Recensione a: Leonardo Bellodi, Gas e potere. Geopolitica dell’energia dalla Guerra fredda a oggi, Prefazione di Lucio Caracciolo, Luiss University Press, Roma 2022, pp. 112, 14 euro (scheda libro)
Scritto da Luca Picotti
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In un saggio di poco più di cento pagine, Gas e potere. Geopolitica dell’energia dalla Guerra fredda a oggi (Luiss University Press, prefazione di Lucio Caracciolo), scritto e pubblicato tempestivamente per dare voce all’attualità della crisi energetica, Leonardo Bellodi, adjunct professor alla Luiss Business School, riesce a restituire il tema dell’energia alla sua più complessa dimensione geopolitica. Dietro alla grande sfida di questo secolo, quella climatica, vi sono infatti le impellenze del breve periodo, tra necessità di approvvigionare imprese e famiglie e spirali inflative, nonché le implicazioni geopolitiche sottese all’intreccio tra Paesi esportatori e importatori, territori ricchi di materie prime e territori privi, collegamenti infrastrutturali, alleanze politiche, guerre. Oggi come ieri, nessuna prospettiva meramente economicistica, o esclusivamente focalizzata sul tema ambientale, potrà mai cogliere cosa si muove nel grande gioco dell’energia. La partita, come questo volume ci ricorda, ha una profondità strategica ben maggiore.
Bellodi si concentra innanzitutto sul trinomio Russia, Europa e Stati Uniti, partendo dalla cornice della Guerra fredda. Lo schema, inquietantemente affine a quello attuale, vede un’Europa priva di materie prime ma bisognosa di energia per alimentare il proprio boom economico, una Russia ricca di materie prime e interessata ai prodotti tecnologici dell’industria europea, e dei distanti (ma solo geograficamente) Stati Uniti preoccupati dal possibile intreccio energetico-industriale euroasiatico. Tale complementarità economica, mal vista da Washington, tra Mosca e le capitali europee rappresenterà il fulcro della geopolitica dell’energia nel Vecchio Continente per almeno mezzo secolo, in particolare dagli anni Settanta – diretta conseguenza dei due shock petroliferi del 1973 e del 1979, che avevano minato la fiducia sull’affidabilità degli esportatori mediorientali, spingendo gli europei verso la vicina Russia – sino ai giorni nostri.
Un primo accordo pioneristico in tale senso, ricorda l’autore, fu siglato proprio dall’ENI di Enrico Mattei, il 4 dicembre 1959: 800.000 tonnellate di petrolio russo in cambio di 50.000 tonnellate di gomma sintetica, diversa componentistica e 240.000 tonnellate di tubi di acciaio. Ai tempi era ancora il petrolio la fonte dominante, mentre il gas naturale aveva un mercato solo negli Stati Uniti. Dopodiché, alcune scoperte – come i giacimenti di Groningen o quelli nel Mare del Nord – e, per quanto riguarda la Russia, l’inserimento da parte di Krusciov del gas nel Sesto piano quinquennale, cominciarono a rendere tale fonte sempre più attrattiva. Quando poi, nel 1966, venne scoperto l’immenso giacimento di Urengoy nel Nordovest della Siberia, tutt’ora il secondo al mondo dopo quello di South Pars condiviso da Iran e Qatar, la riproposizione del fortunato schema apparentemente win-win “tecnologia europea in cambio di materie prime russe” si fece sempre più attuale. Anche qui, l’ENI fu protagonista: nel 1968 firmò un contratto che prevedeva una fornitura da parte dell’URSS di 6 miliardi di metri cubi di gas all’anno per vent’anni a partire dal 1974, a fronte di un prestito a Mosca di 200 milioni di dollari per l’acquisto di apparecchiature e attrezzature necessarie per la costruzione del gasdotto. Accordo facilitato anche dalla congiuntura storica, segnata dall’avvento di Nixon alla Casa Bianca e da una normalizzazione nei rapporti tra le due superpotenze in linea con la strategia di Kissinger, all’epoca Consigliere per la sicurezza nazionale.
