Gli Stati Uniti d’Europa: un estratto dal libro di Gianluca Passarelli
- 10 Febbraio 2024

Gli Stati Uniti d’Europa: un estratto dal libro di Gianluca Passarelli

Scritto da Gianluca Passarelli

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In Stati Uniti d’Europa. Un’epopea a dodici stelle Gianluca Passarelli – Professore ordinario di Scienza politica alla “Sapienza” Università di Roma – ricostruisce, riconnettendo le questioni cruciali del presente alle radici che affondano nel passato, le accidentate vicende che hanno portato al costituirsi dell’Unione Europea e analizza i problemi e le prospettive e del progetto di Stati Uniti d’Europa. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore Egea, un estratto del testo.


L’alleanza della Francia e della Germania è la costituzione dell’Europa. La Germania sostenuta dalla Francia ferma la Russia; la Francia, amichevolmente sostenuta dalla Germania, ferma l’Inghilterra.
– Victor Hugo, Le Rhin, 1842

 

 

Il concetto, l’idea, e forse il progetto seppure embrionale di costruzione, di immaginazione degli Stati Uniti d’Europa, sono emersi in forma sistematica e «pubblica» nella temperie del 1848 e dei momenti successivi. Quei moti popolari, che tentarono di scardinare il sistema di regimi assolutistici, monarchici e dispotici, rappresentarono la «Primavera dei popoli» intenti a liberarsi dal giogo tradizionalista e dalla reazione post-rivoluzionaria per instaurare regimi liberali e talvolta repubblicani. Quella definizione – «primavera» – verrà ripresa nel corso dei secoli a indicare l’afflato libertario di esseri umani dominati da assolutismi, dispotismi e tirannie, anche se non sempre e non tutte quelle stagioni di rinascita hanno avuto l’eco e l’impatto del 1848. Tanto che nell’immaginario collettivo, per secoli, e ancora oggi in taluni passaggi saggistici, politici e culturali accorti, o popolari anche inconsapevoli e automatici, il «48» ha assunto il rango di espressione, anatema, sinonimo di rivoluzione. «Fare un quarantotto» indica un moto, un atto violento, una confusione, scompiglio e rottura dell’ordine corrente.

Dalla Prussia alla Francia, dagli Stati italiani all’impero austriaco e ungherese deflagrò un movimento che sebbene differente a seconda degli ambiti, del tempo e dell’intensità, aveva in comune la causa antimonarchica e di superamento del sistema dei regni e delle corone quale forma di governo. Le conseguenze furono anch’esse differenziate, ma un po’ dappertutto emersero movimenti rivoluzionari, concessioni di «carte», il superamento del feudalesimo in Austria e Ungheria, assemblee costituenti, estensione di alcuni diritti, in particolare del suffragio, e qualche repubblica. Avvenne così per la Seconda repubblica francese, repentinamente soggiogata dal bonapartismo, per la Repubblica romana e per lo Statuto Albertino, octroyé, concesso appunto, nel 1848-49. Come detto, il Congresso di Vienna aveva ridisegnato le mappe e i confini dell’Ancien Régime, imbalsamando e tentando di tenere in vita, con alcune modifiche formali e superficiali, il precedente assetto. Il quale era ormai screditato e superato, non accettato né dal popolo né dalla borghesia, impegnata ad affrontare le sfide della rivoluzione industriale, della diffusione del sapere, e anche della crisi economica pre e post moti. Nel complesso, quel tentativo di libertà fu investito da una contro-azione di conservazione e restaurazione che congelò la spinta rivoluzionaria, e alimentò quindi nuovamente le istanze nazionali e nazionaliste, rispetto ai tanti liberali e repubblicani che si erano spesi per la «Primavera dei popoli».

 

Il pensiero federale per l’Europa

Un’idea federativa dell’Europa aveva in passato trovato spazio tra pensatori del calibro di Emmanuel Kant e l’Abbé de Saint-Pierre, ma dopo il 1848 questo percorso si consolida e la discussione si apre a circoli più ampi, fino a estendersi per tutta la seconda parte del XIX secolo.

