Scritto da Salvatore Biasco
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Pubblichiamo questo testo tratto dall’introduzione, riveduta dall’autore, di Salvatore Biasco al seminario “Governare la società post-Covid” svoltosi il 28 dicembre nell’ambito del ciclo “Ripensare la cultura politica della sinistra” promosso insieme ad Alfio Mastropaolo e Walter Tocci e dedicato alle politiche di governo nella società dopo il Covid-19.
Qui i link ad alcuni degli interventi al seminario “Governare la società post-Covid”: Sinistra e critica radicale. Intervento di Carlo Galli; Quale modello di capitalismo per l’Italia? Intervento di Ugo Pagano; Un Paese sempre più disuguale. Intervento di Gianfranco Viesti; Il Mezzogiorno e i “fiori del deserto”. Intervento di Enrica Morlicchio; La missione delle imprese pubbliche. Intervento di Massimo Florio
Gli incontri di questo ciclo si sono svolti interrogando l’agenda della sinistra all’insegna di una rilegittimazione del pensiero critico. Il centro, allora come oggi, è una riflessione volta a capire l’attrezzatura con la quale è possibile governare le trasformazioni da un punto di vista “socialista”.
In questo incontro viene ripreso quel ciclo, grazie a Walter e Alfio, affrontando il tema del governo della società post Covid. È una questione che include varie temi relativi a politica, società, indirizzi di fondo, utilizzi del Recovery Fund. Sarebbe un gran successo arrivare in questo incontro ad una mappatura dei problemi e delle indicazioni dei percorsi programmatici che si aprono, per cui non vi è riflessione che sia fuori tema e questa introduzione, come pure la nostra nota di presentazione dell’incontro, sono solo indicazioni di massima di argomenti che possono avere rilievo.
Pandemia e cambiamento
Il Covid ha acuito – e quindi reso ancor più evidenti – i difetti, i limiti e le storture di questa organizzazione della società e dei suoi principi ordinatori. Nell’intero mondo occidentale siamo al momento di fare delle scelte e in Italia di voltare pagina riguardo al declino del Paese e alla inaccettabile situazione sociale. Dobbiamo immaginare una nuova stagione oltre le logiche esistenti, perché il ripristino della società pre-Covid ci porterebbe in una terra di nessuno… È ciò va fatto nella tradizione migliore della sinistra, quando, cioè, si è mostrata capace di forzare la realtà traendone le idee forza per quel percorso di trasformazione di cui nei momenti più alti è stata protagonista. Se vogliamo usare una parola forte dobbiamo pensare a una ridefinizione del compromesso sociale.
Il Covid avrà conseguenze durature e molti aspetti della società saranno sottoposti a tensioni per il cambiamento, a partire dal modo in cui sarà concepito e organizzato il diritto alla salute. Oltre questo i temi più rilevanti riguardano il ruolo della Stato, l’organizzazione e la protezione del lavoro, l’approccio verso la rivoluzione tecnologica, il futuro della democrazia, i rapporti tra generazioni, i modelli di consumo, la libertà di azione del capitalismo, la distribuzione della ricchezza. Questi sono gli aspetti più esposti al cambiamento, ma andrebbero ricordati anche, su un altro piano, il comportamento personale e i rapporti umani, anche se, come scriviamo nella presentazione, quel grado di sentimento di responsabilità e solidarietà che si è sviluppato in questa pandemia potrebbe non durare. Su tutti questi capitoli un punto di vista “socialista” va tenuto con forza.
I pilastri di uno Stato forte
Vi sono poche illusioni che si possa andare da qualche parte senza uno Stato autorevole che sappia quali siano i suoi obbiettivi di fondo circa l’ordine sociale e abbia la necessaria volontà politica.
Forse il centro della discussione è proprio questo, la ricostruzione della forza dello Stato, anche se oggi è caduta l’idea che conquistando il governo sia di per sé possibile determinare una discontinuità qualitativa, apportare riforme strutturali al capitalismo e determinare un mutamento dei rapporti di forza fondamentali.