Gli anni Ottanta saranno invece quelli più tesi sul fronte energetico. Bellodi dedica a questa parentesi notevole spazio, avvalendosi di numerose fonti inedite, tra cui documenti della CIA di recente desecretati. Sono pagine illuminanti, che a tratti sembrano scritte con riferimento al presente. Come già accennato, con il secondo shock petrolifero del 1979 l’Europa inizia a guardare sempre più verso la Russia per soddisfare la propria domanda di energia. Al contempo, alla Casa Bianca arriva Reagan, che imprimerà un’accelerazione nella competizione contro una Russia considerata come “Impero del male”. Di conseguenza, il dossier energia relativo all’integrazione euroasiatica sarà all’ordine del giorno tra gli apparati di intelligence statunitensi. In particolare, le preoccupazioni degli americani erano rivolte al grande progetto infrastrutturale di 4.800 chilometri, promosso dalla Germania, per collegare il giacimento di Urengoy con i Paesi europei: accordo che prevedeva, secondo il classico schema, linee di credito e forniture di materiali dalle capitali occidentali per la costruzione della rete di gasdotti in cambio dell’energia russa e a cui parteciparono diversi colossi industriali europei, tra cui le tedesche Mannesmann e AEG, la britannica John Brown, la francese Thomson-CSF e l’italiana Nuova Pignone. Un intreccio euroasiatico che non poteva non allarmare Washington. Tant’è che l’8 luglio 1981 la CIA inviò alla Casa Bianca un documento secretato sul progetto Siberian pipeline, «nel quale veniva suggerito di tentare di dissuadere gli europei dal proseguire con la costruzione del gasdotto. In alternativa, l’intelligence americana suggeriva perlomeno di rallentarne l’esecuzione, usando come pretesto la necessità di completare uno studio sulla sicurezza energetica mondiale alla luce dei cambiamenti economici e geopolitici» (p. 19). Tra le preoccupazioni, vi era anche la possibilità che tale scambio di tecnologie, tra cui alcune potenzialmente dual use – ossia con utilizzo sia in ambito civile che militare –, agevolasse la crescita dell’apparato militare sovietico. Inoltre, non mancavano le inquietudini circa un eventuale avvicinamento, in particolare, tra la Germania e la Russia, per cui l’industria, le tecnologie e l’efficienza della prima, unite alla forza militare e alle risorse naturali della seconda, avrebbero reso il gigante eurasiatico una minaccia per l’egemonia statunitense. Bellodi riporta le discussioni trascritte e desecretate dell’incontro del National Security Council del 9 luglio 1981, esemplificative dell’approccio americano alla questione energetica europea, ma anche delle divisioni tra gli stessi apparati militari e di intelligence statunitensi: dalla posizione dura del Segretario alla Difesa Caspar Weinberger, sostenuto dalla CIA, che voleva “uccidere” il progetto, al più tiepido approccio del Segretario di Stato Alexander Haig, che riteneva controproducente interferire in maniera così radicale in un progetto in cui i Paesi alleati, e primi fra tutti i tedeschi, si erano così spesi; non mancavano poi le proposte di ipotetiche soluzioni alternative a livello economico, come quella di sostituire il gas russo con greggio dall’Alaska a prezzo calmierato, per quanto poco realistiche. Interessantissime anche le conclusioni di un altro memorandum della CIA del 27 ottobre 1981, avente ad oggetto le posizioni degli alleati. In questo senso, «il più facile da convincere sembrava il Regno Unito, grazie alla vicinanza politica con gli USA e all’autosufficienza energetica […] La Germania rappresentava l’osso più duro […] Per quanto riguarda la Francia, la CIA si dichiarava piacevolmente sorpresa dalla posizione del socialista François Mitterrand, contrario al progetto del gasdotto in quanto capace di coglierne le implicazioni strategiche molto più di Bonn, Roma e anche di Londra. Per questo Mitterrand decise in primis di ridurre il quantitativo di gas importato dall’URSS, aumentare gli stoccaggi per garantire maggiore flessibilità e infine scoraggiare l’utilizzo del gas per i consumi del settore civile. Ma in ogni caso, l’Eliseo non era pronto ad aderire alle