Scritto da Andrea Raffaele Aquino
7 minuti di lettura
Il concetto di Occidente, che viene spesso evocato nel dibattito pubblico, anche in relazione all’idea di libertà, ha una genealogia complessa e stratificata, nella quale è centrale il confronto con le immagini di un Oriente oggetto di proiezione ed esclusione. Sulle caratteristiche e i limiti di questo concetto si sofferma in questa intervista – anche a partire dal libro Genealogie dell’Occidente edito da Bollati Boringhieri – Daniela Falcioni, Professoressa associata di Etica sociale all’Università della Calabria.
Si può partire da una ricerca di alcuni anni fa condotta da lei insieme a Franco Cardini, Giacomo Marramao, Georges Corm, Alastair Bonnett e Paolo Branca e sfociata nella pubblicazione di un volume collettaneo, Genealogie dell’Occidente edito da Bollati Boringhieri. Da dove nasce il suo interesse di ricerca per una riflessione critica sul concetto di Occidente? Quali considerazioni si possono svolgere per inquadrare questa riflessione?
Daniela Falcioni: Questa intervista ha luogo proprio l’8 febbraio 2023, giorno in cui il Corriere della Sera pubblica un’analisi di Biagio De Giovanni sulla guerra russo-ucraina. Secondo il filosofo, l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin sarebbe l’ultimo atto di un potere che ritrova sé stesso come antica civiltà: la “grande e Santa Russia”. Con Ernst Jünger, questo potere viene definito “potere orientale” che non si limita alla Russia, ma estenderebbe i suoi confini a tutta l’Asia: un continente che viene definito, in blocco, privo di libertà e percorso da una tensione congenita al dispotismo. Questo “potere orientale” – prosegue il filosofo – chiamerebbe l’Occidente alla resistenza, una mobilitazione motivata non solo da una guerra ai confini dell’Europa, ma anche da una difesa dell’Europa e dell’Occidente come “civiltà della libertà”. Torna così a riproporsi un’immagine di cultura e di aree storico-culturali essenzialiste, immagine che si annoda attorno all’equazione: tradizione-territorio-identità e, da non dimenticare, religione (confessione). Anche quest’articolo di Biagio De Giovanni documenta come l’Occidente da innocua espressione geografica sia diventato un termine di uso corrente che porta con sé significati diversi e, a volte, contrapposti. Ma come è stato possibile che l’Occidente e le sue rappresentazioni siano diventati un vero e proprio terreno di scontro concernente l’identità, la storia, le istituzioni di occidentali e non occidentali? Con il libro Genealogie dell’Occidente abbiamo tentato di rispondere a queste domande attraverso un registro interdisciplinare, cercando anche di offrire una sorta di pulizia concettuale.
Cosa significa fare la genealogia del concetto di Occidente? Com’è stata elaborata questa categoria e quali sono i suoi limiti principali? Rimanda a un passato antico, affonda le radici nella modernità, risulta quotidianamente costruito o può essere giudicata un’invenzione?
Daniela Falcioni: Quando parliamo di Occidente usiamo una parola antica per esprimere significati relativamente nuovi e legati alla modernità, anzi alla contemporaneità. L’Occidente ha avuto molteplici luoghi di creazione e non tutti sono stati occidentali. La prima elaborazione dell’idea di Occidente come unità culturale e politica si ha solo alla fine dell’Ottocento con il sociologo britannico Benjamin Kidd. Esistono certo usi precedenti (Hegel e altri), ma questi usi non identificano ancora nell’idea di Occidente una delle categorie geopolitiche più importanti dell’Europa occidentale. Nell’imponente orchestrazione della storia ideata da Oswald Spengler nel Tramonto dell’Occidente, le civiltà prendono il posto delle nazioni e diventano le individualità storiche decisive. Portare l’attenzione su queste nuove entità storiche significa focalizzare la ricerca sulla civiltà occidentale che, nel quadro teorico spengleriano, sarebbe l’unica ancora vivente. L’enorme successo di quest’opera mette le ali all’idea di Occidente: con il Tramonto, il termine Occidente entra nel discorso pubblico degli europei e non solo. A partire dalla Dottrina Monroe, l’Occidente tende sempre più a identificarsi con il nuovo mondo, gli Stati Uniti d’America, che pretendono di incorporare e portare a compimento la modernità europea. Nonostante questo, il vecchio equilibrio mondiale incentrato sull’Europa resiste fino alla Grande guerra. Questo disegno politico trova un riscontro significativo nel progetto formativo incentrato sulla Western Civilization: nel 1919 la Columbia University attiva un corso di storia con l’etichetta Western Civilization. Questo progetto culturale si trasformò in un programma di formazione di base che sarà adottato da quasi tutte le università americane per mezzo secolo.