In qualità di componente dell’Assemblea legislativa francese, Victor Hugo, nel 1849 illustra le idee circa Gli Stati Uniti d’Europa di fronte a un pubblico internazionale[1]. Quale presidente della Conferenza di pace di Parigi, Hugo perora la visione sull’Europa con molta chiarezza, e il suo discorso entrerà nella storia, influenzando le successive analisi e concettualizzazioni sul futuro, le istituzioni e la struttura da conferire al Vecchio Continente. Le parole di Hugo a Parigi sono visionarie, anticipatorie, lungimiranti, e terribilmente attuali:

Verrà un giorno in cui la guerra sembrerà così assurda fra Parigi e Londra, fra Pietroburgo e Berlino, fra Vienna e Torino da sembrare impossibile esattamente come, ai giorni nostri, lo sarebbe una guerra fra Rouen e Amiens […] Verrà un giorno in cui […] voi tutte, nazioni del continente, senza perdere le vostre qualità distinte e le vostre gloriose individualità, vi stringerete in un’unità superiore e costruirete la fratellanza europea […] Verrà un giorno in cui non esisteranno più altri campi di battaglia se non i mercati, che si apriranno al commercio, e le menti, che si apriranno alle idee. Verrà un giorno in cui le pallottole e le granate saranno sostituite dal diritto di voto, dal suffragio universale dei popoli, dal tribunale arbitrale di un Senato grande e sovrano che sarà per l’Europa ciò che il Parlamento è per l’Inghilterra, la Dieta per la Germania, l’Assemblea legislativa per la Francia[2].

L’intervento di Hugo è carico di lirismo, parla di fraternità, annuncia quasi l’inevitabile cooperazione, il superamento dei conflitti, della competizione armata, della guerra. Che pure, invece, tornerà, rimarrà per un secolo almeno per poi tornare ancora nel 2022, proprio nel cuore del continente. A pochi chilometri da «Parigi e Londra», da «Pietroburgo e Berlino», da «Vienna e Torino», città citate perché capitali di rispettivi Stati e imperi. E il conflitto tornerà ancora in Europa, nel 1914, nel 1939, e anche dopo la caduta del Muro di Berlino, nei sanguinanti Balcani, con il martirio di Sarajevo e Srebrenica, le guerre etniche, in quel focolaio e polveriera che innescò la miccia del primo conflitto mondiale.

La riflessione sulla costruzione di un’Europa federale è ampia seppur, evidentemente, con toni, inflessioni e significati diversificati dipendenti dal tempo, l’epoca, la sensibilità politica e culturale individuale, e sociale. Sin da Carlo Magno, considerato un padre dell’Europa[3] perché unì il controllo della maggior parte dei suoi territori con l’intento di conferir loro una comune cultura ed economia. Jean-Jacques Rousseau, per esempio, espresse scetticismo e perplessità[4] a proposito della possibilità che gli Stati europei potessero addivenire alla costruzione di una comunità basata su strutture repubblicane, mentre pensava potesse essere fattibile attraverso una dinamica rivoluzionaria. Rousseau riprende criticamente il manifesto dell’Abbé Charles Castel de Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle en Europe (1712)[5], che puntava a un «equilibrio di potere» (concetto di recente conio) tra le potenze, gli Stati e i principi europei, sancito da un «senato» (che, come visto, troveremo in Hugo) che servisse da istituzione regolatrice e coercitiva nei confronti di attori non allineati alla pace. Infatti, l’abate scrisse questa proposta e riflessione in vista dei negoziati di pace di Utrecht del 1713. Ancora una guerra, ancora un tentativo di sanare conflitti estendendo il metodo all’intero continente: la «guerra di successione spagnola» sconvolse l’equilibrio tra le varie casate reali e tinse di rosso la terra.

Molto autorevolmente, Immanuel Kant prospettò una federazione che raggruppasse gli Stati dell’Europa al fine di garantire la «pace perpetua», e la Lega repubblicana che egli proponeva prevedeva che l’adesione e l’eventuale rinuncia fossero libere da parte di ciascun paese.