Non a caso abbiamo voluto mettere in evidenza nelle nostre note che questa forza viaggia soprattutto sulle gambe di una mobilitazione politica capace di rompere le logiche unilaterali cui portano i rapporti di forza esistenti e la cultura dominante. Viaggiano, cioè, sulla forza di organismi collettivi della società civile (partiti, cittadinanza attiva, sindacati) che fungano da potere controbilanciante rispetto a il potere dispositivo dei soggetti privati più forti, nonché sull’estensione della partecipazione attiva degli attori alla vita economica e sociale. Ma viaggiano anche sulle gambe di un apparato amministrativo capace di essere il braccio esecutivo di uno Stato che riprende il suo posto centrale.
Non occorre insistere molto sui corpi intermedi. Lo stato dei partiti e del sindacato, nonché i limiti dell’incidenza politica dei movimenti, sono noti. Riflettere su come superare questi limiti è un buon punto di discussione. Il problema è che ciascuno di questi soggetti dipende dalla forza dell’altro e tutti hanno oggi bisogno di uno spazio nella sfera pubblica per affermarsi.
Mi limito solo a dire, per non sorvolare del tutto sull’argomento, specie dopo un’affermazione pessimistica:
– che non si sono dispersi del tutto i quadri disposti a spingere per un partito della sinistra che assuma su di sé la nuova questione sociale, abbia un ruolo di indirizzo politico (che è cosa diversa dall’organizzazione del consenso e dell’aspirazione a un’ordinaria buona amministrazione) e sia un riferimento nazionale di prospettiva di una grande politica (quando è l’Unione stessa ad aver posto questo orizzonte);
– che il sindacato, per quanto ridimensionato e con tutta la fatica che fa a ricomporre la rappresentanza del lavoro, a contrastare il precariato e misurarsi con le piattaforme e gli algoritmi (e a por tutto questo dentro un progetto per la società), esiste e ancora e una funzione difensiva la svolge;
– che sarà pur possibile per l’associazionismo di cittadinanza trovare la via della politica e trasformarsi in un progetto per la società, uscendo dal perimetro delle esperienze singole e trovando un qualche referente politico che dia orizzonte e lo tenga insieme.
La Pubblica Amministrazione
Mentre non tutto è perduto su quei fronti (anche se è difficile essere ottimisti), per la PA siamo di fronte a un vero e proprio collasso, che riguarda tutta la macchina amministrativa, non solo i livelli alti. La politica se ne è occupata a suon di semplificazioni, tornelli o similia. Non è questione di sveltimento degli iter burocratici, di semplice informatizzazione dei rapporti coi cittadini (che pure è carente) o di silenzi-assenso, ma di un vero e proprio cambio organizzativo, strutturale, di organizzazione del lavoro, che la porti a lavorare per obiettivi, acquisire capacità di scelta e direzione dei processi, senza la quale è difficile pensare alla messa in atto di politiche pubbliche ambiziose. Occorre identificare le diverse missioni che attengono a parti diverse del settore pubblico, rinunciando all’uniformità organizzativa, contrattuale, di organizzazione del lavoro e di struttura delle responsabilità decisionali dell’Amministrazione preposta. Da qui far partire una selezione della dirigenza e dei quadri con professionalità adeguata ai singoli obiettivi dopo anni di disinvestimento sulle persone, depauperamento del settore pubblico di professionalità di alto profilo e svalorizzazione del senso e del prestigio della missione pubblica. Quinci, una rotta invertita di cui è presupposto indispensabile che oggi si punti all’obbiettivo di riportare una nuova generazione, altamente qualificata, nei ranghi del settore pubblico secondo esigenze delle singole missioni e secondo una mappa delle professionalità esistenti e mancanti (che non c’è). Ce ne siamo accorti con i medici, ma anche con le tante opere lasciate a metà o mai iniziate perché manca addirittura chi possa fare i progetti.
È una rivoluzione copernicana che deve poggiare anche su una rimotivazione dello spirito pubblico, per la quale è necessaria una volontà politica.