La peculiarità di un concetto storiografico come quello occidentale è la sua non autosufficienza. In che misura la contrapposizione a un Oriente “altro” è costitutiva del concetto stesso di Occidente? È possibile, secondo lei, pensare di superare questo schema dualistico?
Daniela Falcioni: La nascita stessa dell’idea di Occidente si radica nel bisogno di elaborare la propria identità per differentiam: l’Oriente diventerebbe così quell’area storico-culturale che, diversamente dall’Occidente, non ha avuto l’Umanesimo e il Rinascimento, non ha avuto la Riforma protestante e neppure le Rivoluzioni americana e francese e, soprattutto, non ha avuto le Rivoluzioni industriali. Più precisamente, esiste una pluralità di immagini che l’Occidente ha costruito dell’Oriente, un Oriente che l’Occidente domina e sogna, disprezza e mitizza. Tali rappresentazioni dell’Oriente hanno però un tratto in comune: costituiscono il tentativo degli occidentali di comprendere e interpretare sé stessi. Sono passati molti secoli da quando l’Europa era parte integrante del grande continente euroasiatico, un continente legato da un’intensa circolazione di idee e merci. In effetti, la “nascita” moderna dell’Occidente implica anche un riorientamento spaziale dovuto all’egemonia britannica sui mari. Anche se la stampa di questi giorni ripropone analisi che proiettano sulla guerra russo-ucraina uno scontro tra “potere orientale” e “civiltà occidentale”, credo che non si debba continuare a proporre programmi di ricerca in termini di “locale” e neppure in termini di “blocchi”. Esistono reti complesse che fanno sì che eventi ed esperienze particolari abbiano, o possano avere, una risonanza su tutto il pianeta. Il presente è caratterizzato da storie locali, storie che non possono prescindere dallo scenario globale in cui si collocano. Quelle storie con le loro differenze sono coesistenti, coevolventi con tante altre storie, con le quali stabiliscono, o possono stabilire, un flusso negoziale. Per questa ragione, preferisco il concetto di Contemporaneità a quello di Occidente, un concetto, quest’ultimo, che evoca un’immagine binaria dell’umanità e della storia, un’immagine prêt-à-porter scarsamente capace di interpretare gli antichi conflitti, ma in grado di alimentarne di nuovi con le forme di contrapposizione radicale che porta con sé.
Il concetto di Occidente si presenta assolutamente poligenetico. In che modo i non occidentali hanno “generato” e concepito l’Occidente? Può accennare ad alcuni dei contributi principali forniti in tal senso alla genesi della categoria?
Daniela Falcioni: Rispetto ai due orientamenti più consolidati all’interno dei discorsi che riguardano l’Occidente, l’idea di missione civilizzatrice e la critica anticolonialista, il libro Genealogia dell’Occidente documenta una sensibilità diversa all’interno degli studi sull’Occidente, dà voce a «una nuova narrazione plurale», come ha scritto Marcello Flores in una recensione pubblicata sul Corriere della Sera. In effetti, l’idea di Occidente ha più nascite, ha più luoghi di creazione, non tutti occidentali. Esistono rappresentazioni dell’Occidente nate al di fuori dell’Occidente. Sia nell’Estremo Oriente che in Medio Oriente, circolavano da tempo numerose idee di Occidente. Una di queste idee viene dal Giappone ed è elaborata da un politologo giapponese molto noto nella seconda metà dell’Ottocento: Fukuzawa Yukichi. In lui, la spinta fondamentale al rinnovamento derivava da una lucida analisi delle politiche espansionistiche di alcune potenze occidentali verso Oriente: se il Giappone non si fosse rinnovato avrebbe perso la sua indipendenza. Per salvarsi, il Giappone doveva guardare ad Occidente, doveva realizzare una sorta di rivoluzione sociale che mettesse al primo posto intelligenza, merito, competizione, imprenditoria capitalistica, ma non lo Stato liberale. Dunque, apertura alla modernità occidentale, ma apertura condizionata. Nel Giappone del periodo Meiji, la modernità poteva e doveva essere realizzata all’interno di quel determinato regime imperiale. Dunque, sì alla modernità sociale, economica, militare, ma non alla modernità istituzionale. Questo significa che la sua idea di Giappone moderno era il prodotto di una negoziazione tra un patrimonio storico e culturale locale – la propria cultura – nella sua interazione con gli scenari globali occidentali. Scenari sempre più onnipresenti, anche se non onnipotenti.
