La geopolitica della tecnologia. Intervista ad Alessandro Aresu
- 14 Novembre 2019

La geopolitica della tecnologia. Intervista ad Alessandro Aresu

Scritto da Alberto Prina Cerai

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Dal 7 al 10 novembre si è svolto a Torino il Festival della Tecnologia “Tecnologia è umanità” organizzato dal Politecnico in occasione del 160esimo anniversario della sua fondazione. Un programma vastissimo, suddiviso in sei macro-percorsi ai quali sono stati associati approfondimenti specifici nei vari incontri e panel di discussione che si sono tenuti nei principali centri culturali torinesi e nella sede del Politecnico. Al centro del Festival le sfide della rivoluzione digitale e delle nuove frontiere tecnologiche, che stanno trasformando la nostra vita quotidiana, le nostre società e riconfigurando le relazioni internazionali. Come scrivono i curatori del Festival, Luca De Biase e Juan Carlos De Martin, nell’Introduzione al programma: «abbiamo bisogno di comprenderla col contributo di tutti in modo da rendere possibile, […] un confronto collettivo su quale tecnologia vogliamo, per quali fini, in quale forma e in quali tempi».

Abbiamo avuto il piacere di intervistare alcuni ospiti e relatori presenti al Festival. L’intervista ad Alessandro Aresu, consigliere scientifico di Limes ed esperto di affari internazionali, che qui proponiamo è stata svolta a margine dell’incontro intitolato “La geopolitica della tecnologia: Stati Uniti, Cina, Europa” realizzato in collaborazione con Limes – Rivista Italiana di geopolitica.


Partiamo dai concetti. Nel delineare la crescente competizione tra Stati Uniti e Cina per il dominio tecnologico si fa spesso riferimento a paradigmi storici: parlare di “nuova Guerra fredda”, “guerra digitale” o di un emergente rigido bipolarismo aiuterà ad inquadrare la politica internazionale nei prossimi decenni?

Alessandro Aresu: Il concetto di Guerra fredda, a mio avviso, non restituisce pienamente la dimensione della contesa tra gli Stati Uniti e la Cina proprio perché ci riporta ad un contesto meno maturo dal punto di vista tecnologico. Un mondo nel quale vi erano Stati o attori che avevano un ruolo diverso nel sistema economico internazionale dell’epoca, rispetto invece all’interdipendenza che domina il XXI secolo. Parlerei in ogni caso di “guerra”. Tuttavia, non si combatte nell’ambito militare diretto o tramite guerre per procura tra le superpotenze, ma presenta una dimensione di conflitto tecnologico che si avvale di strumenti differenti, comunque offensivi, come quelli giuridici. Per esempio, gli Stati Uniti hanno rinserrato il loro armamentario legislativo nel controllo degli investimenti oltre che il loro potentissimo apparato di sanzioni. Più in generale, è un conflitto che si combatte anche in termini di diplomazia e di alleanze: queste peculiarità sono confermate tanto dal comportamento del governo cinese quanto da quello americano. 

La contesa tra USA e Cina per la supremazia tecnologica rischia di spezzare il dogma neoliberista sul primato del mercato rispetto al ruolo dello Stato. Infatti, entrambi i paesi condividono, seppur con differenze strutturali, un modello di sviluppo tecnologico che si fonda sempre di più sul rafforzamento del binomio stato-imprese, con le seconde che a tratti diventano fucine di tecnologia civile spesso implementata nel settore militare. Di conseguenza, la competizione per i Big Data, le “terre rare” e le infrastrutture del 5G spingerà Pechino e Washington a contendersi il globo come fecero americani e sovietici durante la Guerra fredda e così imporre la propria visione e sovranità tecnologica?

Alessandro Aresu: Il concetto di neoliberismo a me non convince, infatti condivido quello che affermano alcuni studiosi americani di storia delle istituzioni, come Daniel Rodgers[1], sull’inefficienza di un termine diventato “pigliatutto” e che quindi spesso genera confusione, invece di far vedere i reali processi di potere. Questo non vuol dire sottovalutare, per esempio, il tema delle disuguaglianze o l’insopportabile crescita della povertà minorile in Italia, ma per me significa che se uso la categoria di neoliberismo della sfida tra gli Stati Uniti e la Cina – quindi, della questione fondamentale del nostro tempo – non capisco granché.