Riscoperta dei poteri dello Stato
È pur vero che nonostante tutto, lo Stato ha riscoperto in questa fase e usato poteri (perfino sotto l’ombrello europeo) che solo cinque anni fa sarebbero stati inimmaginabili.
Nell’emergenza del coronavirus abbiamo sancito che lo Stato può intervenire nei contratti privati (il blocco dei licenziamenti), fissare i prezzi di beni essenziali (le mascherine), requisire fabbriche a fini collettivi (per produrre mascherine), interferire nella libera disposizione delle proprietà (golden rule). Devo dire che sono rimasto colpito da un resoconto che Arcuri ha dato in un articolo di luglio su «IlSole24Ore» di come si è agito durante la prima ondata di pandemia. Allo scoppio non si produceva in Italia né la stoffa per le mascherine, né le macchine per produrle, né il materiale filtrante, e nemmeno gli elastici. Si è chiesto allora a due imprese di automazione di sviluppare l’ingegneria atta a produrre le macchine, la cui produzione vera e propria è stata affidata a eccellenze industriali. Quelle macchine sono state allocate con gli incentivi a un certo numero di produttori di mascherine, che hanno fatto investimenti allo scopo. Simile procedura per il materiale filtrante. I ventilatori polmonari erano prodotti da una sola fabbrica, poche decine alla settimana per l’esportazione. Dopo poche settimane si è iniziato a quadruplicare la capacità produttiva dell’unico produttore e si è attivata la filiera di imprese per la componentistica dei diversi sistemi che costituiscono un ventilatore, con il coinvolgimento di ingegneri del Genio Militare in collaborazione con FCA. Morale: dopo quattro mesi dalla Costituzione del Commissario straordinario all’emergenza si producevano milioni di mascherine senza importare né una mascherina né un ventilatore. Voglio pensare che sia andata proprio così.
Occorrerebbe non arretrare da questo ruolo e principi usandoli intelligentemente per guidare l’economia in due direzioni. La prima per creare le condizioni di una ambiente sociale più vivibile; l’altra per guidare e promuovere una politica industriale basata su principi di sostenibilità ambientale e sociale, la produzione di beni collettivi, la diffusione delle infrastrutture informatiche.
Il tutto con una stella polare che faccia della partecipazione e della connessione tra cittadini il connotato fondamentale del vivere sociale e del tessuto democratico, valorizzando le comunità, associando organizzazioni specifiche di cittadinanza attiva nelle politiche pubbliche, valorizzando il ruolo dei corpi intermedi e promuovendo la rappresentanza, delegando a Fondazioni gestite da cittadini il governo di alcuni beni comuni, servendosi di consulte, premiando il mutualismo o ciò che unisce le persone (o enti) per scopi coerenti con finalità collettive, promuovendo la costruzione di forme di controllo e valutazione dal basso dell’azione pubblica, sollecitando l’assunzione di responsabilità collegiale degli attori collettivi attraverso patti sociali costruiti nel tessuto istituzionale.
Territorio
Sul primo fronte, quello di un ambiente sociale più vivibile, penso che qualcuno parlerà di come affrontare le disuguaglianze di reddito e di garanzie, che sono diventate palesi in questa pandemia. Non illudiamoci che questo non richieda una certa radicalità.
Le disuguaglianze che sono emerse con prepotenza (anche nella coscienza collettiva) in questa pandemia non sono, però, solo quelle di reddito, ma di protezione sociale (coloro che sono rimasti senza reddito: part-time vari, precariato, lavoro nero, piccola imprenditoria), di fruizione dei servizi sociali (scuola, casa, sanità, pensiamo a quanto patologie diverse dall’infezione pandemica siano state non curate se non nella sanità privata, all’isolamento che ha costretto alcune famiglie in case piccoli in periferie anguste, pensiamo a quanto differenziato sia l’accesso alla conoscenza che ormai va riconosciuto come diritto universale). Sono tutti elementi dell’inaccettabile modo in cui si è sviluppato il capitalismo.