richieste di Washington anche in considerazione del fatto che la Francia aveva sempre cercato di perseguire una politica estera (ed energetica) autonoma rispetto alle richieste transatlantiche. L’Italia venne invece descritta come più malleabile e facile da convincere. Tuttavia, la sua posizione aveva poca influenza sull’asse francotedesco» (p. 22). Uno spaccato che sembra, per certi versi, replicarsi di pari passo oggi, nonché un esempio delle dinamiche geopolitiche sottese alle forniture energetiche, tra complementarità euroasiatica e preoccupazioni della potenza statunitense, pronta all’evenienza ad interferire nella politica dei propri alleati per perseguire i propri interessi strategici. In ogni caso, nonostante la decisione finale di Reagan di sanzionare le imprese coinvolte nel progetto – celebri le amare parole che Margaret Thatcher gli rivolse: «Ron, quello che hai fatto è totalmente inaccettabile tra amici. Io penso alle mie società. Tu alle tue» – e una misteriosa esplosione nell’estate del 1982 che squarciò parte dell’infrastruttura, il gasdotto fu terminato e inaugurato nel 1984, unendo i destini di Russia ed Europa fino ad oggi. Washington eliminò in seguito le – ormai inutili – sanzioni: «l’ostruzionismo americano, dunque, era riuscito solo a rallentare, ma non a bloccare, la realizzazione del progetto» (p. 25).
L’attualità delle dinamiche geopolitiche appena tratteggiate è disarmante. Oggi come ieri, Europa e Russia sono ancora unite dalla leva dell’energia. In merito, Bellodi pone l’attenzione su un particolare piuttosto interessante: la tesi di dottorato di Putin. Un elaborato, scrive l’autore, non di qualità e forse in parte pure frutto di plagio, ma su un tema che sarà poi centrale nelle sue scelte politiche, ossia quello della pianificazione strategica delle risorse naturali. Una volta al potere Putin deciderà, infatti, di basare la grandezza della nuova Russia sul combinato disposto di risorse naturali e forza militare. La via della modernizzazione occidentale viene rigettata; l’obiettivo è quello di sfruttare le risorse per estendere la propria influenza sugli altri Paesi, a partire dagli ex satelliti. Per fare questo, gli asset energetici devono, nell’ottica di Putin, essere nazionalizzati o comunque ricondotti nell’orbita statale, in quanto troppo strategici e funzionali alla proiezione geopolitica del Paese per essere lasciati al mercato. Da qui, la stagione di nazionalizzazioni e scontri con gli oligarchi, ripercorsa accuratamente da Bellodi con un focus particolare sulla realtà del gigante Gazprom, attraverso cui Putin cementificò il proprio potere e pose le basi per ricollocare, quantomeno nelle intenzioni, la Russia nel novero delle grandi potenze. L’energia, in questo mosaico, sarà, per l’appunto, un tassello fondamentale; una leva per ritorsioni, ricatti e minacce, specie nei confronti dei Paesi dell’ex orbita sovietica: Ucraina, Georgia, Lettonia, Estonia, Lituania e via dicendo. Negli ultimi vent’anni la Russia ha usato la chiusura dei rubinetti del gas come arma geopolitica. Ad esempio, le numerose controversie occorse tra Kiev e Mosca prima della guerra circa le forniture di gas hanno avuto effetti decisamente destabilizzanti anche per l’Europa occidentale, essendo l’Ucraina uno snodo fondamentale della fornitura di gas russo. Il North Stream, in grado di collegare la Russia alla Germania senza passare per l’Ucraina, è stato costruito anche e soprattutto per evitare la dipendenza da tale snodo, sempre più instabile. Prima dello scoppio della guerra ucraina, l’obiettivo europeo di diversificazione ha registrato risultati solo sul lato delle rotte, ma non su quello dei fornitori: «alla vigilia della guerra nell’inverno del 2021-2022, quando i prezzi del gas toccano quote record, solo il 22% del gas russo passa dall’Ucraina, rispetto all’80% del 2009. Tuttavia, la quota di gas consumata dall’Unione europea che proviene dalla Russia è passata dal 26% nel 2010 al 35% nel 2020, fino al 42% nel 2021» (p. 55). Una realtà che ha influito e sta influendo notevolmente sugli equilibri dello scontro indiretto tra NATO, a sostegno dell’Ucraina, e Mosca.