Sono invece d’accordo sull’elemento ravvisato nella domanda, ovvero l’analogia tra il sistema capitalistico in Cina e negli Stati Uniti. A inizio 2020 La Nave di Teseo, nella collana diretta da Massimo Cacciari e Natalino Irti, pubblicherà un mio libro su questo tema, al quale ho lavorato a lungo. La mia tesi è che entrambe le potenze condividano una forma di capitalismo politico, che siano “potenze del capitalismo politico”. Già Max Weber, insieme a Werner Sombart tra i principali studiosi del capitalismo di inizio Novecento, aveva descritto questo concetto di “capitalismo politico” nei suoi studi.

In Cina, naturalmente il ruolo del partito comunista cinese è preponderante data la sua volontà di creare una società organica in cui tutti gli aspetti – politici, economici, sociali e culturali – siano sottomessi ad un controllo verticale. Rafforzato, non indebolito, dallo sviluppo tecnologico. Attenzione però, ciò non vuol dire che non vi siano elementi di mercato, come si registra nella vivacità che contraddistingue le imprese tecnologiche cinesi: non solo nei conflitti e negoziati, per esempio tra Alibaba e Tencent, ma anche nell’intensa competizione tra territori, province, municipalità e tra imprese ad esse legate. Poi ovviamente ci sono state anche importanti privatizzazioni che portano all’aumento del peso dei mercati finanziari. Tutto ciò non va ad intaccare in nessun modo il controllo del partito comunista cinese che viene esercitato anche attraverso l’uso della forza. Quando parlo di “forza”, intendo anche la forza vera, letterale.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il sistema americano è un capitalismo politico per il ruolo di grande rilievo che hanno le burocrazie militari e quelle legate alla sicurezza nazionale, in particolare nell’operato delle principali imprese tecnologiche e nel finanziamento dei programmi di ricerca e sviluppo. Sono temi studiati a lungo dagli storici della tecnologia, oltre che da autori come Fred Block e più di recente da Mariana Mazzucato che ha avuto il merito di portarvi un’attenzione pubblica generale. Personalmente, ritengo che, rispetto a quanto sottolineato da quella vasta letteratura il ruolo della difesa e della sicurezza negli Stati Uniti vada accentuato ancora di più, in particolare se guardiamo all’armamentario americano sugli investimenti esteri e sul controllo della catena del valore, su cui ho scritto in varie occasioni. Da qui viene, in sintesi, l’identificazione del “capitalismo politico” americano.

In generale, se guardiamo all’evoluzione dell’ecosistema digitale nei due paesi e lo proiettiamo su scala globale, stiamo parlando di un sistema molto complesso, che ha una profondità molto maggiore rispetto a quello della Guerra fredda, dovuta all’intensità della competizione tecnologica che conduce a contendersi le materie prime e il loro trattamento, allo sviluppo del capitale umano, alla struttura materiale e giuridica della catena del valore che, come ricordato pocanzi, nella globalizzazione coinvolge una molteplicità di Stati. Attenzione però allo stesso concetto di “catena del valore globale”, che non va utilizzato in modo ingenuo: all’interno dei conflitti geopolitici questo non è un dato permanente, l’interdipendenza delle stesse catene del valore può essere adattata, terremotata, cambiata ad hoc a seconda del livello di conflittualità che esiste tra i due grandi contendenti. Anche sostenendo costi economici e sociali. Risulta difficile all’interno di questo scenario che si possano sviluppare delle capacità autonome di altri attori che sfidino apertamente l’opzione americana o quella cinese, ed è quindi più probabile che vadano a far parte di alleanze, rapporti bilaterali o di vere e proprie sfere d’influenza.

