Scritto da Paolo Missiroli
11 minuti di lettura
Giovanni Arrighi è un pensatore che ha compiuto riflessioni di grande interesse sullo sviluppo di lungo periodo del capitalismo. Del suo libro più famoso, Il lungo XX secolo, si è già parlato in passato su questo sito in una recensione a cui rimandiamo. Le considerazioni che seguono sono riferite invece prevalentemente ad Adam Smith a Pechino, un libro scritto negli anni Duemila, tra il 2005 e il 2007, nel tentativo di attualizzare e di concretizzare, nonché di proseguire l’elaborazione svolta nella sua opera principale. Se nel Lungo XX secolo, Arrighi spiegava la dinamica del capitalismo in generale, cioè la struttura stessa e lo spazio politico-economico all’interno del quale può esserci accumulazione capitalistica, nel libro in questione invece Arrighi utilizza quegli strumenti teorici elaborati in passato per provare a comprendere la svolta a cui ritiene di assistere: la fine dell’egemonia USA e l’avvento della Cina per la guida di un nuovo ciclo di accumulazione. Naturalmente non si tratta solo di questo: molti elementi vengono aggiunti, modificati, altri piani teorici si incrociano al discorso del Lungo XX secolo. Sintetizzando si può dire che, che se Il lungo XX secolo è un libro di teoria storica sui cicli di accumulazione (e la storia dei cicli di accumulazione coincide, per Arrighi, con quella del capitalismo), Adam Smith a Pechino è un tentativo di applicazione di tale teoria alla fine di un ciclo ed all’inizio di un altro. Bisogna dire che Arrighi slega abbastanza nella sua interpretazione storica la crisi degli Stati Uniti come fulcro egemonico dell’accumulazione capitalistica e la crescita della Cina, al punto che questi due processi possono essere trattati quasi separatamente. Di conseguenza questo articolo affronterà specificamente le problematiche connesse alla fine del ciclo egemonico statunitense, mentre un contributo successivo si soffermerà sull’ascesa cinese.
Cosa significa “egemonia”? Cosa significa “essere egemoni”? Ed in che senso gli Stati Uniti lo sono stati nella seconda metà del XX secolo? In questo Arrighi si conforma pienamente alla definizione del concetto data da Gramsci: l’egemonia è la capacità non solo di detenere il potere, ma di detenerlo convincendo chi è subalterno a quel potere di esercitarlo nell’interesse di tutti. Questo vale sia a livello nazionale, sia a livello mondiale, quando si tratti di un sistema-mondo. E dato che, per Arrighi, il capitalismo è un sistema mondo nel quale, affinché sia possibile l’accumulazione, ci vuole uno stato egemone (rimandiamo al commento fatto in precedenza per ogni ulteriore spiegazione), questo significa che uno stato, per essere egemone, non deve solo essere il fulcro intorno a cui ruota l’accumulazione capitalistica e quindi la crescita economica globale, ma anche quello che esercita un qualche potere politico sul globo (che cambia nella sua forma a seconda del ciclo in questione), e che può fare tutto questo solo a condizione di venire percepito come unico mezzo grazie a cui è possibile l’aumento di potenza e di ricchezza di tutti i subalterni, che collaborano ed implementano così il suo ruolo.
Esattamente in questa posizione si sono trovati gli Stati Uniti d’America a partire dal 1945. Succedendo al ciclo di accumulazione inglese, gli Usa hanno guidato un nuovo ciclo di accumulazione a partire dalla vittoria della lunga guerra interna al sistema-mondo tra il 1914 ed il 1945 (Arrighi, in accordo coi teorici del sistema mondo, considera unitariamente le due guerre mondiali come una lunga sola guerra, comprendente anche gli scontri che hanno luogo tra le due guerre). Questo ciclo ha avuto luogo grazie al Piano Marshall ed al New Deal mondiale, che hanno lanciato un grandioso ciclo di accumulazione (i cosiddetti Trenta Gloriosi) ed un momento di governo mondiale de facto incontrastato da parte degli Stati Uniti, al comando di una coalizione globale di stati e di potenze politiche generiche che riconoscevano l’egemonia degli USA, nel senso in cui l’abbiamo descritta prima (non ne riconoscevano quindi solamente il dominio, nel senso del potere militare). Naturalmente ogni ciclo di accumulazione, anche nel suo momento di massimo splendore, non è senza contraddizioni interne, tendenze problematiche ed anche crisi più o meno gravi. Arrighi sottolinea spesso come gli USA abbiano vinto pochissime delle guerre importanti che hanno combattuto dal ’45 in poi: la guerra in Corea si è risolta con un sostanziale pareggio, il cui risultato è stato però in gran parte ex post una sconfitta per gli USA in quanto ha messo in discussione sin dai primi anni Cinquanta il loro dominio assoluto del Pacifico orientale; la guerra del Vietnam è stata una sconfitta disastrosa; la guerra in Iraq, ne parleremo più a fondo più avanti, è stata ancora più significativa da questo punto di vista.