Bisogna combattere l’idea che ci sia un trade-off tra coesione sociale e dinamismo economico. Quanti interventi sovrappongono la necessità di una prossima ripresa dell’economia a una del miglioramento della vita sociale? Tutta l’infrastrutturazione sociale, ad esempio. È un campo di diritti, anche se meno visibili perché non si esprimono – almeno da tempo – in termini di conflitto, che ciononostante va seriamente preso in considerazione in una visione socialista. Avvicinandosi a un loro soddisfacimento, lo Stato può farne un driver di crescita produttiva, occupazionale, di innovazione, di mobilitazione sociale.
Faccio un solo esempio, relativo ai diritti di cittadinanza legati al territorio. Penso a un piano di edilizia popolare saldamente collegato a un progetto di rigenerazione urbana e di risanamento delle periferie. Si tratta di rigenerare un habitat in modo dignitoso per tutti. Non può essere delegato solo ai sindaci.
Si può per esempio andare oltre gli asfittici e scoordinati bandi per le periferie delle città e produrre in coordinamento con gli enti locali una vera e propria agenda urbana nazionale che riguardi in primo luogo la riqualificazione di aree già urbanizzate, ma cementate e grigie, in posti degradati, requisendo edifici dismessi o sottoutilizzati, rimettendo in gioco un patrimonio dismesso o a rischio degrado, progettando la connessione al centro cittadino, alla smart city in un progetto di mobilità razionale.
Perché partecipato? Perché va costruito con la partecipazione e condivisione attiva dei cittadini che partecipano e co-progettano con i propri architetti e urbanisti e associazioni, visto che gli abitanti debbono essere spostati (temporaneamente o definitivamente ma in situazioni migliori) mentre si ristrutturano accorpano, dividono le loro case, vengono abbattuti palazzi per creare piazze, immaginati spazi e servizi comuni (inclusi quelli per il tempo libero, biblioteche, lavanderie), creati servizi sociali estesi di prossimità immaginati portali di quartiere e reti di comunità che rimangono come stimolo di relazioni sociali. Il tutto ovviamente senza consumo di suolo (anzi corredato da un divieto generale di alienazione di suolo pubblico), senza vendite di patrimonio (solo affitto, massimo 4-5 euro al mq). Il tutto in un quadro di innovazione di materiali, sostenibilità ambientale e sociale, edilizia verde, dentro obiettivi di digitalizzazione del territorio e risparmio energetico, che vede in rete centri di ricerca, università e imprese interessate o player di rilievo che già oggi operano nell’ambito di progetti smart e forme di partenariato.
Non vado oltre, ma pensiamo a cosa si potrebbe concepire e organizzare per gli edifici scolastici e la sanità di prossimità dentro la riqualificazione della vita comunitaria.
La cittadinanza legata al territorio dovrebbe essere estesa a tutto il territorio nazionale. La stessa mobilitazione e tutto ciò che è pensato per la città dovrebbe avere come contrappeso l’intervento sulle aree interne, dove, di nuovo, abbiamo bisogno – con percorsi da condividere – di infrastrutture informatiche e piattaforme di connessione, servizi di base di prossimità, servizi in comune fra cittadini, telemedicina, salvaguardia del patrimonio artistico e culturale, valorizzazione della tradizione risorse esistenti. In altre parole, tutto ciò che rafforza la tenuta del territorio e ricompone la frammentazione della comunità. Accanto a ciò abbiamo bisogno di quella sostenibilità fatta di beni comuni che non possono essere gestiti secondo logiche di mercato, quali gli interventi di riassesto geologico del territorio, la messa in sicurezza de bacini idrici, il governo del corso dei fiumi, la viabilità extra urbana. Tutto indirizzato allo sviluppo di nuove tecnologie.