Bellodi ripercorre poi le diverse mappe del gas, dal Mediterraneo al Mare del Nord, passando per le future sfide della sicurezza energetica, tra inflazione e obiettivi green. Un panorama che vede, come sempre verrebbe da dire, l’Europa in una posizione di estrema debolezza. Priva di materie prime e colpita dal rialzo dei prezzi, è allo stesso tempo la realtà più attiva nella lotta al climate change; un percorso ambizioso che passa non solo per il ruolo rilevante della Cina nella filiera delle rinnovabili, ma anche per la discrasia tra la diminuzione degli investimenti in esplorazione ed estrazione di fonti fossili e un ancora insufficiente sviluppo parallelo delle fonti pulite a colmare tale diminuzione. Gli Stati Uniti, quantomeno, con la rivoluzione dello shale oil&gas hanno raggiunto l’autosufficienza energetica; inoltre, sono distanti migliaia di chilometri dai focolai di guerra in Europa orientale. La diversificazione rimane, in ogni caso, l’obiettivo principale, per l’Italia così come più in generale per l’Europa. Il gas naturale liquefatto, di provenienza statunitense o qatariota, si è notevolmente sviluppato negli ultimi anni e potrebbe aiutare nell’obiettivo di alleggerire la dipendenza da Mosca, ma presenta ancora prezzi troppo alti, limitate capacità di esportazione rispetto al fabbisogno, nonché scarsità di infrastrutture ricettive sul lato dell’import (rigassificatori). Vi è poi la sempre maggiore rilevanza strategica dei giacimenti del Mediterraneo e in generale dei Paesi del Nord Africa, a partire dall’Egitto. In merito, bisognerà porre attenzione al ruolo della Turchia, che se riuscisse a ritagliarsi il ruolo di hub energetico – in qualità di centro nevralgico di passaggio di gasdotti – potrebbe disporre di un ulteriore ricatto, oltre a quello dei migranti, nei confronti dell’Unione Europea. Vi è poi il tema dell’energia nucleare, su cui però il Vecchio Continente si divide tra Paesi come la Francia che sin da subito hanno deciso di investire su di essa e Paesi come l’Italia che vi hanno rinunciato – e per cui forse potrebbe essere troppo tardi per adottarla. Le rinnovabili poi andranno sicuramente potenziate, per quanto non manchino implicazioni geopolitiche, a partire dal vantaggio strategico di Pechino nella relativa filiera.
L’unica cosa certa, scrive Bellodi, è che il gas – e così la sua geopolitica – rimarrà centrale, a cavallo tra le sfide geo-strategiche e quelle climatiche, per ancora molto tempo, non essendo possibile immaginare un mix energetico di sole fonti pulite né nel breve né nel medio periodo. Probabilmente, vi sarà uno spostamento del baricentro energetico da Est a Ovest (GNL statunitense) e Sud (Paesi africani, a partire dall’Algeria). Per il resto, la partita è tutta da giocare. Un intreccio tra geopolitica, economia e obiettivi green che sovente rischia di incepparsi, tra esigenze dell’immediato e grandi ambizioni di lungo termine, ma che rappresenta il terreno di gioco su cui bisogna imparare a muoversi. Un monito, quello di Leonardo Bellodi, anche per il nostro Paese, privo di materie prime e quindi costretto a scegliere con intelligenza, dopo decenni di miopia, quali strategie adottare.