“Geografie del rischio” a cura di Galderisi, di Venosa, Fera e Menoni
- 01 Novembre 2020

“Geografie del rischio” a cura di Galderisi, di Venosa, Fera e Menoni

Recensione a: (a cura di) Adriana Galderisi, Matteo di Venosa, Giuseppe Fera e Scira Menoni, Geografie del rischio. Nuovi paradigmi per il governo del territorio, Donzelli, Roma 2020, pp. 304, 30 euro (scheda libro)

Scritto da Riccardo Ottaviani

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Una delle principali peculiarità del territorio italiano è la sua disomogeneità, marcata al punto da poter farlo apparire come una somma di territori sconnessi fra loro. Ad accomunare le diverse “geografie” dal Nord al Sud del Paese vi è una diffusa fragilità ambientale, con la quale si è imparato a convivere nel tempo, ma che presenta sempre nuove sfide. Sono difatti numerosi gli elementi di rischio che sistematicamente si concretizzano in eventi calamitosi in grado di stravolgere e talvolta distruggere intere realtà territoriali. Dal rischio sismico – il pensiero corre all’Italia Centrale e all’Emilia, ma riguarda la Penisola nel suo complesso[1] – a quello idrogeologico: si tratta di criticità ben radicate nella storia del nostro territorio, eppure spesso trascurate nel processo di pianificazione, con conseguenze sociali ed economiche sempre più insostenibili. Se poi si aggiunge la tendenza all’aumento di eventi climatici estremi legati al riscaldamento globale, la necessità di elaborare strategie di riposta adeguate si fa quanto mai pressante.

Da queste premesse muove Geografie del rischio. Nuovi paradigmi per il governo del territorio, saggio edito da Donzelli, a cura di Adriana Galderisi, Matteo di Venosa, Giuseppe Fera e Scira Menoni. Un volume ricco di analisi, idee e casi pratici per comprendere il ruolo dell’urbanistica nella gestione del rischio e del territorio.

 

Governare il rischio

Pubblicato con il supporto della Società italiana degli urbanisti e in collaborazione con diversi atenei italiani, Geografie del rischio si compone di numerosi contributi firmati da studiosi afferenti all’architettura e all’ingegneria. Tra i paragrafi specialistici non mancano però riflessioni che travalicano il mondo dell’urbanistica per sfociare nel campo politico-sociale – lo stesso titolo del volume è un richiamo alla “società del rischio” di Ulrich Beck.

Sin dalla prefazione di Maurizio Tira, presidente della Società italiana degli urbanisti, si intuisce la richiesta di una maggiore collaborazione fra urbanistica e politica, nel tentativo di «ridefinire i confini tra proprietà privata, mercato e rischi, con gli effetti economici che questi determinano e la domanda di nuovi modelli perequativi». La necessità di un cambio di paradigma nella pianificazione, che ponga al centro il rischio come elemento imprescindibile per il buon governo del territorio, ricorre con frequenza lungo le pagine del saggio, a testimonianza di una vocazione alla prevenzione intesa come collaborazione fra tecnici, urbanisti, attori istituzionali e – non ultima – la cittadinanza.

È bene intendersi, in primo luogo, sul significato di rischio e su come approfondire le conoscenze in merito. I primi capitoli del libro si muovono in questa direzione. L’interpretazione del rischio come «esito delle interazioni fra processi naturali, compresi quelli climatici, e processi di evoluzione/trasformazione dei territori, indotti da dinamiche sociali, economiche e spaziali» rappresenta il punto di partenza, in quanto permette di superare l’idea della calamità naturale come tragedia inevitabile per soffermarsi invece sul «costrutto umano» del rischio[2]. Ad esempio, è la scarsa pianificazione o il mancato rispetto della legislazione urbanistica a causare ingenti danni in aree a rischio idrogeologico, come è spesso la scarsa attuazione di piani antisismici a portare morti e feriti in aree notoriamente a rischio sismico. Diventa perciò chiaro come agire attivamente per la riduzione del rischio non solo sia possibile, bensì necessario. Non a caso, come ricorda Adriana Galderisi, professore associato presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi della Campania, la riduzione del rischio è entrata da diversi anni a far parte degli obiettivi di sviluppo sostenibile a livello internazionale. La pressione dovuta all’aumento di eventi estremi ricollegabili al cambiamento climatico – il quale, con largo accordo della comunità scientifica, è esso stesso influenzato dall’attività umana – accresce la necessità di considerare i vari aspetti del rischio e le strategie di risposta, ponendo maggiore attenzione alla componente sociale del rischio[3].

