“Gli uomini e la storia” di Claudio Pavone, a cura di David Bidussa
- 18 Aprile 2023

“Gli uomini e la storia” di Claudio Pavone, a cura di David Bidussa

Recensione a: Claudio Pavone, Gli uomini e la storia. Partecipazione e disinteresse nella storia d’Italia, a cura di David Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino 2020, pp. 240, 18 euro (scheda libro)

Scritto da Roberto Mussinatto

9 minuti di lettura

Reading Time: 9 minutes

Il volume curato da David Bidussa per Bollati Boringhieri raccoglie cinque articoli scritti da Claudio Pavone in momenti diversi della sua carriera e rappresentativi, per ammissione del curatore, non tanto di tutta la vasta produzione dello storico romano, quanto degli snodi principali del suo pensiero. Bidussa, infatti, si propone di fornire ai lettori un piccolo «laboratorio di storia contemporanea» (p. 9), e cioè la possibilità di esplorare temi e metodi della ricostruzione storica, nel cruciale passaggio dalla memoria dei fatti allo studio di essi e dei comportamenti e delle azioni umane che li hanno prodotti; gli uomini e la storia, appunto.

Gli articoli sono stati selezionati a partire da cinque temi che Bidussa indica come fondamentali nel pensiero di Pavone: le due coppie delusione/malinconia e continuità/discontinuità, la cosiddetta «zona grigia», il totalitarismo, la memoria e le cose. A ciascuno corrisponde uno dei contributi di Pavone, nel quale essi sono approfonditi da domande che guardano contemporaneamente al passato e al presente. È infatti caratteristica della riflessione dello storico romano quella di saper interrogare con lucidità il passato avendo ben chiari i nodi, le domande e i problemi che connotano il proprio presente.

Alla coppia delusione/malinconia corrisponde l’articolo che Pavone dedicò nel 1964 alla crisi della democrazia risorgimentale, letta attraverso l’esperienza di mazziniani, garibaldini e internazionalisti delusi dalla soluzione monarchica e sabauda della lotta per l’Unità d’Italia. Seguendo il travaglio di questa parte politica, Pavone registra come la delusione per l’assetto del nuovo Stato nazionale fosse tanto più grande quanto «il riscatto patriottico era sentito come più profondo e integrale riscatto, come fondazione, sulle ceneri del dispotismo italiano e straniero, di una nuova moralità civile e politica e quindi […] di una nuova cultura» (p. 28). Da qui la sempre maggiore convinzione, nei mazziniani delusi dal loro stesso capo, nei garibaldini più irrequieti, nei primi internazionalisti – i quali daranno poi vita al primo Partito Socialista Italiano – che quella risorgimentale era stata una rivoluzione mancata, in cui era sì cambiato l’assetto politico della Penisola ma non la vita ordinaria dei suoi abitanti, che rimanevano socialmente e culturalmente tali e quali a prima; questa seconda rivoluzione attendeva ancora di essere compiuta.

Una simile delusione percorre anche il contributo seguente e che Bidussa pone sotto la coppia continuità/discontinuità. Esso è uno dei testi più noti di Pavone, in cui egli analizza gli elementi di continuità dello stato italiano attraverso il fascismo muovendosi su due piani, quello di vertice, che riguarda sia la continuità legale fra lo Stato post-unitario, quello fascista e quello repubblicano, sia la legittimità della discendenza fra il Regno e la Repubblica, e quello più profondo degli apparati burocratici e degli enti statali e parastatali. Come nota Bidussa, in questo articolo Pavone assume la continuità come «categoria interpretativa storiografica» (p. 19), adoperandone in questo modo tutto il potenziale conoscitivo. Nella minuta analisi del comportamento e delle scelte di personalità politiche, partiti, istituzioni e corpi dello Stato, Pavone fissa tre fattori come principi di continuità fra stato fascista e repubblica: vischiosità della burocrazia; diffidenza degli apparati nei confronti di cittadini e militanti che stavano costruendo la nuova realtà politica; assenza cronica del pieno impiego e debolezze strutturali dell’economia italiana. La compresenza di questi tre fattori, da una parte, pose un freno agli slanci democratici rivoluzionari o riformatori delle forze antifasciste, dall’altra diede spazio a quelle forze ancora fasciste che volevano il mantenimento dello status quo anche al di sotto della forma repubblicana dello Stato. Sembra così emergere ripetutamente una tensione fra il desiderio e il progetto di rinnovamento democratico della società e le condizioni della vita ordinaria del Paese e dei suoi cittadini.