In ogni caso anche questo lungo periodo di egemonia statunitense è descritto molto meglio nel Lungo XX secolo, a cui rimandiamo ancora una volta. In Adam Smith a Pechino, Arrighi non parla del comando degli Usa, ma della fine di questo comando.
Per Arrighi, semplificando molto, il meccanismo che ha portato ad una crisi sistemica che dura ancora oggi è stato questo: gli Usa, mediante il piano Marshall ed in generale gli aiuti allo sviluppo, necessari sia allo sviluppo economico del mondo sia alla creazione di quel consenso necessario all’egemonia, hanno generato una dinamica di “sviluppo ineguale”, cioè di accrescimento a seguito della loro economia in mondializzazione delle economie dei paesi più poveri (Giappone in primo luogo, liberato, grazie alla protezione USA, del peso della spesa militare), che ha generato un periodo di enorme ricchezza ed accumulazione generalizzata. Questa dinamica ha però portato inevitabilmente ad un inasprimento della concorrenza inter-capitalistica (sia tra paesi che tra grandi aziende) nella quale gli USA, sovraccaricati anche del peso economico del mantenimento dell’egemonia globale attraverso azioni militari e dimostrazioni di forza (NASA), rischiavano di avere la peggio o comunque vedevano pesantemente intaccato il loro potere economico. Si noti che questi processi sono certamente accentuati o ridotti dall’azione politica dei governi, ma Arrighi vede comunque sempre una certa inevitabilità dello sviluppo capitalistico anche in termini di crisi. Gli USA non potevano scegliere, nel loro voler comandare il mondo da egemoni, se far partire una dinamica di sviluppo ineguale o meno. Erano costretti. L’alternativa era mantenere l’economia mondiale nella condizione post-bellica di stagnazione. Questo elemento può servirci anche oggi a capire la riluttanza nell’assunzione di una prospettiva egemonica sia all’interno di contesti continentali sia, ovviamente, nel contesto del sistema mondo. La crisi degli anni Settanta fu dovuta essenzialmente a questo meccanismo ed alla risposta americana di svalutazione del dollaro, svalutazione resa possibile con la rottura di Bretton Woods, che causò inizialmente un boom, seguito da una crisi generale dell’economia globale dovuta alla svalutazione.
Fu a tutto questo che seguì la svolta monetarista e neoliberista degli anni Ottanta con Reagan e Thatcher, che non fu altro che una risposta all’inefficacia della politica svalutativa per risollevare il mondo dalla crisi. Questa finanziarizzazione, che sembrò calmare la crisi inizialmente, è però per Arrighi solo un modo per spostare la crisi su un altro terreno, non per risolverla. Come aveva già dimostrato ne Il lungo XX secolo, è caratteristica primaria del capitalismo il ristrutturarsi intorno alla finanza nel momento in cui un ciclo di accumulazione entra nella sua fase calante. In questo senso ogni finanziarizzazione del capitalismo porta con se contraddizioni irrisolvibili se non con l’inizio di un nuovo ciclo. Questi processi di finanziarizzazione infatti spostano continuamente potere d’acquisto da investimenti in beni materiali (e forza lavoro) capaci di creare domanda, a impieghi speculativi che inaspriscono i problemi di realizzo monetario della produzione e degli investimenti; costruiscono nuove costellazioni di potere che intaccano la capacità d’agire degli Stati-nazione; creano disuguaglianze spaventose che distruggono la legittimazione egemonica di chi esercita il comando in un dato momento. In ogni ciclo di accumulazione c’è una Belle Époque dove regna la finanza, preludio della crisi terminale. Bisogna tenere presente che Arrighi è venuto a mancare nel 2007, cioè prima dello scatenarsi della crisi finanziaria globale. Questo lo schema generale per come lo espone Arrighi:
«La formula generale del capitale di Marx (DMD’), può essere reinterpretata non solo come la rappresentazione della logica che sottende ogni investimento del singolo capitalista, ma anche come la rappresentazione di uno schema ricorrente del capitalismo mondiale. L’aspetto centrale dello schema è l’alternanza di epoche di espansione materiale (la fase DM dell’accumulazione capitalistica) e di epoche di espansione finanziaria (le fasi MD’). Durante le espansioni materiali, il capitale monetario (D) mette in movimento una massa crescente di merci (M), ivi compresa la forza-lavoro e le ricchezze naturali, mentre nelle fasi di espansione finanziaria, una massa accresciuta di capitale liquido (D’) si libera dalle pastoie della sua trasfigurazione in merce e l’accumulazione può procedere per canali puramente finanziari (come nella formula condensata di Marx DD?). Le due epoche, prese insieme, vengono a costituire quello che io chiamo un ciclo sistemico di accumulazione (DMD’)».