I piani di azione su cui si soffermano le proposte articolate in Geografie del rischio sono diversi. Si propone in primis di insistere maggiormente sulla “cultura del rischio” fra i pianificatori, dai corsi di laurea sino all’ambiente amministrativo. Gli apparati conoscitivi del rischio, inoltre, necessitano di una maggiore implementazione per far sì che la mole di informazioni utili per la mitigazione non rimangano “statiche”, ma agevolino la comunicazione fra diversi attori. Quest’ultimo punto va rimarcato, in quanto è spesso la mancanza di una collaborazione fra i pianificatori e i diversi livelli amministrativi a rallentare la mitigazione del rischio. Il superamento della logica settoriale a vantaggio di un approccio olistico è uno degli elementi cui gli autori pongono più attenzione, anche attraverso gli interventi di alcuni amministratori locali, sensibili a questa necessità, come quelli dei comuni terremotati del Centro Italia, alle prese con le scelte e le difficoltà della ricostruzione.

Riflettere sul rischio significa anche considerare il paesaggio e i flussi che lo interessano, un’operazione necessaria in special modo per le aree urbane. La centralità oramai dominante della città come spazio di produzione e consumo, sempre più autonoma dalle aree interne, è un fenomeno di portata globale che non può essere ignorato. Negli ultimi cinquant’anni, la quota di popolazione mondiale nelle città è passata dal 28% ad oltre il 50% e le grandi città globali ad oggi sfruttano circa il 75% delle risorse complessive[4]. Ciò richiede un ripensamento radicale dello spazio urbano e delle relazioni che vi si sviluppano. Michelangelo Russo, professore ordinario di Urbanistica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, dedica quindi un capitolo al “metabolismo del rischio” nel contesto urbano, con riferimento ai rischi naturali e antropici che cambiamento climatico e urbanizzazione selvaggia comportano. Crescita scollegata dai limiti ecologici, aumento dei divari fra centro e periferia, “paesaggi di scarto” da rigenerare: sono queste le principali sfide dalle quali l’urbanistica contemporanea non può sottrarsi, contribuendo a mettere in pratica la tanto invocata “circolarità” del sistema per uno sviluppo urbano sostenibile.

 

La ricostruzione del Centro Italia

La seconda parte del volume è dedicata agli eventi sismici che hanno investito il Centro Italia negli ultimi anni, in particolare nel 2009 e nel 2016. I capitoli in questione presentano una trattazione approfondita di ciò che ha significato il sisma per le comunità, andando ad analizzare sia la fase emergenziale che il lungo processo di ricostruzione.
Eventi distruttivi come i terremoti mettono in luce la qualità o meno del processo di governance, coinvolgendo diversi livelli di governo del territorio e numerosi attori sia pubblici che privati. I problemi maggiori, in tal senso, si riscontrano durante la ricostruzione. Se infatti la fase di gestione dell’emergenza – affidata di norma alla Protezione civile – risulta in generale efficace, la ricostruzione va spesso incontro a una serie di ostacoli burocratici che in aree fragili come quelle del Centro Italia rischiano di compromettere il rilancio. Con circa il 40% dei comuni presenti nel cratere sismico popolati da meno di mille abitanti è fondamentale fornire un orizzonte temporale il più possibile chiaro per la ricostruzione al fine di fermare lo spopolamento, un fenomeno in atto già prima del terremoto e che rischia di diventare inarrestabile. Gli eventi sismici che hanno colpito Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria si intrecciano dunque con la questione delle aree interne[5], le quali soffrono una carenza di servizi che ne mina le fondamenta sociali, portando a un progressivo abbandono e al relativo disfacimento del territorio, sia nella sua cura ambientale che culturale. Una migliore gestione del rischio in queste aree fragili, prevalentemente montane, è una necessità non più eludibile e richiede conoscenze sempre maggiori, come gli autori rimarcano nelle pagine di Geografie del rischio.