Per Ortega y Gasset l’unità dell’Europa in quanto società non era soltanto un ideale, magari con tratti utopistici, quanto «una realtà consolidata nella vita quotidiana», da cui «la probabilità di uno stato generale europeo ne discende meccanicamente»[6]. S’unir ou mourir, come ebbe efficacemente a sintetizzare con il titolo di un volume Gaston Riou, quasi a marcare che le differenze tra le nazioni, tra gli Stati dell’Europa fossero in realtà più amplificate che reali[7]. Un punto secondo Federico Chabod rilevato anche da Machiavelli allorché enfatizza le «diversità» tra le nazioni europee e le altre più che quelle tra paesi dello stesso continente. E alla ricerca di una storia dell’Europa Chabod[8] ha dedicato pagine memorabili, ricostruendo il percorso del dibattito intorno al significato di «Europa» e riportando l’importante distinzione che nel corso del tempo è maturata tra elementi geografici/culturali ed elementi di tipo politico. Ed è proprio su questa distinzione, osserva Chabod, che concentra l’attenzione Machiavelli, svincolandone a tal punto il significato dal teorema religioso che lui la Christianitas «l’ha completamente dimenticata»[9]. L’Europa è il luogo della civiltà, della democrazia, e si distingue «dall’Asia», dagli altri, proprio in virtù della complessità, e tali differenziazioni sovrastano gli elementi di variabilità interna alle nazioni europee.

La fine della Grande guerra, del primo conflitto mondiale, che però ha basi, motivazioni, attori, e morti, principalmente in Europa, riapre, quando le sue ceneri sono ancora in aria, il dibattito sul futuro del continente, cui conferire un assetto federale, per salvarlo dalla belva, dal Cerbero delle armi e della distruzione. Tocca a un francese rilanciare il percorso di costruzione di un pensiero federalista: Aristide Briand, in qualità di ministro degli Esteri, esprime le idee sulla creazione di un «sistema di unione federale europea» parlando all’assemblea della Società delle Nazioni. È il 1929, la Società ha fallito nel vano tentativo di costruire una pace solida, e le fumanti macerie umane e materiali della guerra, e i nazionalismi rinascenti, annichiliscono le parole di uno dei futuri padri dell’Unione europea. Il deputato socialista, segretario dell’omonimo partito, più volte presidente del Consiglio dei ministri e futuro premio Nobel per la pace, va annoverato tra i precursori della futura integrazione europea. Il suo discorso pronunciato nel settembre del 1929 a Ginevra prefigurava l’unificazione europea perorando un «legame federale»[10]. Un progetto antesignano del futuro mercato comune, sotto l’egida della Società. La proposta di Briand avrebbe dovuto esser discussa in una conferenza di Stati europei, ma il risorgente nazionalismo e la crisi del ’29 spezzarono quel filo tessuto perché l’Europa si «unisse e prosperasse». Contro la guerra, la cieca omicida ferocia umana, ammonì anche un gigante come Thomas Mann, che vedeva nell’umanesimo militante lo strumento per la salvezza «contro la guerra, la catastrofe totale e la fine della civiltà»[11]. Lo stesso Mann sottolineò quanto fosse importante il contributo di Benedetto Croce che nella sua Storia d’Europa nel secolo decimonono biasimava il crescente nazionalismo diffusosi in Europa, che fino dal XIX secolo ad allora era stata la propaggine di libertà e progresso.

Persino pensatori rivoluzionari si sono confrontati con il dilemma tra sovranità nazionale e unificazione sotto il controllo di un unico Stato, in quel caso operaio. Lev Trockij[12] vedeva negli «Stati uniti sovietici d’Europa» la risposta alla necessità della rivoluzione permanente, da espandere in tutto il pianeta. E un grande socialista riformista come Filippo Turati individuava nell’Europa l’antidoto al fascismo, ossia all’anti-Europa. Evidentemente il riferimento all’Europa federale è diverso da quello inteso oggi, ma coincide con un afflato europeista che è poi incluso nell’internazionalismo socialista. Turati si scaglia contro l’ingresso nella Prima guerra mondiale e presenta un’iniziativa di pace con la mozione parlamentare simbolicamente promossa «per la salvezza d’Europa» (6 dicembre 1916)[13].

