam Hussein (le precedenti sono avvenute, rispettivamente, nel 2005, 2010 e 2014), avrebbe dovuto inaugurare un nuovo capitolo per l’Iraq, uno in cui Baghdad si sarebbe finalmente mossa per porre rimedio alla corruzione endemica, all’instabilità economica e alla polarizzazione sociale e politica. Queste elezioni parlamentari acquistavano inoltre un profondo significato storico, in quanto le prime svoltesi all’indomani della sconfitta di Daesh e in cui la campagna elettorale si è basata principalmente sulla soluzione dei problemi reali del Paese piuttosto che sulla differenza identitaria.

Nonostante tali premesse, l’esito degli scrutini ha fortemente deluso le aspettative. Innanzitutto, un tasso di affluenza storicamente basso è stato il primo indice del fatto che queste elezioni non abbiano proiettato l’Iraq verso i tanto agognati cambiamenti di cui ha un disperato bisogno. All’indomani dei conteggi, infatti, la Indipendent High Electoral Commission (IHEC) per l’Iraq ha riferito che l’affluenza alle urne ha raggiunto solamente il 44.52%, un risultato nettamente inferiore rispetto alle precedenti elezioni (per quella del 2014, ad esempio, l’affluenza fu circa del 63%).[4] Un simile risultato è indubbiamente frutto del diffuso senso di scetticismo che il popolo iracheno ha verso un voto ritenuto incapace di mettere in dubbio la base politica di quei partiti ormai screditati che sono al vertice del sistema politico iracheno fin dal 2003. Questa vasta apatia è stata ulteriormente incoraggiata quando il Grande Ayatollah Ali al-Sistani ha invitato nel suo sermone del 4 maggio il popolo iracheno a non dare il proprio supporto a gruppi politici “che sono stati al potere in passato” e il cui operato si è macchiato di corruzione e sprechi di fondi pubblici.[5] Nonostante questa denuncia non fosse diretta ad alcun gruppo politico in particolare, è chiaro che con essa al-Sistani abbia manifestato la fine del proprio sostegno ai partiti islamisti sciiti iracheni, un messaggio che ha riscontrato un ampio eco fra la popolazione delle regioni centro-meridionali.

Un altro indice dell’alienazione del popolo iracheno dalla politica nazionale sono stati gli scarsi risultati elettorali ottenuti dai gruppi che hanno in precedenza guidato il Paese. L’Eitilaf al-Nasr (Alleanza della Vittoria), il partito del Primo Ministro Haider al-Abadi, ha infatti ottenuto solamente 42 seggi e si è classificato cosi come terzo partito. Al contrario, la coalizione Sairoon del chierico sciita Muqtada al-Sadr e l’Alleanza Fatah dell’ex-ministro Hadi al-Ameri hanno ottenuto la maggioranza dei seggi del Parlamento iracheno, rispettivamente con 54 e 47. Il magro risultato di al-Abadi, nonostante fosse dato favorito visto il suo ruolo centrale nella campagna di liberazione di Mosul e nel preservare l’unità del Paese, è probabilmente da attribuire alla decisione di riservare alcune posizioni-chiave a politici di lunga data che sono però stati spesso associati alla corruzione e all’inefficienza del Governo. Muqtada al-Sadr, al contrario, ha rappresentato l’emblema di queste elezioni, presentando una lista col maggior numero di nuovi volti tra i candidati e raccogliendo voti grazie ad una campagna di condanna verso la dilagante corruzione che domina il Paese. Dalla marcata posizione nazionalista, il chierico sciita ha inoltre da sempre mostrato una posizione fortemente critica verso qualsiasi interferenza negli equilibri interni dell’Iraq (non a caso, il suo gruppo politico deve gran parte del proprio successo soprattutto al supporto delle classi più indigenti nel sud sciita, storicamente legato alla famiglia al-Sadr).