Nei successivi due articoli, dedicati rispettivamente alla «zona grigia» e alla riflessione sul totalitarismo, Pavone pone al centro del proprio discorso la vita e le scelte dei singoli cittadini, esplorando nel primo caso le caratteristiche della «zona grigia» e il suo lascito nella società dell’Italia repubblicana, nel secondo i caratteri dello Stato fascista come Stato a tutti gli effetti totalitario. L’elemento forse più innovativo della proposta di Pavone è di considerare come oggetto di studio non tanto le politiche attuate, costruendo dunque un elenco di condizioni il verificarsi delle quali rende un regime totalitario o meno, bensì il rapporto fra lo Stato e i cittadini. Riferendosi al fascismo italiano, Pavone nota come obiettivo del regime fosse quello effettivamente di «mettere a regime la società italiana», nel senso che nulla doveva essere difettoso o funzionare diversamente da come voleva il partito. Sotto questo punto di vista, allora, anche lo Stato fascista italiano, nonostante le approssimazioni, le negligenze e le inerzie, era totalitario, poiché esprimeva – come affermò Mussolini stesso – una «feroce volontà totalitaria» (p. 164) verso l’intera società, che doveva essere forgiata a somiglianza dell’ideologia del partito. Da qui la riflessione sulla «zona grigia» assume una particolare rilevanza, poiché quest’ultima risulta essere stata uno dei prodotti del sistema di oppressione stesso del regime totalitario: in essa, infatti, si trova chi aveva accettato il potere costituito o per amore dell’ordine, o per non assumersi la responsabilità di una scelta chiara pro o contro il regime. È qui, e nella memoria che essa ha di sé, che si può misurare quanto le aspirazioni totalitarie di un regime si siano davvero realizzate.

Nell’ultimo articolo, che corrisponde alla coppia memoria/cose, si ritrovano due nodi centrali della riflessione storiografica di Pavone, che erano emersi sottotraccia anche negli altri contributi: il rapporto con le fonti e il ruolo della narrazione. Davanti all’imperativo di raccogliere e ordinare tutto ciò che può servire da fonte per il passato, lo storico è costretto a riflettere sul senso della propria azione e a chiarirne, a se stesso e alla comunità cui si rivolge, il metodo e il fine. Infatti, conservare, ordinare e rendere fruibile agli specialisti e al pubblico il materiale non è un’azione neutra, bensì contribuisce a costruire un racconto che contemporaneamente rimanda all’identità di una comunità e ispira ad agire. Inoltre, lo storico si trova già di per sé di fronte ad una narrazione: chi ha prodotto le fonti, infatti, lo ha fatto per precisi scopi e costruendo egli stesso un proprio racconto della realtà. La ricerca storica, allora, si gioca nello spazio fra la narrazione “nel passato” di chi ha prodotto i documenti e quella “nel presente” di chi legge le fonti e a partire da esse ricostruisce il passato. Per questo motivo la conoscenza storica non può essere separata da una riflessione sulle forme della narrazione e ha, nei suoi aspetti performativi, una natura intrinsecamente politica.

Ai temi chiave individuati da Bidussa si aggiunge, ad avviso di chi scrive, un’ulteriore categoria che si ritrova in tutta la riflessione storica di Pavone: quella dell’ordinarietà. Prima di tutto, dal punto di vista storiografico, essa significa un’attenzione continua per la vita e le azioni delle persone ordinarie, che si sostituisce a quella per le istituzioni e i loro cambiamenti nel tempo. Pavone sembra porsi continuamente, a volte in maniera esplicita, altre implicita, il problema di dare alle masse una propria soggettività, senza scadere nelle generalizzazioni ma operando le dovute distinzioni. Egli, infatti, ritiene che siano rilevanti, in sede storiografica, gli ideali e i progetti che hanno orientato le scelte dei singoli e dei gruppi, e che quindi fondamentalmente distinguono, all’interno della “massa” degli individui, gli atteggiamenti e le azioni di ciascuno nei confronti degli eventi. Per questo studiare la «zona grigia», ad esempio, significa non tanto trovare una categoria entro cui far rientrare chi né aveva partecipato alla Resistenza, né aveva collaborato con la Repubblica Sociale, magari assegnando a essa una sfumatura moralizzante, bensì comprendere le diversità di atteggiamento e di progettualità che avevano alimentato una scelta di “disimpegno” rispetto alla lotta di liberazione nazionale.

Dal punto di vista storico, invece, il concetto di ordinarietà ritorna spessissimo nella storia dell’Italia unita e, come scritto in precedenza, emerge nella riflessione di Pavone quasi come un polo opposto a quello dei tentativi rivoluzionari e riformatori della società italiana. Tre esempi tratti dai contributi raccolti nel volume possono chiarire cosa si intenda.

