Scritto da Marco Magnani
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Lo scorso aprile, su questa rivista, Luca Picotti ha ben illustrato i punti essenziali del felice libro che Lorenzo Mesini ha scritto sull’ordoliberalismo sulla scia del rinnovato interesse emerso in anni recenti: Stato forte ed economia ordinata. Storia dell’ordoliberalismo (1929-1950), il Mulino 2023. Lo scorso settembre, a Roma, il volume è stato presentato presso l’Istituto dell’Enciclopedia Treccani da Pietro Benassi, Pierluigi Ciocca, Luca Crescenzi e Monika Pöttinger, tutti a proprio modo esperti nelle vicende economiche, storiche e politiche della Germania. Riflettendo la densa articolazione del libro di Mesini e l’ampio dibattito sull’ordoliberalismo, le questioni toccate sono state tante, troppe per essere riprese in questa sede. In questa nota mi limiterò quindi a discutere solo alcuni punti, quelli meno lontani dagli ambiti dell’economia e della politica economica e più legati al ruolo dell’ordoliberalismo nell’impostazione della politica tedesca, economica e non, nel secondo dopoguerra.
Dopo la catastrofe bellica prende vita in Europa e negli Stati Uniti un progetto di rinnovamento del pensiero liberale che annovera fra i suoi protagonisti più noti, in ambito non solo economico Hayek, Mises e Robbins. Gli ordoliberali ne rappresentano la peculiare versione tedesca. Tutti, pur nella notevole eterogeneità di posizioni, condividono la caduta della Repubblica di Weimar come elemento fondante della loro analisi. Da qui l’enfasi sulla necessità di un quadro regolatorio definito dallo Stato che penalizzi i monopoli economici non solo pubblici ma anche privati – differenziandosi in questo dal mainstream liberale dell’epoca – e che tuteli l’indipendenza delle istituzioni preposte al governo dell’economia. È essenziale quindi la funzione del diritto per assicurare un ordinamento costituzionale entro cui l’economia di mercato possa liberamente operare. Lo Stato ha il compito fondamentale di definire una costituzione economica che esprima i valori condivisi fra gli attori economici e sociali; l’economia deve in questo senso essere “neutralizzata” per scongiurare che divenga terreno di fatali scontri nella società, come era accaduto nella Repubblica di Weimar.
Pöttinger intravede molti rischi in questa impostazione. Il programma ordoliberale sarebbe fondato sull’idea di uno Stato forte e tendenzialmente autoritario perché sostituisce la funzione di mediazione fra interessi diversi – come nel pensiero liberale classico di Mill – con una normazione dall’alto volta a fini etici, utilizzando a questo scopo il mercato reso concorrenziale dall’azione dello Stato: Ordnung macht frei (absit iniuria verbis). La neutralizzazione dell’economia operata con la costituzione economica sarebbe in realtà l’espressione di una sfiducia verso la politica, di quella parlamentare in particolare, uno strumento per sottrarre la politica economica ai governi e ai parlamenti in nome di un ideale tecnocratico.
Credo che l’idea ordoliberale di una costituzione dell’economia, ovvero con le parole degli ordoliberali di «una decisione politica generale su come la vita economica della nazione debba essere strutturata», non si presti a una interpretazione univoca come quella di Pöttinger. Mesini, ad esempio, vi coglie piuttosto l’espressione di un approccio di derivazione illuministica alla società, in opposizione all’irrazionalismo politico di stampo nietzschiano. In tutt’altro contesto il governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi ha usato il termine di “costituzione” nelle Considerazioni finali del 1981 per indicare gli interventi istituzionali ritenuti necessari per risanare la moneta e per questa via implicitamente l’economia: «Il ritorno a una moneta stabile richiede un vero cambiamento di costituzione monetaria, che coinvolge la banca centrale, le procedure per le decisioni di spesa pubblica e quelle per la distribuzione del reddito». È un esempio di come l’azione pubblica (di ispirazione ordoliberale?) possa in linea di principio contribuire a creare le condizioni affinché siano tutelati beni pubblici essenziali in una società democratica.