All’indomani delle votazioni è iniziato il processo di formazione di un’alleanza tra i vari gruppi politici in grado di ottenere una maggioranza in Parlamento. L’attuale sistema elettorale iracheno, infatti, favorisce maggiormente i grandi gruppi politici o le coalizioni, rendendo così particolarmente difficile (se non impossibile) ai singoli partiti prendere in mano le redini di una coalizione parlamentare.[6] Come avvenuto per le precedenti elezioni, i partiti che sono riusciti ad ottenere il maggior numero di seggi hanno iniziato una complessa campagna di negoziazione con le altre fazioni così da assicurare la formazione di un blocco parlamentare dalla netta maggioranza.

Un simile contesto elettorale e la consapevolezza dei gruppi politici al vertice di poter porre un veto alla formazione di un governo da cui risultassero esclusi, però, hanno contribuito a creare una situazione di stallo di difficile soluzione durante la quale è emersa tutta la mancanza di volontà da parte dell’élite irachena di modificare un tale sistema fallimentare. Le forze di opposizione ad al-Sadr hanno subito denunciato brogli elettorali nelle regioni del nord-ovest, esacerbando ulteriormente le tensioni nel Paese. Durante lo scorso agosto è così avvenuto un riconteggio manuale delle schede della tornata di maggio che, tuttavia, non ha portato ad alcun capovolgimento negli esiti del voto. Il risultato di tale processo è stato infine approvato il 2 settembre dalla Corte Federale irachena.

 

Il riaccendersi delle proteste

Le dimostrazioni popolari durante i mesi estivi non sono una novità in Iraq: ondate di proteste “stagionali” hanno infatti regolarmente interessato il sud del Paese quando le istituzioni statali non sono riuscite ad assicurare alla popolazione colpita dall’intensa calura estiva una quantità sufficiente di acqua e di elettricità. A seguito della situazione di impasse politica dopo elezioni di maggio e con l’approssimarsi dell’estate, un nuovo ciclo di proteste era prevedibile.

Così come allora, le attuali manifestazioni popolari forniscono un’ulteriore prova del diffuso senso di alienazione che la popolazione irachena nutre nei confronti della leadership e del sistema politico del Paese. Riaccesesi a partire dal 6 luglio, esse sono infatti da imputare all’incapacità percepita del governo di assicurare acqua potabile, una fornitura adeguata di energia elettrica, un contenimento della dilagante corruzione e più posti di lavoro per la popolazione.[7]

Non è un caso che le proteste abbiano avuto come punto focale la regione di Bassora. Seconda città irachena per popolazione, ne costituisce l’unico sbocco sul mare e ospita alcuni dei più estesi giacimenti di petrolio. Oltre a voler chiaramente colpire il governo “dove fa più male,” il loro scopo è stato soprattutto quello di richiamare l’attenzione sulla situazione in cui verte oggi il sud. Malgrado la ricchezza di risorse e nonostante sia la fonte della maggior parte degli introiti iracheni, la popolazione non riesce ad avere accesso ad alcuni servizi di base poiché la regione presenta le peggiori infrastrutture statali e le condizioni climatiche più estreme del Paese. In questo centro focale, tanto dell’estrazione del greggio che dell’export, si è quindi protestato contro la grande presenza di manodopera internazionale impiegata nel settore petrolifero e contro la netta differenza salariale tra la manodopera locale e quella internazionale (mentre gli stranieri percepiscono stipendi elevati, la popolazione irachena è scarsamente impiegata e decisamente peggio retribuita).[8]

Le manifestazioni hanno anche preso di mira gli uffici di alcuni partiti sciiti islamisti, come il movimento Da’wa dell’ex-Premier Al-Maliki, l’organizzazione Badr e l’Islamic Supreme Council (ISCI), rendendo così noto quali siano i gruppi politici che la popolazione ritiene responsabili dei mali del Paese. La tensione è ulteriormente aumentata quando i manifestanti hanno attaccato il consolato iraniano (dato alle fiamme) e quello statunitense (salvato grazie all’intervento della nutrita guardia), come segno di protesta contro l’interferenza di Teheran e di Washington negli affari interni iracheni.[9]