Uno degli strumenti attraverso cui l’Occidente si relaziona con l’Altro è la religione. In che misura, a suo giudizio, la lettura in chiave di contrapposizione identitaria specialmente con il mondo islamico, sempre più frequente dal 2001, rende conto della complessità di questo insieme di relazioni?
Daniela Falcioni: È indubbiamente così, se si pensa che la campagna orientale di Napoleone, iniziata nel 1798, arrivò in Egitto con le idee rivoluzionarie di libertà, uguaglianza e fraternità, principi che vennero però coniugati con la ricerca del “vero Islam”, nella speranza di rendere accettabile l’operazione militare. I ricercatori comunque c’erano: geografi, etnologi e archeologi, che accompagnarono la rapina dei territori d’oltremare. In realtà, era solo l’inizio di una politica espansionistica che mobilitò alcune delle più importanti potenze europee. Tra Europa e Islam iniziava così la fase contemporanea di quella che Franco Cardini ha chiamato «Storia di un malinteso». Ma colonialismo e imperialismo generarono, come reazione, il nazionalismo di gruppi e movimenti all’interno dei Paesi conquistati. Costrette dalla dominazione delle potenze occidentali ad abbandonare la loro geografia tradizionale, le società islamiche subirono – secondo alcuni intellettuali – uno shock tale da sviluppare vere e proprie patologie. Non possiamo qui analizzare le voci più radicali che individuarono nell’Occidente la causa di tutti i mali dei Paesi a maggioranza musulmana. Inoltre, il mancato sviluppo del progetto sociale e politico degli Stati che via via acquistarono l’indipendenza spinse verso un “ritorno” drastico alla matrice islamica, un ritorno alle origini in cui cercare salvezza e riscatto. A partire dagli anni Settanta, si assistette ad una proliferazione di movimenti radicali che si richiamavano all’Islam. Se si considera poi il profondo impatto che la rivoluzione iraniana ebbe in tutto il mondo musulmano, il ritorno in armi dell’Occidente con la Guerra del Golfo, tutti questi eventi approfondirono la dicotomia tra Islam e Occidente e radicalizzarono la volontà di riappropriazione della propria identità, ricercata, come abbiamo già detto, nell’esperienza dell’Islam originario. L’Occidente, con la sua presenza pervasiva è stato sentito come una sfida che toccava all’Islam raccogliere. Diversamente, altre voci del mondo musulmano hanno avvertito l’urgenza di “liberarsi” mentalmente dall’Occidente per evadere da quella che può essere considerata una sorta di ossessione che ha travagliato i Paesi musulmani nel Novecento. Un’urgenza che sembra rappresentare il vissuto dei protagonisti delle recenti rivolte in alcuni Paesi del Vicino e Medio Oriente: generazioni di giovani per i quali l’attrazione verso una società migliore sembra essere più forte rispetto al risentimento verso l’Occidente che ha segnato, almeno in parte, la storia dei loro padri. Nel processo di costruzione dell’Occidente, la religione/confessione è stata quindi uno dei fattori identitari fondamentali che hanno contribuito, in tempi e luoghi diversi, a tracciare i confini tra Occidentali e non Occidentali. All’occorrenza però questi confini potevano spostarsi per ridisegnare geografie interne allo stesso Occidente. È quanto avviene proprio negli anni che danno avvio al neoimperialismo inglese. Un intellettuale militante come Benjamin Kidd non si limitò ad individuare nel “sistema religioso” cristiano un elemento che considerava essenziale per l’evoluzione sociale, ma fece un’aggiunta significativa per la nostra indagine: all’interno del “sistema religioso” cristiano era attento a distinguere tra cristianità protestante e cristianità latina. L’adesione alla riforma protestante sarebbe stata all’origine, secondo il sociologo inglese, della genialità – anche politica – dei popoli anglosassoni.