Ci colleghiamo qui al punto di originalità della teoria di Arrighi. In effetti, finora si è trattato di ragionare sulla crisi come crisi economica, ma non come crisi di egemonia. Per Arrighi, il punto fondamentale è che questa crisi va ricollegata ad un più ampio contesto di crisi egemonica globale, che ha con la crisi economica sopra descritta nei suoi meccanismi di massima un legame importante ma anche una relativa indipendenza. Confrontandosi con un autore (Brenner) che trattava l’avvento del neoliberismo in termini puramente economici, Arrighi sostiene infatti:
«Io interpreto la crisi dei profitti come uno degli aspetti di una più ampia crisi di egemonia. […] Io vedo la finanziarizzazione del capitale, come nota dominante della risposa capitalistica alla doppia crisi dei profitti e dell’egemonia».
Questa crisi di egemonia ha a che fare naturalmente con la crisi economica che abbiamo descritto, ma anche, principalmente, con altri tre fattori: 1. Un forte movimento operaio, che imponeva l’agenda ai paesi sviluppati e spingeva ancora più avanti la competizione intercapitalistica, rendendo impossibile ai capitalisti scaricare la competizione sulle spalle dei lavoratori 2. La crescente povertà del Sud del mondo, le cui proteste e ribellioni intaccavano l’immagine degli Usa “buoni padroni” del mondo 3. La crisi causata dalla sconfitta in Vietnam sia in termini di credibilità internazionale, sia in termini di tenuta della legittimità del governo del mondo di fronte all’opinione pubblica degli USA 4. La crisi economica sopra descritta.
Il punto 2 e 3 sono fondamentali nella misura in cui ci riconducono a quella definizione di egemonia che abbiamo dato sopra: viene meno la dimensione “buona” dell’egemonia Usa, il cui potere non viene più visto come “buono per tutti” ma come fine a sé stesso. Arrighi parla così di una transizione dall’egemonia come potere del “padre” al dominio senza egemonia come “racket”. L’egemonia degli USA, riassumendo, si fondava su tre elementi: la protezione offerta dalla NATO, il traino dell’economia mondiale, la capacità di risoluzione di problemi di ordine geopolitico (ad esempio la crisi del Canale di Suez). Dagli anni Settanta in poi diventa sempre più evidente l’insofferenza degli USA a finanziare la NATO come strumento di protezione globale; l’incapacità della economia americana di esercitare la funzione di traino globale; l’inizio di tutta una serie di problemi di ordine geopolitico che vengono creati e nemmeno, quasi mai, risolti dagli USA (esattamente all’opposto che negli anni Cinquanta e Sessanta).