Il governo provvisorio sotto la guida dell’ex-Premier Al-Abadi ha reagito alle proteste alternando il bastone alla carota, ovvero combinando misure coercitive a promesse (difficilmente credibili) di un miglioramento dei servizi e di un aumento dei posti di lavoro. Provvidenziale, da questo punto di vista, è stato l’intervento del Grande Ayatollah al-Sistani: in un sermone pronunciato il 27 luglio egli si è infatti schierato dalla parte dei manifestanti, accusando le élite politiche irachene di mettere gli interessi personali e dei partiti di fronte a quelli del Paese ed intimando loro di formare al più presto un governo. Legando alle rivolte la propria autorità morale al-Sistani ne ha così garantito una reale continuità politica nel tempo.[10]

 

La lunga mano dell’Iran

Tra le numerose cause del diffuso malcontento è necessario inserire l’ingerenza straniera, tollerata sempre più a stento da molti iracheni. Riportare gli sviluppi storici che hanno portato l’Iraq a divenire terreno di scontro di diversi attori internazionali è del tutto superfluo: è ampiamente risaputo infatti che, a partire dal disastroso intervento statunitense del 2003, il vuoto di potere politico, sociale ed economico lasciato dalle istituzioni irachene è stato spesso sostituito da realtà strettamente connesse ai principali attori regionali, in particolare Iran, Turchia e Arabia Saudita.

Il ruolo più attivo (e di conseguenza più temuto da Washington) è sicuramente quello di Tehran. Nel tentativo di creare una sfera strategica d’influenza attraverso il Medio Oriente, infatti, l’Iran ha supportato fuori dai propri confini una forma militarizzata di nazionalismo confessionale. Le dimensioni in cui si sviluppa questa influenza politica, militare, economica e religiosa in Iraq sono molteplici: Tehran storicamente ha supportato la creazione di milizie e partiti politici, ha investito nello sviluppo di infrastrutture nelle città sante sciite (atabat), conta diversi membri radicati nel clero sciita iracheno ed è ampiamente attiva nell’export, nel settore bancario e in quello petrolifero.[11]

In risposta alla nuova serie di sanzioni imposte dagli Stati Uniti il 7 agosto, l’Iran è ormai sempre più intenzionato ad espandere i propri interessi nel commercio dei prodotti non petroliferi, nell’energia e nel mercato ingegneristico nel vicino Iraq. Una simile mossa era facilmente immaginabile: grazie agli oltre 1.600 chilometri di frontiera comune scarsamente controllata, intere città da ricostruire e in piena crisi energetica, un’economia tutt’altro che dinamica e la significativa influenza iraniana sul governo federale di Baghdad, l’Iraq risulta un mercato ideale per le esportazioni di Tehran.

Da oltre una decina di anni l’Iran sta inondando il mercato iracheno con prodotti economici di bassa qualità grazie soprattutto alla mancanza di controlli lungo il confine tra i due paesi, date le precarie condizioni delle forze di polizia irachene dopo il crollo del regime di Saddam e la lotta contro Daesh (gli stessi passaggi tutt’ora rappresentano un facile corridoio per il transito di mezzi e personale diretto in Siria). Il commercio transfrontaliero e quello di contrabbando, quindi, abbondano da tempo e le sanzioni imposte dall’amministrazione Trump a Tehran sicuramente esacerberanno ulteriormente il problema.

Un altro campo per l’attività estera è la questione irrisolta dell’acqua. Sia il cambiamento climatico che le dighe costruite dalla Turchia alle sorgenti dell’Eufrate e del Tigri, le principali fonti idriche dell’Iraq, hanno forzato il Paese a divenire sempre più dipendente dalle importazioni di prodotti alimentari e agricoli dai propri vicini. La crisi idrica, che ha recentemente colpito soprattutto le regioni meridionali irachene, ha quindi garantito all’Iran un’ulteriore opportunità per aumentare i propri scambi con l’Iraq (le esportazioni iraniane di prodotti e generi alimentari in Iraq raggiungono cifre dell’ordine di 1.7 miliardi di $ annui).[12] A causa del peggioramento dalla crisi idrica e all’incapacità dei produttori locali di competere, si prevede che questa dipendenza possa soltanto aumentare, dando così ad Ankara e Tehran maggiore peso per incrementare le proprie quote di mercato. Tutto ciò avviene nonostante anche l’Iran stesso soffra di problemi idrici: non è chiaro, quindi, fino a che punto uno Stato afflitto da scarsità d’acqua possa ancora garantire gli attuali livelli di export di prodotti agricoli e alimentari all’Iraq.[13]