Veniamo invece all’Unione Europea, che sembra trovarsi in questo contesto nella morsa. Ha colpito la decisione della Commissione Europea di bloccare la fusione di Siemens Mobility e Alstom, due società rispettivamente tedesca e francese leader nel settore dell’alta velocità ferroviaria che, tuttavia, rimangono fuori mercato rispetto al colosso cinese CRRC nella costruzione dei treni «super-tecnologici». Parigi e Berlino hanno accusato Bruxelles di sottovalutare una necessaria politica industriale europea. È questo il vero tallone d’achille per l’Europa?

Alessandro Aresu: Le debolezze strategiche dei paesi europei sono varie, riguardano tra l’altro la coesione interna dell’Unione Europea, gli aspetti demografici, quelli legati all’orizzonte militare. Le politiche della concorrenza mettono al centro il consumatore nel modo in cui sono state concepite e strutturate. Sono un aspetto importante e visibile della politica europea. La necessità di un loro aggiornamento viene avanzata da più parti: da parte di alcuni paesi in maniera più coerente, da altri con maggior intermittenza e a seconda delle reciproche convenienze delle aziende presenti sul loro territorio. Vedremo se e in che modo, nei prossimi anni, vi sarà un’azione concertata sulla creazione dei “campioni europei” subordinandovi la politica della concorrenza in modo efficace e senza generare troppa confusione. Sono comunque temi di cui si parla almeno da cinquant’anni[2], quindi ci crederò quando lo vedrò, non quando lo dirà Macron in un discorso o un ministro tedesco in un documento. Tuttavia, ciò che è sempre più imperativo – e che dimostra la carenza delle normative ma anche delle burocrazie, nazionali ed europee, rispetto alle sfide che ci accingiamo ad affrontare – è dare maggiore attenzione a strumenti anticipatori sull’evoluzione dei vari mercati, della loro interconnessione per via dell’intensità tecnologica con potenziali implicazioni di sicurezza. Tra i paesi europei, solo la Francia ha questa mentalità, a prescindere da chi la governa.

A febbraio 2019, il “Manifesto franco-tedesco per una politica industriale europea adeguata al XXI secolo” pone la questione in termini chiari: unire le forze o perire di fronte alle sfide della frontiera tecnologica. È possibile concepire una “progettualità” condivisa in un’eurozona scossa da spinte politiche divergenti ed economicamente così frammentata?

Alessandro Aresu: Nel contesto europeo bisognerebbe puntare a delle grandi rivoluzioni di gestione della politica industriale, oppure cominciare a presidiare alcuni ambiti specifici. Probabilmente la seconda strada è quella più sostenibile e realistica. Per esempio, può essere adottata su alcune proposte che sono già in corso e che riguardano le catene del valore e le filiere industriali strategiche per l’Unione Europea[3]. Su questi settori si possono già individuare potenziali elementi di congruenza e di collaborazione tra le principali nazioni manifatturiere, da gestire sia in ambito bilaterale che in ambito europeo. Questo dovrebbe essere un aspetto sui cui decidere uno stanziamento economico significativo. Al contempo, bisogna avere una capacità di attuazione reale che non è mai qualcosa di scontato.

Infine, l’Italia. Qual è la cifra per definire l’interesse nazionale nella rivoluzione digitale? Nel contesto dello scontro per la supremazia tecnologica e geopolitica tra USA e Cina, l’Italia sarà posta al bivio tra rispettare il vincolo atlantico o esplorare le Vie della Seta?

Alessandro Aresu: La cifra per definire l’interesse nazionale nell’era digitale è rendersi conto che ricerca e sviluppo, formazione e istruzione sono fattori da cui dipendono la potenza o l’impotenza dell’Italia nel mondo in cui viviamo. Per fare questo sarà decisivo portare questi temi ad una maggiore consapevolezza istituzionale e pubblica, poiché la capacità italiana di incidere nei processi in corso e la nostra stessa sovranità dipenderanno dalla possibilità effettiva di investire e ottenere risultati nell’istruzione e nel trasferimento tecnologico. Fornendo un maggiore supporto ai nostri ricercatori e agli istituti di ricerca più all’avanguardia e smettendo di denigrare, in generale, le persone che dedicano la loro vita alla ricerca e allo sviluppo, altrimenti proseguiremo in quel processo di indebolimento italiano che sembra a tratti inevitabile.