Nella breve parentesi che va dalla fine del primo conflitto all’inizio della Seconda guerra mondiale, le voci e il dibattito sull’Europa furono dunque soffocati e soggiogati dalla sirena nazionalista, dal revanchismo tedesco (la conferenza di Locarno, con Briand attore importante, provò a riavvicinare le parti per ridurre l’impatto delle sanzioni di Versailles sulla Germania), dal conflitto materiale tra operai e padroni, dalla nascita e proliferazione dei fascismi nel Sud Europa e dalla crisi economica. In questo tormentato periodo, prodromo all’ascesa del nazionalsocialismo e del conflitto mondiale 1939-1945, una voce notabile è quella di Richard Coudenhove-Kalergi. Il conte fondò il movimento paneuropeo, il primo davvero strutturato in questo senso. Animato dalla paura della dominazione ed espansione della Russia/Unione sovietica e dell’adesione ai quattordici punti pacifisti di Woodrow Wilson del 1918[14], Coudenhove-Kalergi lanciò il progetto paneuropeo che in qualche misura somigliava alla logica delle future sfere d’influenza definite a Yalta: cinque super Stati, di cui uno paneuropeo appunto che tenesse insieme i paesi europei e i loro addentellati coloniali, sebbene in pace. Il pensiero e l’attivismo di Coudenhove-Kalergi ebbero una vasta eco anche tra intellettuali e scrittori e influenzarono il Memorandum di Briand che rimase per anni presidente onorario dell’organizzazione Pan-europea.

La furia nazifascista rappresentò il culmine del nazionalismo e l’opposto quindi della prospettiva cooperativa, dell’integrazione, della federazione. Il pangermanesimo era la chiave del dominio di uno Stato su un altro, dell’espansione per annessione, per annichilimento dell’avversario, non certo per sua volontà e collaborazione. Milioni di morti, sfollati, rifugiati furono il risultato di sei anni di guerra totale, di civili massacrati. La conseguenza politica della guerra fu lo smantellamento definitivo di ogni traccia feudale, degli imperi, delle case regnanti e dei loro equilibri di potenza. L’intervento degli Stati Uniti, artefici del loro nuovo secolo di dominio mondiale quale forza egemonica, mutò la direzione del post conflitto, con l’Europa occidentale sotto la sfera di Washington e quindi la possibilità, e forse anche l’obbligo, di cooperare per superare l’abisso e rilanciare la strategia dell’integrazione. Un percorso non facile e non scontato, specialmente all’indomani dell’8 maggio 1945, giorno della resa incondizionata nazista, che segna sì la fine della belligeranza lasciando però sul campo strascichi di odio, rancori e incomprensioni, che sarebbero potuti scaturire in un nuovo focolaio di nazionalismo e di revanchismo e nel mito della «pugnalata» alle spalle che era stato il carburante della propaganda hitleriana. La classe dirigente più illuminata e progressista agì però rapidamente, lanciando un progetto ambizioso, proprio quello necessario in una fase drammatica: anziché provare a costruire un pezzo per volta, con una visione di breve termine, i «padri dell’Europa» futura pensarono ai prossimi cinquant’anni e stabilirono le basi per l’integrazione.

Paradossalmente, dunque, la guerra o, meglio, le due guerre, che avevano tenuto in ostaggio intere generazioni nell’arco di trent’anni, fecero emergere anticorpi e progetti di unione. Lo disse chiaramente, con consueta brillante retorica e abrasiva schiettezza, Winston Churchill nel celeberrimo discorso tenuto all’Università di Zurigo[15], nel quale perorava la necessità di un’Europa unita. Era il 1946 e Churchill, anche grazie alla sua maggiore libertà derivante dal non essere più a capo del governo, sottolineò l’importanza e si adoperò per costruire un «terzo» polo rispetto al duopolio russo-americano. Churchill pose al centro dell’operato in politica estera la riconciliazione franco-tedesca, necessaria per qualsiasi discorso di Europa unita e integrata. Nel suo intervento emergono argomenti logori, discussi in passato, ma che in questo caso assumono un rango centrale e hanno un impatto senza precedenti: il sostegno per la pacificazione franco-tedesca è alla base della futura federazione dei paesi dell’Europa occidentale, ossia quella esclusa dal giogo sovietico e su cui, come aveva detto qualche mese prima, era discesa una «cortina di ferro». La proposta di «un tipo di Stati Uniti d’Europa», che però non prevedeva il coinvolgimento della Gran Bretagna, rappresenta il punto di partenza della futura montante marea di opinioni a favore dell’Europa unita. Il calibro e il prestigio di colui che ne parlò, il momento in cui lo fece, la sua storia e la sua nazionalità contribuirono a generare e alimentare un dibattito fiorente. In quegli anni nacquero in tutta Europa varie associazioni militanti, movimenti, gruppi che beneficiarono dell’impatto del discorso di Zurigo per emergere dal loro isolamento mediatico.