Gli altri due attori che contendono all’Iran un posto nel mercato iracheno sono la Turchia e l’Arabia Saudita. Di recente Ankara ha rafforzato i propri legami commerciali con il vicino, sebbene il suo commercio con l’Iraq sia fortemente influenzato dalla cooperazione con i curdi iracheni, dato che buona parte degli scambi avviene attraverso i varchi al confine con la regione curda. Considerato l’alone di incertezza che ha avvolto queste aree dopo gli esiti del referendum del settembre 2017, Ankara e Baghdad si sono di recente accordati per l’apertura di un nuovo varco ad Ovakoy, nella speranza di bypassare così il Kurdistan e incrementare l’importazione di prodotti turchi, notoriamente di qualità superiore rispetto a quelli iraniani.[14] Un altro competitor all’allargamento economico iraniano in Iraq è l’Arabia Saudita: Riyadh si è infatti offerta di fornire all’Iraq una quantità di energia elettrica tripla rispetto a quella che ottiene dall’Iran e ad un prezzo decisamente più competitivo. Con questa azione la monarchia saudita spera di ridurre notevolmente la leva economica di Tehran su Baghdad.[15]

Il principale ostacolo alle ambizioni persiane in Iraq, tuttavia, è da ricercarsi nella crescente opposizione del popolo iracheno alle ingerenze iraniane. Diversi cittadini iracheni, infatti, percepiscono la loro identità nazionale come violata dall’evidente influenza che Tehran esercita sul loro Paese. Questo atteggiamento travalica le differenze settarie ed è condiviso anche da molti all’interno della comunità sciita irachena (basti pensare al bacino elettorale di al-Sadr, costituito in massima parte da iracheni sciiti del sud, i quali hanno immediatamente celebrato la sua vittoria con slogan come “L’Iran fuori! Baghdad libera!”[16]), legandosi inoltre al forte sentimento di competizione che il clero sciita iracheno nutre nei confronti di quello iraniano.

 

La formazione del nuovo governo al-Mahdi

Dopo la lunga impasse estiva, protrattasi sino a fine settembre, in meno di un mese la Corte federale ha confermato l’esito del voto di maggio, si sono tenute le elezioni regionali in Kurdistan, è stato eletto un Presidente della Repubblica e nominato un Primo Ministro. Il 2 ottobre, il Parlamento iracheno ha designato il politico curdo Barham Salih Presidente della Repubblica. Due ore dopo, il nuovo Presidente dell’Iraq ha incaricato Adil ‘abdul-Mahdi di formare un governo.

Apprezzato sia da Washington che da Tehran, dalla personalità sofisticata e di vasta esperienza, Salih è generalmente visto come una figura unificante e incline a promuovere il dialogo. Egli è sicuramente conscio delle complessità e delle lacune del suo Paese, degli interessi dei suoi vicini e sa come trattare la comunità internazionale così da assicurarne il sostegno all’Iraq. L’ascesa al potere di Mahdi, invece, rappresenta il primo episodio, fin dalla caduta di Saddam, in cui il Paese non sia governato da un esponente del partito islamista Da’wa. In origine membro del Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (SCIRI), sotto il quale ha ricoperto i ruoli di vice presidente, ministro delle finanze e ministro del petrolio, nel 2017 ha lasciato il gruppo per diventare indipendente. La sua nomina sembra aver messo fine alle aspre diatribe sorte tra i vari partiti politici iracheni, avendo ricevuto il supporto sia della coalizione Sairoon di al-Sadr che dell’Alleanza Fatah di al-Ameri, tanto da venir caldamente accolto dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale.