Stato e industria
Il secondo indirizzo dovrebbe vedere lo Stato capace di esercitare una responsabilità pubblica negli assetti produttivi e di guidare, coordinare e regolare l’economia secondo criteri che una volta si sarebbero detti di “programmazione”. Il tutto connesso a filiere imperniate su missioni di ricerca coerente con il presidio dei settori strategici (in progetti di mobilità sostenibile, l’uscita dall’auto, la transizione energetica, ecc.), che chiamino a raccolta le migliori capacità industriali e organizzative, le università e i centri di ricerca, e che siano organizzate in modo tale da essere driver di sviluppo produttivo e territoriale. O, connesso alla selezione delle imprese disponibili a cooperare con proprie risorse alla costruzione di ecosistemi innovativi.
Quella mobilitazione descritta da Arcuri è per me è una storia esemplare per capire cosa può essere una politica industriale guidata, che sa dove vuole arrivare e dove indirizzarsi, che dovrebbe essere usata per modificare un ciclo di sviluppo che giunge al suo termine e promuovere il successivo basato sull’ecologia, i consumi collettivi e i beni pubblici. Politica industriale vuol dire vuol dire governo dell’innovazione.
La realtà è che in Italia non si è mai discusso di dove indirizzare il Paese (la politica da 30 anni si occupa prevalentemente di ingegneria istituzionale o elettorale). Quando Johnson sostiene di voler fare della Gran Bretagna l’Arabia Saudita dell’eolico, sarà pure uno slogan, ma è un’indicazione di prospettiva. Noi su cosa puntiamo? Sulla transizione energetica? Spero che oggi qualcuno illustri la sequenza di interventi sistemici che presuppone. Sulla logistica verde per il commercio internazionale? Bisogna aver chiaro tutto ciò che comporta in termini di reti, porti, hub, ora che è raddoppiato il canale di Suez e la galleria del Gottardo. Sulla crescita dimensionale delle imprese? Ma allora vanno promosse, con un impegno diretto pubblico, reti d’imprese e fusioni. Sul salto tecnologico delle PMI? Ma allora va costruito attorno il sistema di brokeraggio e reti di professionisti capaci di intermediare tra mondo della ricerca e necessità dei processi produttivi, valutando congiuntamente le potenzialità dell’uno e degli altri. Sui beni culturali? Sulle città? Sulle eccellenze settoriali? Siamo, ad esempio un hub della produzione farmaceutica e biomedica mondiale, è possibile che non riusciamo ad esserlo in questo settore anche della ricerca scommettendo su tutta la filiera farmaceutica, quando si prevede che nei prossimi anni vi saranno 1.000 miliardi di investimento per cercare nuove terapie, e lo stesso per l’alimentare e la trasformazione alimentare?
In seguito dobbiamo sempre chiederci come si intreccia l’indirizzo (o gli indirizzi) prescelto con il riequilibrio territoriale (non perdiamo di vista mai che la questione del decollo del Sud è dietro l’insieme di tutti i temi).
E va risolto, anche come gli indirizzi prescelti si intreccino con le missioni assegnate alle imprese pubbliche, che non possono procede in autonomia col solo scopo di staccare dividendi per lo Stato, ma devono avere strategie coerenti con gli orizzonti di fondo cui mira il Paese.
Oggi sembra esservi un consenso sul rafforzamento delle condizioni di contesto (istruzione e ricerca) sulla necessità di puntare sulla sanità pubblica e di territorio, sul completamento della rete informatica.
Tutto bene, ma sembra sfuggire la complessità degli obiettivi. Vanno discussi i modelli prima ancora che la finanza. La chiave del successo è più la qualità che la quantità nell’organizzazione del processo. Ovunque si guardi in Italia è carente la governance e l’architettura dei processi (che fa il paio con le carenze della PA). È inutile cercare idee miracolistiche e risolutive: i progetti vanno seguiti nel merito coordinando gli attori, monitorando pezzo per pezzo l’implementazione delle politiche, stabilendo le priorità, chiamando ciascuno quotidianamente alle sue responsabilità, controllando l’adeguatezza di ciò che producono con i risultati attesi. Occorre il bisturi e non l’accetta. Qui troviamo la carenza principale delle politiche produttivistiche. Prendiamo la ricerca: a che serve porre l’obiettivo di una spesa al 3% senza una Agenzia per i progetti, con programmi elaborati da ben otto ministeri e da venti Regioni spesso incoerenti e classificati difformemente, con Tecnopole che si inventa una competenza in campo alimentare, con le Università che fanno da sole trasferimento tecnologico senza averne la forza, con un CNR con 144 sezioni, spesso autoreferenziali, con ricercatori precari? Ma questo si ripete per le politiche verso le Università, le scuole professionali, la ricerca applicata, il trasferimento tecnologico, lo sviluppo territoriale delle aree in ritardo e via dicendo.