Il sisma, superata la distruzione, può offrire l’occasione per ripensare aree in crisi, ma solo se si è in grado di ricostruire con una concezione diversa rispetto al passato. I contributi di questo volume aiutano a comprendere nel dettaglio come nel processo di ricostruzione si debba tenere presente numerosi aspetti, tra cui le conseguenze delle soluzioni emergenziali. Il rischio di avere una città parallela – o “due mezze città”, usando le parole di Matteo di Venosa, professore di Urbanistica presso l’Università di Pescara – dovuta a moduli d’emergenza che permangono per periodi superiori a dieci anni, divenendo di fatto parte integrande della morfologia urbana, è un chiaro esempio di come la pianificazione post-evento sia fondamentale sin dalle prime fasi di risposta alla calamità. La ricostruzione, infine, può essere occasione di sviluppo solamente se gli investimenti vengono trasformati in interventi modernizzatori. Nel libro si riporta il caso de L’Aquila, dove centinaia di milioni di euro sono stati investiti nel progetto smart city[6] in favore di mobilità sostenibile, rete elettrica intelligente e potenziamento della fibra ottica. Interventi di questo tipo non devono però limitarsi al capoluogo, in quanto i piccoli paesi colpiti dalla serie di eventi sismici degli ultimi anni possono essere rilanciati solo se supportati con soluzioni tecnologiche adeguate.

 

Superare la logica emergenziale

Tra le principali intenzioni di Geografie del rischio vi è la volontà di concorrere a costruire un nuovo approccio, basato su pianificazione e prevenzione, a discapito della logica emergenziale cui il nostro Paese tende. Per fare ciò occorre che diversi ambienti – da quello tecnico e ingegneristico a quello politico-amministrativo – si intreccino maggiormente. Un punto di incontro potrebbe essere una normativa il più possibile standardizzata sia per la mitigazione dei rischi ambientali che per la gestione dell’emergenza, una richiesta avanzata in particolare dagli amministratori locali. Si tratta di un compito arduo, soprattutto per via delle specificità dei territori italiani, ma ampi passi avanti possono essere fatti in questa direzione, cercando di metabolizzare le esperienze passate per rispondere al meglio alle sfide future.

La quarta parte del volume – la più tecnica – riporta una serie di modelli e casi studio utili per calare nella pratica l’approccio proposto dal volume. Gli spunti di ricerca offerti in questa sezione sono di particolare interesse, andando a coprire anche nuovi rischi quali l’erosione costiera, un fenomeno ancora scarsamente considerato nel nostro Paese ma che è destinato ad assumere sempre più rilievo per via del cambiamento climatico. Non mancano poi approfondimenti sui diversi modelli di ricostruzione post-sisma, da L’Aquila sino al caso di Ischia del 2017. Tra i numerosi temi sollevati risulta di particolare interesse la ricostruzione “identitaria” dei paesi terremotati. Una ricostruzione basata su demolizioni indiscriminate, in particolare nei centri storici, rischia di creare dei “non-luoghi non identitari”, citando l’antropologo Marc Augé, impossibili da rilanciare in quanto scollegati dalla dimensione culturale delle popolazioni locali. Ritorna quindi l’idea di una ricostruzione “storicamente consapevole” che vada ben oltre alla sola valutazione architettonica degli abitati. È un processo complesso, che richiede una capacità di analisi spesso difficile da trasporre nelle realtà, ma che deve trovare un riscontro pratico se si vuole evitare lo spopolamento di intere aree d’Italia.