Per quanto riguarda i “vincoli”, allo stato attuale l’Italia ha sicuramente dei vincoli militari da rispettare che sono difficilmente superabili rispetto al rapporto e alla presenza degli Stati Uniti nel nostro Paese. Quindi non possiamo fare come ci pare. Siamo d’altra parte una nazione manifatturiera e commerciale, che ha un’inevitabile propensione all’apertura verso nuovi mercati, che sia definita dall’aumentare dei rapporti commerciali con la Cina o con altri interlocutori (per esempio dell’ASEAN). Anche qui bisogna guardare ai fatti senza eccessivo “nuovismo”: i legami economici con gli Stati Uniti, come è riscontrabile dalla nostra bilancia commerciale con gli USA in alcuni settori negli ultimi cinque anni, rimangono fondamentali.

Da questo punto di vista, a bocce ferme, la vicenda del Memorandum sulle Vie della Seta è stato un esempio negativo: non ha concorso per ora ad aumentare gli investimenti cinesi in Italia o a rendere l’interscambio con la Cina più favorevole per il nostro Paese, ma ha creato importanti problemi reputazionali verso gli Stati Uniti. E più in generale, ha generato una certa confusione. In ogni caso, l’interesse nazionale veniva chiamato in gioco anche da alcuni aspetti che erano in discussione nel Memorandum con la Cina, indentificando sfide alle quali non abbiamo dato risposta. Mi spiego meglio: se l’Italia aumenta la sua capacità di creare infrastrutture, di dare profondità alla sua dimensione commerciale attraverso il rafforzamento delle connessioni nel contesto geopolitico di riferimento – il Mediterraneo – sicuramente diventerà più attrattiva. Questo vale per gli investimenti delle imprese italiane (per esempio le imprese di costruzione, che vorrebbero poter realizzare opere in un ambiente più favorevole) e per gli investimenti esteri, compresi quelli cinesi. La mia posizione è che tali investimenti potevano essere gestiti dalle aziende italiane, anche partecipate dallo Stato, senza questo cappello del Memorandum, diminuendo così il rischio reputazionale e diplomatico nei confronti degli Stati Uniti e ottenendo forse gli stessi risultati concreti. In conclusione, il punto centrale riguarda il fatto che i porti italiani funzionino nella loro proiezione, riducendo la conflittualità interna per scegliere e realizzare i progetti migliori, e che l’Italia sia un luogo attraente per ricevere investimenti. Questo però, lo ribadisco, dipende dal sistema interno – dalla burocrazia, dalla certezza del diritto, dalla continuità istituzionale – più che dagli accordi che firmiamo con le potenze del capitalismo politico o con altri paesi. Se invece firmiamo accordi o facciamo promesse alla Cina o ad altri senza far funzionare meglio il nostro sistema, ci prendiamo comunque in giro da soli. In definitiva, se concentreremo le risorse allo scopo di far funzionare meglio il nostro sistema, allora avremo un potere negoziale differente e capiremo come comportarci in un mondo che, nei prossimi anni, sarà verosimilmente scandito dalla sfida tra Cina e Stati Uniti. A quel punto avremo anche maggiori strumenti per comprenderne la portata reale sul nostro sistema economico e tecnologico.


[1] https://www.dissentmagazine.org/article/uses-and-abuses-neoliberalism-debate

[2] http://www.limesonline.com/cartaceo/la-sfida-americana-cinquantanni-dopo

[3] https://www.egeaonline.it/PDF/4b489bcb-44e9-4b61-8856-c1ff28015073.aspx

Scritto da
Alberto Prina Cerai

Dopo le lauree all’Università di Torino e all’Università di Bologna, ha svolto un periodo di ricerca presso il King’s College di Londra. Ha completato in seguito un Corso Executive in Affari Strategici presso la LUISS School of Government, una PhD Summer School con Politecnico di Milano-EIT Raw Materials su materiali critici ed economia circolare e un Master con la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI). Attualmente collabora con Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e LUISS University Press, oltre a svolgere attività di consulenza e analisi.

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