Arrighi interpreta in questo contesto sia la disfatta nel Vietnam, sia la rivolta dei paesi dell’OPEC: in questi termini per Arrighi la crisi petrolifera non è da pensare, come viene spesso fatto, come il punto di partenza della crisi degli anni Settanta, ma come una conseguenza della crisi generale di egemonia. Ogni crisi economica, da questo punto di vista, è parte di una più generale crisi di egemonia, sia nel senso che la innesca, sia nel senso che ne sta all’interno. Abbiamo visto come uno dei motivi scatenanti della crisi, nel merito della dinamica dello sviluppo ineguale, era dovuto al fatto che il Giappone era del tutto esente dalle spese di “mantenimento” dell’egemonia militare nel sistema mondo, spesa di cui venivano praticamente sobbarcati gli USA. Entra quindi in crisi anche un approccio teorico che punti a distinguere anche solo metodologicamente la crisi economica da quella egemonico-politica. Non si può trattare dell’una senza trattare dell’altra; in effetti, anche quanto abbiamo detto sopra a proposito della crisi economica era dunque incompleto, cioè non era del tutto collocato all’interno di una vasta crisi di egemonia.
Un punto è particolarmente interessante da un punto di vista teorico, anche in quanto Arrighi vi dedica un capitolo intero, riguardo alla dinamica sociale della crisi degli anni Settanta. Con questo termine Arrighi intende, in pratica, il ruolo rivestito dalla lotta di classe all’interno dell’esplosione di questa crisi. Sempre confrontandosi con Brenner, che sosteneva la completa indifferenza del sistema mondiale e della crisi rispetto alle lotte operaie, Arrighi sostiene invece, come abbiamo già accennato, che la potente resistenza esercitata dalle masse popolari ai tentativi dei gruppi capitalistici di scaricare il costo della crisi e della competizione su di loro generò una competizione ancora più sfrenata tra i capitalisti stessi, anticipando la crisi. Questa resistenza si manifestava nelle lotte operaie selvagge nell’Occidente e nel mondo intero, nelle lotte anticoloniali e nella conquista di sempre maggior potere politico e sociale da parte di partiti politici comunisti (il ché andava naturalmente ad ingrossare le fila di quelle forze che causavano il punto 3 di cui sopra, cioè la crisi della credibilità internazionale degli USA), sia dalla forza in alcuni paesi decisiva di partiti comunisti e socialisti. In effetti, secondo Arrighi uno degli altri motivi portanti della svalutazione del dollaro fu proprio il tentativo di indebolire queste classi operaie minandone la forza economico-politica (nonché la volontà di abbassare il peso economico della spesa militare). Come si vede, la distinzione tra economico e politico perde di senso, nella sua assolutezza, in una dimensione teorica come quella di Arrighi.
Di fronte a questa situazione di crisi prolungata, gli Stati Uniti tentarono, secondo Arrighi, di mantenere il dominio sul globo (giacché l’egemonia era oramai persa) scaricando (anni Novanta) la spesa e l’onere dell’comando militare sul mondo su altri componenti della NATO (guerre del Kosovo, I guerra del Golfo) e successivamente, in qualche modo, di “fare come il Regno Unito”. Cosa significa?
Nel corso dell’Ottocento, il Regno Unito ha esercitato incontrastato la propria egemonia globale, grazie a tutta una serie di dinamiche che non possiamo qui descrivere, ma in forza specificamente della propria proiezione coloniale su quello che sarebbe poi divenuto il Terzo Mondo. Il Regno Unito ha egemonizzato il pianeta, di fatto, grazie all’India, che svolgeva il ruolo di “caserma a costo zero”: percentuali intorno all’80% dell’esercito coloniale inglese erano composte da indiani – naturalmente il tutto non andava senza problemi, come dimostrano le rivolte dei sikh. L’India era inoltre un vastissimo territorio che fungeva da mercato dal quale estrarre materie prime a prezzi bassissimi e a cui rivendere il prodotto finito su “corsie privilegiate”. Tutto questo è sempre mancato agli USA, che hanno esercitato un tipo di egemonia che probabilmente aveva una tenuta maggiore dal punto di vista della legittimità (in alcuni ambienti permane anche oggi l’idea che gli USA siano i “salvatori e difensori del mondo libero”), ma che ha sempre impedito agli USA di avere questo tipo di canali a cui attingere ed a cui fare riferimento.