Temo che si continui a ragionare come se lo Stato debba solo concepirsi come il regolatore del corretto funzionamento del mercato e come il finanziatore ultimo di ogni attività che il sistema privato debba a suo merito intraprendere – per giunta, con poca attenzione alle tecnologie usate e ai loro effetti occupazionali –, non come l’attore principale.
Capitalismo
Non è possibile in questa sede disegnare un’intera politica industriale, ma si può dedicare un po’ di attenzione al tema di come mutare l’orizzonte capitalistico – ritagliando all’interno uno spazio a sé per il capitalismo informatico e dei Big Data –.
Le imprese sono state aiutate con elargizione di fondi, crediti garantiti, trasferimento dei costi salariali allo Stato. La contropartita è che si comportino con più grande responsabilità. Occorre ottenere da loro attività pulite, rispetto dei lavoratori, del territorio e attenzione al benessere collettivo. Non bastano le prese di posizione del Business Roundtable o l’esistenza di Benefit Firm o la dichiarazione di intenti di singole imprese o categorie di produttori, perché non credo a un’autodisciplina ma penso che la sostenibilità sociale nelle scelte delle imprese dovrebbe essere declinata in norme e comportamenti. Le imprese private possono essere indotte a prendere decisioni socialmente responsabili da costruzioni che diano potere agli stakeholder. Da questo punto di vista, penso che l’Unione Europea si stia dimostrando più avanti della sinistra nel chiedere all’imprese di una certa dimensione, più a tutte le banche, assicurazioni e alle imprese di gestione del risparmio, di produrre un documento non finanziario, accanto a quelli finanziari, che dia conto dei loro comportamenti riguardo alla sostenibilità degli investimenti e al rispetto dei criteri ESG, dove ESG sta per Environment, Society, Governance. In questi criteri rientra anche, oltre l’ambiente, il rispetto per i diritti dei lavoratori, un salario adeguato, il rispetto della salute e della qualità della vita per i lavoratori e la presa in considerazione di tutti i riverberi che le loro scelte hanno sul territorio nel quale sono inserite le attività produttive e in senso lato su tutta la società. In Italia questa è stato introdotto come “Dichiarazione non finanziaria” che riguarda, oltre le imprese finanziarie e assicurative, le società quotate con più di 500 addetti. Non so quanta fiducia si possa avere in una processo che si alimenti da sé, in quanto chi gestisce risparmio è indotto dalla “dichiarazione non finanziaria”, cui è soggetto a sua volta, a selezionare l’investimento in imprese che abbiano passato la due diligence di sostenibilità, anche nel suo stesso interesse della finanza perché le conseguenze dei rischi climatici ricadono poi su banche e assicurazioni (pensiamo a risarcimenti per tornado, inondazioni, inquinamento delle falde, petroli in mare, ecc.). Quello che attiene alla sinistra è innestare in questo indirizzo, facendolo proprio, il ruolo decisivo degli stakeholder nel monitorare e orientare le decisioni, perseguendo varie operazioni di ingegneria istituzionale di cui abbiamo discusso in altri incontri. È interessante, però, che stiano sorgendo società di certificazione che valutano il rispetto dei criteri ESG (non solo all’interno relativamente a imprese, ma anche all’esterno nel rispetto di diritti umani quando si tratta di investimenti finanziari in titoli sovrani); ed è importante che in quest’attività siano impegnate anche organizzazioni della società civile per compiere le verifiche necessarie e certificare l’osservanza di quei criteri di base.