Il superamento della logica emergenziale non può prescindere da una percezione del rischio più elaborata e comprensiva rispetto al passato. Questo processo, è bene ribadirlo, non passa solamente dal livello tecnico: il coinvolgimento della popolazione è fondamentale. L’approfondimento di Valeria Monno e Daniela Frisullo del Politecnico di Bari sulla percezione collettiva del rischio nella Terra dei fuochi, territorio comprendente circa 90 comuni tra Napoli e Caserta divenuto noto per lo smaltimento illecito di rifiuti e il relativo disastro ambientale, propone “ponti cooperativi” che colleghino gruppi di cittadini e mondo tecnico-scientifico organizzando piani di prevenzione del rischio che coinvolgano la popolazione locale. Ne scaturirebbe una valutazione del rischio più ampia ed efficace, favorendo interventi aderenti ai bisogni percepiti come più urgenti dagli abitanti stessi.

 

Prevenire e pianificare

Vi è una spinta internazionale alla prevenzione portata avanti dalle principali istituzioni internazionali. Il Sendai Framework for Disaster Risk Reduction 2015-2030 approvato dalle Nazioni Unite nel 2015 rappresenta il tentativo di definire una strategia comune per la mitigazione dei rischi e delle catastrofi naturali. Tra gli obiettivi di portata generale definiti con la Strategia di Sendai vi è un maggiore investimento globale in misure di prevenzione. L’Unione Europea finanzia progetti di ricerca nel campo dei rischi naturali attraverso i programmi quadro e Horizon 2020. Inoltre, attraverso l’EU Disaster Risk Management Knowledge Centre promuove una maggiore diffusione e integrazione delle pratiche di mitigazione del rischio[7]. L’Italia può inserirsi in questa spinta alla prevenzione insistendo maggiormente sulla formazione di specialisti in questo settore e modificando l’approccio che la vede restia nell’attuazione di piani per la mitigazione del rischio. Il beneficio di un cambio di paradigma nella pianificazione e nel governo del territorio, data la sua fragilità, sarebbe notevole. Geografie del rischio è pertanto un libro che pianificatori, amministratori e addetti di protezione civile dovrebbero leggere con attenzione, per far sì che gli investimenti in prevenzione superino finalmente quelli in ricostruzione.


[1] Per una panoramica delle zone sismiche d’Italia si rimanda al sito dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia.

[2] Per un approfondimento sul “costrutto umano” del rischio si rimanda a: I. Burton, The Social Construction of Natural Disasters. An Evolutionary Perspective, in United Nations, Know Risk, 2005, Tudor Rose, Ginevra, pp. 35-36.

[3] P. Peduzzi, The Disaster Risk, Global Change, and Sustainability Nexus. Sustainability, 2019, 11, 957.

[4] W. Tortorella, Politica di Coesione e questione urbana. Programmi e strumenti per il finanziamento delle città, 2015, Carocci, Roma, p.34.

[5] Per un approfondimento sulle problematiche delle aree interne si rimana a: A. Ambrosino, La prospettiva inversa. Intervista ad Antonio De Rossi, «Pandora Rivista», 2/2020.

[6] I dettagli del progetto sono disponibili al questo link.

[7] K. Albris, K. C. Lauta e E. Raju, Disaster Knowledge Gaps: Exploring the Interface Between Science and Policy for Disaster Risk Reduction in Europe. Int J Disaster Risk Sci 11, 1–12 (2020).

Scritto da
Riccardo Ottaviani

Nato a Cesena nel 1994. Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all’Università di Bologna, dove attualmente studia Sviluppo Locale e Globale. Si interessa politica europea e Nord Europa.

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