Le nomine in tandem del nuovo Presidente e del Primo Ministro costituiscono sicuramente un risvolto positivo, destinato a diventare uno di quegli eventi promettenti che l’Iraq attendeva da tanti anni. Nonostante le buone premesse, però, le sfide a cui la nuova leadership irachena dovrà far fronte sono scoraggianti. Innanzitutto, il ruolo di Salih sarà sicuramente meno incisivo di quello di Mahdi, dal momento in cui in Iraq il ruolo di primo ministro è sicuramente il più rilevante, mentre quello della presidenza è fortemente limitato dalla nuova costituzione e più che altro cerimoniale. Allo stesso tempo, lo status di indipendente di Mahdi comporterebbe diversi svantaggi, in quanto priva il nuovo primo ministro di una base in Parlamento e lo espone così alle varie pressioni dei partiti.

Garantire una governance dignitosa al popolo iracheno sarà indispensabile per impedire che l’enorme sacrificio fatto nella lotta contro il gruppo Stato Islamico sia vano. La lunga lista di ciò che deve essere fatto ha sicuramente due priorità. La prima è quella di ripristinare i servizi di base alla popolazione, in particolare nelle aree liberate da Daesh e nell’Iraq meridionale. La seconda è la lotta alla corruzione, insieme alla razionalizzazione delle procedure burocratiche per attirare gli investimenti, rilanciare l’economia e la ricostruzione post-bellica. Queste sono le conditiones si ne qua non che i nuovi leader iracheni dovranno immediatamente affrontare per ristabilire un livello di vita accettabile nel Paese.


[1] https://www.aljazeera.com/news/2018/09/iraq-post-isil-anger-governments-unfair-compensation-180914111100772.html

[2] https://www.reuters.com/article/us-mideast-crisis-iraq-reconstruction/iraq-saysreconstruction-after-war-on-islamic-state-to-cost-88-billion-idUSKBN1FW0JB

[3] https://reliefweb.int/report/iraq/number-returns-exceeds-number-displaced-iraqis-un-migrationagency

[4]rudaw.net/english/middleeast/iraq/2018.

[5]ayatollah-sistani-makes-statement-on.html.

[6]Y. Kouti, D. Ala’Aldeen, Confessionalism and Electorale Porspects in Iraq, Middle East Research Institute, April 2018, pp. 4-5 http://www.meri-k.org/publication/confessionalism-and-electoral-prospects-in-iraq/.

[7]iraq-government-address-public-anger

[8]the-world-s-fourth-biggest-oil-producer-can-t-keep-the-lights-on

[9] sanctions-iran-harm-iraq-economy

[10] Raad Alkadiri, “Sistani Enters the Fray: Reforms or Else,” London School of Economics, July 2018, http://blogs.lse.ac.uk/mec/2018/08/01/sistani-enters-the-fray-reform-or-else/

[11] Giovanni Parigi, “Quanto è iraniano l’Iraq?,” in Attacco all’Impero persiano, Limes: Rivista italiana di geopolitica, Luglio 2018, pp. 145-52.

[12] rans-non-oil-trade-with-iraq-tops-17-billion

[13] urgent-measures-to-help-resolve-khuzestan-water-crisis

[14] analysis-2018

[15] sanctions-iran-harm-iraq-economy

[16] carnegie-mec.org/diwan


Crediti immagine: [CC0 Creative Commons], attraverso pixabay.com

Scritto da
Francesco Salesio Schiavi

Specialista nelle relazioni internazionali del MENA, con expertise sulla politica interna e internazionale dell’Iraq. Dal 2019 collabora come ricercatore presso il Centro Medio Oriente e Nord Africa dell’ISPI ed è membro del gruppo scientifico dei “Rome MED-Mediterranean Dialogues”, e dal 2023 è membro dello Steering Committee per l’EuroMeSCo Conference dell’European Institute of the Mediterranean (IEMed). I suoi interessi di ricerca includono la sicurezza in Medio Oriente, la difesa e la cooperazione nella regione del MENA, il ruolo degli attori non statuali e le missioni di sicurezza multinazionali attive nella regione. Ha co-curato il libro “Il trono di sabbia. Stato, nazioni e potere in Medio Oriente” (Rosenberg & Sellier 2019).

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