Lo sviluppo dell’ideologia neocon nei tardi anni Novanta e nei primi anni Duemila rappresenta per Arrighi proprio il tentativo di pensare al sistema mondo in termini di un’egemonia USA rinnovata ed esercitata più “direttamente” di prima. La guerra in Iraq è quindi davvero il “colpo di Stato” tentato dagli Usa per avere accesso diretto alle risorse necessarie a mantenere l’egemonia globale. Il fallimento dell’operazione consiste (ricordiamo che Arrighi scrive nei primi anni Duemila, molto prima dell’ISIS, della guerra in Siria e della vittoria di Trump), nella mancata instaurazione di un governo fedele agli Usa, nel prosieguo delle lotte intestine all’Iraq e la necessità di ulteriori pesanti spese militari nella regione per gli Stati Uniti. La guerra in Iraq, oltre a confermare l’incapacità dell’esercito americano di vincere una guerra, conferma anche la famosa Sindrome del Vietnam, amplificandola, nella misura in cui tecnicamente gli Stati Maggiori dell’esercito americano stavano preparandosi a vincere un nuovo Vietnam dagli anni Settanta. Naturalmente, Arrighi lo sottolinea spesso, non è in questione la “potenza di fuoco” o di distruzione degli Stati Uniti, quanto la loro capacità tecnica di sconfiggere il nemico nel modo in cui si manifesta negli scontri concreti che si pongono al loro esercito. Infatti, non può esserci egemonia ed accumulazione capitalistica senza unione tra potere politico-militare, capacità di guida egemonica e spoliazione economica dei territori. Gli Usa hanno dimostrato una volta di più con la guerra in Iraq di non essere in grado di operare la prima di queste condizioni senza generare sconvolgimenti politici-locali, guerriglie che non possono gestire, nonché crisi di consenso interne (si veda il crollo della popolarità del presidente Bush dopo solo pochi anni dall’inizio della guerra in Iraq) ed esterne (numerosi paesi ed alleati storici degli USA si opposero alla decisione di Bush di invadere e di rimanere in Iraq).
Emerge qui una questione centrale per il funzionamento del capitalismo secondo Arrighi, sostanziale e fondamentale: il capitalismo vive di una logica territoriale. E cioè, il capitalismo funziona essenzialmente per spoliazione di territori, sul considerarli territori dati allo sfruttamento, risorse, e sulla loro mercificazione, cioè sul farli entrare all’interno delle dinamiche dell’accumulazione globale. Per questo non si può concepire un capitalismo senza lo Stato. Perché lo Stato è sempre stato il mezzo con cui nuovi settori di mondo venivano aggiunti all’accumulazione, la sua potenza è da questo punto di vista sempre stata al servizio del capitale. La “Produzione dello Spazio” è sempre stata fatta per mezzo del capitale e del potere politico insieme. Anche per questo, soprattutto per questo, non è pensabile egemonia senza unione di due logiche: una imperiale, di potenza politica e militare (nonché consensuale) ed una economica, di accumulazione infinita e di spoliazione del mondo (da questo punto di vista emerge anche qui l’indissolubilità del legame capitalismo – crisi ecologica, molto al di là delle logiche di controllo possibili da parte degli Stati o delle potenze egemoni). La questione (politica) non è quella del controllo, è quella della dinamica. I lavori di James Moore sono, in questo senso, illuminanti, e confermano le ipotesi di Arrighi.
Naturalmente non si può ridurre una logica all’altra:
«La fusione di queste due componenti (logica imperiale e di accumulazione) presenta sempre aspetti problematici e perfino contraddittori. Le due logiche non possono mai ridursi l’una all’altra e, per esempio, “non sarebbe possibile spiegare la Guerra del Vietnam o l’invasione dell’Iraq […] solo in termini delle immediate necessità dell’accumulazione capitalistica”, dato che si potrebbe sostenere a buon diritto che “iniziative belliche di quel tipo tendono a ostacolare piuttosto che a favorire le fortune del capitale”. E specularmente risulterebbe “difficile spiegare la strategia generale di contenimento territoriale dell’Unione Sovietica perseguita dagli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale – la stessa strategia che fa da sfondo all’intervento americano in Vietnam – senza tener conto della vitale necessità per il sistema economico americano, che la maggior parte possibile del mondo fosse mantenuta aperta all’accumulazione capitalistica tramite l’espansione degli scambi internazionali […] e delle occasioni di investimento all’estero».
Questo comporta ulteriori indebitamenti della potenza ex-egemone nei confronti di altri protagonisti in erba della politica mondiale, tra cui, prima tra tutti, la Cina.