Nell’analisi dello storico romano sulla delusione dei democratici e repubblicani risorgimentali, la preoccupazione per un veloce ritorno all’ordine è forse lo scoglio principale contro cui si infransero le speranze e i progetti di questa parte politica. Infatti, concluse nel 1860 le Guerre d’indipendenza e proclamata l’Unità nel 1861, i mazziniani e i garibaldini si ritrovarono al di fuori dell’élite dirigente del nuovo Stato, la quale si adoperava per riportare in tutto il Regno le condizioni per un tranquillo svolgimento della vita ordinaria. Davanti alle richieste di trasformazione sociale del Paese da parte dei democratici, la classe politica post-risorgimentale proponeva invece il principio di garantire al nuovo Stato un funzionamento stabile e che uscisse il più possibile dalla situazione di emergenza bellica.

Anche durante la Resistenza la categoria di ordinarietà agì come fattore stabilizzante davanti alle istanze di trasformazione sociale e politica più radicali. In particolare, tra il 1943 e il 1945, essa servì a garantire la continuità del potere e dello Stato nella situazione caotica post-armistizio. Esaminando i rapporti fra i Comitati di Liberazione Nazionale, il governo di Salerno e l’Allied Military Government, Pavone nota come la categoria di ordinarietà fu usata dal governo regio per affermare la propria autorità sia sui CLN, di fatto bloccando l’esperienza di governo decentralizzato che essi rappresentavano, sia rispetto all’AMG, di cui si proponeva come il principale interlocutore. Preoccupazione del governo, infatti, era quella di ripristinare nel più breve tempo possibile il normale funzionamento delle istituzioni nei territori liberati, evitando da una parte accelerazioni rivoluzionarie, dall’altra lo sgretolamento dell’apparato statale e la sua sostituzione con un pieno governo alleato, in ottica anche di presentare l’Italia non più come forza nemica, ma come Stato cobelligerante. Tale obiettivo fu perseguito in particolare attraverso la nomina dei prefetti e il veloce rafforzamento del loro potere: nella maggioranza dei casi, il governo regio confermò nella loro carica i prefetti fascisti, spesso contraddicendo le nomine prefettizie emanate dai CLN e confermate dall’AMG, con l’intenzione di riguadagnare in questo modo velocemente il pieno controllo del territorio (pp. 128-136). Il mantenimento in carica dei prefetti di nomina fascista fu giustificato, nota Pavone, anche a partire dal concetto di «continuità dei pubblici servizi», che rimanda anch’esso alla categoria di ordinarietà – del servizio pubblico fornito dall’amministrazione statale, in questo caso – e che giocò un gran ruolo nel riassorbimento dei quadri e dei provvedimenti stessi della Repubblica Sociale nello stato repubblicano (pp. 86-91). Da parte loro, anche i CLN si trovarono a fare i conti con il problema dell’ordinarietà: in particolare le repubbliche partigiane, scrive Pavone, ebbero difficoltà nel trovare un «equilibrio fra spinte innovatrici e all’autogoverno, e desiderio di dare la sensazione che la “normalità” veniva per quanto possibile restaurata e rispettata» (p. 73).

Tra il 1945 e il 1948, invece, la categoria di ordinarietà si impose ai partiti che cercavano un consolidamento della propria base di massa. Come Pavone nota con lucidità analizzando il dibattito sulla natura e le funzioni dei CLN, sia la Democrazia Cristiana, sia il Partito Comunista si trovarono sospesi fra la possibilità di raggiungere i propri obiettivi ideologici e il presentarsi come forze “di governo”, capaci cioè di provvedere alle necessità della vita ordinaria dei cittadini. Il Partito Comunista visse in modo particolare la tensione fra queste due posizioni: infatti, se prima della Liberazione aveva vagheggiato l’idea dei CLN come strumenti di potere rivoluzionario, dopo il partito scelse una strada alternativa, vedendo nei CLN centri di potere effettivo attraverso cui rispondere ai bisogni della vita ordinaria dei cittadini e così radicarsi a tutti i livelli della società civile e ampliare il più possibile la propria base di massa (p. 79). La Democrazia Cristiana, da parte sua, attuò da subito una tradizionale politica di centro: sapendo che anche un movimento conservatore moderato aveva bisogno del suo radicamento di massa, sposò allo stesso tempo posizioni filo- e antistatali: le prime le garantivano i voti di chi temeva o la rivoluzione per mano dei comunisti o le innovazioni sociali proposte dalle élite intellettuali, le seconde invece le garantivano i voti di chi, contadino o borghese che fosse, mal sopportava lo statalismo fascista (pp. 77-78).