 

Il progetto europeo dopo la Seconda guerra mondiale

Dal 1945 le tappe verso l’Unione europea sono state molte e l’impianto teorico su cui si sono basate ha fatto perno su diversi approcci. Da un lato le teorie federaliste, dall’altro una spinta alla cooperazione fra Stati europei proveniente dal contributo funzionalista.

L’approccio funzionalista prevede che il processo di integrazione si rafforzi allorché alcuni attori nazionali, ossia diversi Stati, mettano in comune risorse e condividono azioni e politiche. È quanto avvenuto nello specifico con i primi trattati istitutivi delle Comunità europee, che miravano appunto alla cooperazione prospettando benefici prevalentemente economici per ciascun contraente. I mutui vantaggi percepiti ed effettivi producono consenso, rafforzano i legami e consolidano il percorso di adesione e cooperazione. Con il passare del tempo le defezioni divengono svantaggiose tanto più se l’integrazione ha proceduto e si è radicata; basti pensare al caso Brexit e alle conseguenze drammatiche per il commercio e per i cittadini britannici che, (auto) esclusisi dal mercato comune, si sono ritrovati privati anche dei beni materiali più essenziali provenienti dai paesi del Sud Europa[16]. Il successo cooperativo e di integrazione in alcuni settori può di conseguenza produrre un effetto imitativo, di contagio, definito spesso spillover (tracimazione), ossia di estensione della cooperazione a nuovi ambiti in precedenza esclusi. Così come può portare anche all’inclusione di altri paesi, attratti dalla prospettiva di poter beneficiare in primis di vantaggi economici che, rimanendo fuori dalla comunità europea, non avrebbero.

Una chiara linea di adesione su basi funzionaliste si è avuta in tutte le fasi di allargamento dell’Unione, sin dagli anni Ottanta per i paesi del Sud Europa, da poco passati da regimi autoritari a regimi democratici, e anche per le repubbliche dell’orbita sovietica dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989.

La differenza non solo semantica, ma anche concettuale, politica e sostanziale tra teoria federalista e approccio funzionalista si ritrova anche in termini di distinzione temporale. I temi funzionalisti sono stati, con un gioco di parole, funzionali alla costruzione delle prime istituzioni europee, e quindi fanno riferimento soprattutto ai decenni immediatamente postbellici. Gli argomenti e gli incentivi materiali erano uno splendido grimaldello, un’importante leva per scardinare le porte nazionali(ste) e aprire a politiche cooperative. Seppure i due approcci non siano mutuamente esclusivi e non rappresentino prospettive opposte, e a volte agiscano contemporaneamente, è altresì vero che la spinta propulsiva del modello funzionalista è gradualmente scemata. All’adesione verso un modello di cooperazione e integrazione basato principalmente su una dimensione materiale, ha fatto seguito e/o si è affiancata una crescente richiesta per politiche sovranazionali, per una compiuta unione politica che, sebbene con diversi gradienti di specificazioni teoriche, possiamo riassumere nella prospettiva federalista.

La teoria del federalismo prevede che durante il percorso di unione emergano spinte per rafforzare la cooperazione e l’integrazione con alcuni passaggi fondamentali che mirano alla cessione di sovranità dagli Stati nazionali verso una nuova costituenda struttura. La quale, con un assetto federale, aggrega le parti aderenti che durante il percorso di costruzione del nuovo governo federale decidono di prendere parte all’entità sovranazionale. Oltre alla cessione di sovranità gli Stati aderenti si prefigurano l’obiettivo di ottenere maggiore prosperità economica e di avere un livello superiore di sicurezza – militare, geopolitica e in termini di diritti in senso lato[17]. Un esempio in tal senso proviene dall’adesione dei paesi dell’ex blocco sovietico e della domanda di entrare nell’Unione di vari paesi dei Balcani[18].

L’argomento principale dei federalisti ha riguardato proprio la necessità di unire le proprie economie per accrescere il benessere materiale e sociale e di rafforzare i singoli Stati attraverso una nuova entità – federale – che costituisse un’inibizione rispetto a possibili aggressioni esterne ovvero a conflitti intraregionali. Sia nel post Prima guerra mondiale sia durante la Seconda guerra mondiale – si pensi al richiamato Manifesto di Ventotene – e nella fase di ricostruzione post-bellica, l’argomento dell’unità è stato il deterrente per future guerre e garanzia di maggior forza economica e militare: unirsi per costruire la pace.