Io non vorrei sopravvalutare l’importanza di questa interferenza, voluta dall’Unione, nelle scelte imprenditoriali, ma penso che la sinistra debba far proprio questo approccio sorvegliando che sia sostanziale e che debba puntare a che la prospettiva sia estesa gradualmente a tutte le imprese (con la dovuta flessibilità per le più piccole). Oggi l’impresa che non ha una certificazione ESG rischia di non essere presa in considerazione nelle scelte di portafoglio, domani dobbiamo pensare a sanzioni che non siano solo reputazionali o di abbandono a se stessa, ma effettive e che vadano dall’ ammissibilità di class action, al risarcimento per gli stakeholder quando siano disattese, al di là di questioni che interessano la magistratura. Certo tutto ciò non basta e non sostituisce il presidio di un forte e non derogabile diritto del lavoro. Né sostituisce la rivendicazione che i grandi gruppi abbiano una la presenza dell’interesse pubblico negli organi direttivi e dei lavoratori nel comitato compensi dei manager. È anche insegnamento di questa pandemia che le imprese andrebbero trattate come le banche, con una regolazione mirata a renderle resistenti di fronte a eventi imprevisti, attraverso accantonamenti adeguati di capitale (che comporteranno minori dividendi per gli azionisti). Salvataggi e fondi erogati alle imprese dovrebbero comportare l’ingresso dello Stato nel capitale azionario.
Economia digitale
L’economia digitale fa storia a sé, dominata com’è da alcuni giganti mondiali. I dati sono al centro di questa economia. Qui è difficile pensare a uno Stato che agisca da solo, ma l’Europa si sta dimostrando di recente all’altezza della situazione. La richiesta di condividere i dati sugli utenti con i concorrenti è condivisibile e deve estendersi fino all’obbligo di licenziare le invenzioni in modo che possano essere utilizzate dagli altri. Occorre impedire che la conoscenza sia largamente privatizzata e che il suo uso produttivo sia permesso solo a pochi, diventando in tal modo una consistente fonte di valorizzazione privata e di profitto, quando poi alla sua base vi è la ricerca finanziata dal pubblico.
Per quanto il disciplinamento di questa parte del capitalismo sia sovranazionale, lo Stato nazionale ha ambiti di intervento importanti.
In primo luogo, spetta ad esso disciplinare il potere strutturante degli algoritmi quando questi modellano il processo lavorativo e informano la vita e la struttura sociale. E qui mi riferisco alla protezione dei lavoratori e dei singoli e al loro diritto di essere pienamente informati quando gli effetti dell’applicazione degli algoritmi (che sono sempre costruzioni umane) ricadono su modalità e tempi di lavoro o determinano in modo “automatico” la selezione delle graduatorie o delle persone.
Occorre, poi, non lasciare solo ai privati la costruzione delle piattaforme quando queste hanno un valore sociale, come quelle che mettono in relazione le persone di un dato territorio, che dovrebbero essere di proprietà pubblica. Lo stesso vale anche per quanto riguarda le piattaforme per fare formazione a distanza o per la diffusione della cultura, che dovrebbero essere una priorità dell’impegno pubblico in questo campo.
Occorre poi riconoscere che gli investimenti in tecnologia, specie informatica, non sono neutri rispetto all’impiego di forza lavoro e quindi favorire (via ricerca, incentivi e disincentivi e scelta dei settori) le direzioni più promettenti di sviluppo e di assorbimento dell’occupazione (o meno dirompenti dal punto di vista occupazionale)
Altri temi
Probabilmente in questo intervento è stato messo un eccesso di “carne al fuoco”. Eppure vi sono tante altre svolte che dovrebbero informare la società post-Covid ed essere discusse, da cosa intendiamo per sanità democratica, ai problemi redistributivi e di ricomposizione della forza lavoro, ai diritti singoli e collettivi. Il tutto all’interno di problemi politici sottostanti, che pure hanno rilievo nella discussione. Questo, tuttavia, può essere lasciato a ulteriori approfondimenti.