Quanto ha influito l’ordoliberalismo sullo sviluppo della Germania nel secondo dopoguerra? È un’altra domanda oggetto di estese analisi nella letteratura. Pöttinger è persuasa che la neutralizzazione della politica teorizzata dagli ordoliberali sia assai importante per comprendere l’impostazione concettuale della politica economica tedesca e la sua resilienza in anni recenti in connessione con la definizione dell’assetto della governance europea. La medesima convinzione sulla rilevanza dell’ispirazione ordoliberale è stata espressa in anni non troppo lontani da protagonisti della vita pubblica tedesca quali Wolfgang Schäuble, Jens Weidmann e la stessa Angela Merkel, che pur rovesciano il segno del giudizio storico. Si noti peraltro che l’influenza effettiva ordoliberale è variata nel corso del tempo, subendo negli anni Sessanta un temporaneo ridimensionamento a vantaggio di un approccio keynesiano sostenuto dai primi governi socialdemocratico-liberali. L’economia sociale di mercato, che funse da base per la ricostruzione post-bellica, ha certo una radice ordoliberale. Vi contribuì soprattutto un suo esponente di spicco (stretto collaboratore del ministro e poi cancelliere, Ludwig Erhard), Alfred Müller-Armack, secondo il quale, sono sue parole: «L’economia di mercato non soddisfa adeguatamente determinati requisiti in materia di bilanciamento sociale e sicurezza sociale e dobbiamo adoperarci per opportuni stabilizzatori». L’economia sociale di mercato non coincide però con l’elaborazione ordoliberale, come anche Mesini argomenta. Secondo Walter Eucken, considerato il capostipite della scuola, scomparso nel 1950, il nesso fra politica economica e politica sociale è tutt’altro che immediato nonché denso di rischi per la concezione liberale della economia e della società. Due pilastri del modello economico tedesco mostrano bene il suo rapporto complesso con l’eredità di quella scuola. La legge antitrust del 1957, la prima in un Paese europeo, è sicuramente espressione della cultura ordoliberale; non così però per quelle sulla codeterminazione nelle imprese degli anni Cinquanta e Settanta che portano soprattutto il segno del movimento sindacale e del partito socialdemocratico.
Anche Ciocca identifica nell’ordoliberalismo un fattore non trascurabile dello sviluppo economico tedesco nel secondo dopoguerra, in primo luogo per aver fornito un quadro concettuale di riferimento, per quanto criticabile in quanto a solidità teorica, alla politica economica. Muovendo da una sua tesi elaborata negli anni Settanta e ripresa recentemente, Ciocca individua l’esistenza di un filo rosso lungo la storia novecentesca della Germania costituito da una strategia neo-mercantilista volta a conseguire forti avanzi di parte corrente negli scambi con l’estero e la formazione di una ampia posizione creditoria verso l’estero. Le radici storiche risiederebbero nell’incubo del debito estero imposto alla Germania dopo la Prima guerra mondiale, incubo che affligge anche gli ordoliberali. I tedeschi non amano essere debitori perché hanno memoria della schiavitù del debito ma, dopo il 1945, anche perché usano il loro imponente credito netto verso l’estero come strumento di condizionamento politico. A questo fine sono financo disposti a penalizzare sé stessi perché, con un’espansione della domanda interna sospinta dalla politica economica, potrebbero guadagnare e consumare di più senza pregiudicare nella sostanza gli equilibri di una finanza pubblica sufficientemente solida.
Le conclusioni di Ciocca sono estreme, soprattutto con riferimento alla Germania di Bonn, per la quale la capacità di generare avanzi verso l’estero e la forza del marco erano simboli di un riscatto che in quel contesto geopolitico, e con il peso del passato nazista, non poteva che sgorgare solo dalla forza dell’economia.
Con la riunificazione, il Trattato di Maastricht e la nascita dell’Unione monetaria la questione assume significati in parte diversi. Maastricht è un compromesso necessario ma foriero di problemi. Centralizzare la politica monetaria lasciando la sovranità fiscale agli Stati nazionali è il più evidente. Mitterrand ottiene l’euro, che la Bundesbank non vorrebbe in assenza di una integrazione anche politica in Europa, offrendo in cambio l’assenso all’unificazione. Nel governo dell’area dell’euro i criteri di bilancio e monetari della Banca centrale tedesca sono assunti come riferimento ineludibile, condizionando significativamente la politica economica degli Stati membri, sebbene in più di una circostanza la Bundesbank sia messa in minoranza in seno alla Banca centrale europea. L’ architettura europea risente dell’approccio tedesco, e più precisamente ordoliberale: persegue per quanto possibile, una neutralizzazione delle spinte politiche, stabilendo norme sulla concorrenza, sugli aiuti di Stato, sulla tutela del consumatore, sui margini a disposizione dei governi nazionali nell’impostazione della loro politica fiscale, soggetti a un sistema felicemente definito in termini di governing by the rules and ruling by the numbers.
Veniamo infine alla questione del senso di responsabilità degli impegni presi, un tema centrale per la scuola ordoliberale. La Germania difende con forza i principi della sua cultura politica ed economica: stabilità dei prezzi, disciplina di bilancio, rispetto delle regole. Se l’unione monetaria richiede il rispetto delle regole condivise, il principio della casa in ordine – il mettere ordine in casa propria come condizione sufficiente affinché la comunità di cui si è parte funzioni – non è sempre vero. Occorre pensare allo stesso tempo alle esternalità e ai beni comuni, come ha ricordato qualche anno fa Tommaso Padoa-Schioppa e in tempi più recenti Mario Draghi. Questa tensione, risolubile solo con gli strumenti della politica, è divenuta ancora più palese con la crisi pandemica e la guerra in Ucraina. Ne ha dato una vivida descrizione nella discussione alla Treccani Pietro Benassi attingendo alle sue recenti esperienze di diplomatico.