[1] Les Etats Unis d’Europe era l’organo ufficiale della Lega per la Pace e la Libertà fondata nel 1867 da, tra gli altri, Giuseppe Garibaldi, lo stesso Hugo, John Stuart Mill e Fëdor Dostoevskij.

[2] Traduzione ripresa da Victor Hugo, la pace e gli Stati Uniti d’Europa, «Atlante Treccani», 4 aprile 2019.

[3] Alessandro Barbero, Carlo Magno. Un padre dell’Europa, Laterza, Roma-Bari 2004. Sulle varie personalità che hanno contribuito all’«idea» di Europa si veda Louis Godart, Europa. Nascita e affermazione di una civiltà, Codice, Torino 2014.

[4] Jean-Louis Lecercle, L’abbé de Saint-Pierre, Rousseau et l’Europe, in Dix-huitième Siècle, 25, L’Europe des Lumières, 1993, pp. 23-39.

[5] Testo integrale disponibile a questo indirizzo.

[6] José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, trad. it., il Mulino, Bologna 1984 [ed. originale La rebelión de las masas, Revista de Occidente, Madrid 1929].

[7] Giuseppe Mammarella e Paolo Cacace, Storia e politica dell’Unione europea, Laterza, Roma-Bari 2008.

[8] Chabod, Storia dell’idea d’Europa, Laterza, Roma-Bari 2003.

[9] Chabod, Storia dell’idea d’Europa, op. cit., p. 50.

[10] Il 17 maggio 1930 Briand pubblicherà un dettagliato Mémorandum sur l’Organisation d’un Régime d’Union Fédérale Européenne, il documento è disponibile a questo indirizzo.

[11] Thomas Mann, Avertissement à l’Europe, «La Sentinelle. Quotidien Socialiste», 27 dicembre 1937.

[12] Lev Trockij, «Le condizioni sono mature per la parola d’ordine “Stati uniti d’Europa”», «Pravda», 30 giugno 1923. Per un approfondimento del dibattito tra rivoluzionari russi si veda «Le Monde Diplomatique», aprile 2023, p. 3.

[13] Filippo Turati, Per gli Stati Uniti d’Europa, a cura di Pier Carlo Masini, Roma, Armando Editore, 1980 (nuova ed. Roma, Armando Editore, 2022). Il resoconto originale della seduta è disponibile a questo indirizzo. 

[14] Si veda la pagina The Fourteen Points. Woodrow Wilson and the U.S. Rejection of the Treaty of Versailles sul sito del National World War Museum and Memorial a questo indirizzo.

[15] Si veda la pagina Winston Churchill: un appello per la creazione degli Stati Uniti d’Europa sul sito dell’Unione europea a questo indirizzo.

[16] Gianfranco Baldini, Edoardo Bressanelli e Emanuele Massetti, The Brexit Effect. What Leaving the EU Means for British Politics, Routledge, Taylor & Francis Group, Londra-New York 2023.

[17] Sul processo di costruzione degli Stati federali si veda, tra gli altri, l’efficace teorizzazione di William H. Riker, Federalism: Origin, Operation, Significance, Boston, Little, Brown, and Co., Boston 1964.

[18] Federico Savastano, Trasformazioni costituzionali nell’allargamento dell’Unione europea, Giappichelli, Torino 2023.

Scritto da
Gianluca Passarelli

Professore ordinario di Scienza politica alla “Sapienza” Università di Roma. Scrive per «il Corriere della Sera», «Domani» e «Huffington Post». Tra le sue numerose pubblicazioni: “Stati Uniti d’Europa. Un’epopea a dodici stelle” (Egea 2024), “Il Presidente della Repubblica in Italia” (Giappichelli 2022), “Eleggere il Presidente. Gli Stati Uniti da Roosevelt a oggi” (con Francesco Clementi, Marsilio 2020), “Preferential Voting Systems. Influence on Intra-Party Competition and Voting Behaviour” (Palgrave Macmillan, 2020) e “La Lega di Salvini. Estrema destra di governo” (con Dario Tuorto, il Mulino 2018).

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