Le valutazioni dei partiti non furono però guidate da semplice calcolo politico: esisteva infatti nel Paese la richiesta forte di un ritorno all’ordine, proveniente in particolare da quella «zona grigia» che durante la lotta resistenziale non si era schierata apertamente né a favore né contro il fascismo e che era disponibile ad accettare qualsiasi potere, purché garantisse ordine e stabilità (p. 147). Fu dunque l’assorbimento della «zona grigia» nei quadri dell’assetto democratico e antifascista che pose con più urgenza ai partiti la necessità di confrontarsi con la categoria di ordinarietà: se volevano rivolgersi anche a questo settore della cittadinanza, essi dovevano presentarsi come i portatori dell’ordine dopo il caos della guerra. Per far questo, i due partiti maggiori scelsero strade diverse ma parallele: la Democrazia Cristiana si fece interprete di un’immagine patriottica della Resistenza, in cui la lotta contro il nazifascismo assumeva il valore di lotta per la liberazione dall’oppressore straniero, mentre il Partito Comunista scelse di coniugare il massimo della purezza ideologica con il massimo del pragmatismo, presentandosi così allo stesso tempo come forza rivoluzionaria e credibile partito di governo, attento al mantenimento dell’ordine e della pace sociale (p. 153). Tali scelte permisero effettivamente ai partiti di raggiungere l’obiettivo di consolidarsi come partiti di massa, radicati a tutti i livelli della società civile, ma, accelerando il ritorno all’ordinario, furono anche deboli contro le resistenze al rinnovamento da parte degli apparati statali più fascistizzati (pp. 104-127) e favorirono il sedimentarsi di una memoria del fascismo e della Resistenza solo superficialmente pacificata, rallentando e rendendo più problematico il doveroso lavoro di elaborazione collettiva del periodo fascista (pp. 121, 153).

Quest’ultima considerazione evidenzia il problema fondamentale posto dalla categoria di ordinarietà così come esplorata da Pavone, e cioè l’uso che ne è stato di volta in volta compiuto. Infatti, per quanto in generale essa abbia rappresentato un fattore di blocco del cambiamento sociale, tuttavia ciascun gruppo politico l’ha usata in maniera differente, impiegandola sia per giustificare il mantenimento dello status quo, sia per sostenere graduali mutamenti. Lo stesso fascismo, nella sua strada verso il potere, usò la categoria di ordinarietà per legittimarsi come fattore stabilizzante di un quadro che egli stesso aveva contribuito a destabilizzare, presentandosi come restauratore dell’ordine che la stessa violenza squadrista aveva contribuito a rompere – come scrive Pavone, esso era Behemoth e Leviathan, il caos e l’ordine (p. 165). La categoria di ordinarietà si rivela dunque duttile e strettamente legata all’uso che ciascun gruppo o leader politico ne ha fatto, piegandola ai propri fini e alle esigenze dettate dalla contingenza. Ciò rimanda alla sfera della moralità come intesa da Pavone, e cioè «il territorio sul quale si scontrano la politica e la morale, rinviando alla storia come possibile misura comune» (p. 8). In questo senso, essa si presenta come un concetto storiografico cardine, poiché riconduce alle scelte, ai progetti e alle idee degli uomini, delle donne e dei gruppi il motore della storia, ponendoli quindi al centro della ricerca e dell’analisi storica.

Da questo punto di vista, allora, la storia d’Italia che emerge dal lavoro di Claudio Pavone si rivela non tanto quella del mutamento delle istituzioni, ma più profondamente quella di una società intera, pervasa da spinte innovatrici e resistenze conservatrici che trovano nelle scelte dei singoli e dei gruppi di volta in volta la loro drammatica manifestazione o la loro difficile ricomposizione. Di fatto, la prospettiva morale che Pavone assume (e che sarà lo spunto interpretativo cardine del suo saggio sulla Resistenza, Una guerra civile) si ricollega alla dimensione più pienamente politica di qualsiasi società e di qualsiasi ricostruzione storica, nella misura in cui la politica riguarda i progetti, le idee e le scelte che ciascuno compie nella propria vita ordinaria di cittadino.

Scritto da
Roberto Mussinatto

Nato nel 1996, studia Storia all'Università di Torino, dove si sta laureando con una tesi in Storia medievale. Si interessa di storia e politica, con particolare riguardo alla crisi della democrazia contemporanea.

Pandora Rivista esiste grazie a te. Sostienila!

Se pensi che questo e altri articoli di Pandora Rivista affrontino argomenti interessanti e propongano approfondimenti di qualità, forse potresti pensare di sostenere il nostro progetto, che esiste grazie ai suoi lettori e ai giovani redattori che lo animano. Il modo più semplice è abbonarsi alla rivista cartacea e ai contenuti online Pandora+, è anche possibile regalare l’abbonamento. Grazie!

Abbonati ora

Seguici