Recensione a: Noemi Ghetti, Gramsci e le donne. Gli affetti, gli amori, le idee, Donzelli, Roma 2020, pp. VI-218, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Andreas Iacarella
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A partire dalla fine degli anni Sessanta, è emersa con forza sempre maggiore, nel campo dell’intellettualità di sinistra, l’esigenza di interrogarsi sull’intreccio di quei due ambiti della vita che vennero chiamati, con uno slogan, personale e politico. A monte di questo rinnovato interesse va individuata l’ovvia spinta della seconda ondata femminista[1] e dei movimenti giovanili in genere, che avevano posto a livello globale l’emergenza di nuovi costumi e la messa in discussione delle forme classiche della militanza e della lotta politica.
Sono fioriti, da quel momento in poi, studi e ricerche che hanno voluto interpretare le figure dei maggiori pensatori comunisti e socialisti secondo questo nuovo paradigma, evidenziandone i forti limiti e in qualche caso anche le intuizioni. Gramsci non ha fatto eccezione: nel 1976 Adele Cambria pubblicò il libro Amore e rivoluzione[2], che in copertina veniva presentato come «la risposta alle Lettere dal carcere». Fino a quel momento, infatti, si leggevano le lettere del pensatore sardo senza nulla sapere delle risposte e delle vite delle sue interlocutrici; squarciando questo velo di silenzio, Cambria restituì la propria storia a queste donne, illuminando di una luce nuova anche il profilo di Gramsci[3].
Dopo quel momento iniziale, non sono però stati moltissimi i contributi che hanno proseguito quel filone di indagine in relazione al pensatore di Ales[4]. Per questo motivo, la ricerca di Noemi Ghetti, già intrapresa nei suoi precedenti saggi[5], si segnala nel vasto panorama degli studi gramsciani per la sua originalità di temi e di interpretazioni. In questa sua nuova opera, Gramsci e le donne. Gli affetti, gli amori, le idee, l’autrice porta avanti, in un’ottica non femminista, la sua rilettura del pensiero e della biografia gramsciani, alla luce del nodo fondamentale del rapporto uomo-donna[6].
Il significato del titolo è duplice: da un lato l’attenta ricostruzione delle vicende delle donne che con Gramsci entrarono in rapporto; dall’altro un’originale lettura delle elaborazioni del pensatore sardo sull’emancipazione femminile e sul suo ruolo nel processo rivoluzionario. L’autrice tesse un intreccio sapiente tra questi due piani, restituendo a pieno il senso della ricerca gramsciana, in una fusione assoluta del pensatore e dell’uomo. Come scriveva infatti Camilla Ravera, lungi dall’essere fredda elaborazione teorica, «il socialismo era in Gramsci una visione integrale della vita» (cit. p. 37).
Ripercorrere le vite e le tracce delle donne con cui Gramsci entrò in relazione, permette tra l’altro, per la varietà e l’importanza delle interlocutrici, di tratteggiare come la questione dei rapporti personali esistesse e fosse ben viva anche nella prima metà del Novecento. Ad una iniziale presentazione delle donne di casa Gramsci, segue quindi una lunga serie di ritratti che restituisce la vitalità e la profondità del contributo femminile al pensiero e alla militanza comunista: Pia Carena, militante e primo amore dell’intellettuale sardo; Camilla Ravera, Rita Montagnana e Teresa Noce, che furono accanto a Gramsci nel biennio rosso; le grandi protagoniste internazionali, Aleksandra Kollontaj, Inessa Armand, Clara Zetkin, Rosa Luxemburg; e ovviamente le tre sorelle Schucht, Eugenia, Giulia e Tatiana, che rappresentarono il centro della vita affettiva del pensatore.
In questo senso il saggio può essere letto attraverso una doppia ottica: da un lato analizza nella pratica e nella riflessione gramsciana la persistente presenza dell’idea «della necessità dello sviluppo di una nuova identità femminile, intimamente libera da schiavitù arcaiche e da condizionamenti culturali» (p. 4). Dall’altro tratteggia un brano di storia del movimento comunista mondiale, mettendo in evidenza come il tentativo delle donne di rivendicare una propria specifica identità umana sembrasse sempre inconciliabile con una prassi e una teorica rivoluzionarie ancora intrinsecamente patriarcali. D’altronde, pensatrici come Luxemburg e Zetkin affermavano senza remore come «non ci potesse essere emancipazione delle donne senza socialismo, e non ci potesse essere un socialismo senza la liberazione delle donne» (p. 85). Paradigmatica in questo senso l’esperienza della Rivoluzione d’ottobre, sulla quale l’autrice scrive pagine chiarissime.
In un dialogo del 1920 con Clara Zetkin sul movimento femminile, Lenin prese una posizione netta sulla questione. «Io non garantirei – affermò – riguardo alla sicurezza e alla fermezza della lotta, delle donne il cui romanzo personale si intreccia con la politica, né degli uomini che corrono dietro ad ogni gonnella […]. No, questo non è compatibile con la rivoluzione» (cit. p. 90). Il leader bolscevico, disconoscendo la specificità della questione femminile, aveva come principale obiettivo polemico le posizioni sul libero amore espresse da Aleksandra Kollontaj: disegnava così una vera e propria politica sessuale conservatrice, secondo la quale il rapporto libero tra i sessi deconcentrava e disperdeva le energie che andavano invece devolute alla causa rivoluzionaria.
Come scrive l’autrice, «si preparava la Nep, per la questione femminile non c’era più posto. Bisognava mettere a tacere quelle donne ribelli, che pubblicamente si erano tutte pronunciate contro il Trattato di Brest-Litovsk. Che, irriducibili, continuavano a rivendicare le aspirazioni di democrazia e libertà, condivise con artisti e operai, da cui la rivoluzione era nata» (p. 93). Lenin e Kollontaj si erano formati leggendo il rivoluzionario romanzo di Černyševskij, Che fare?, che già a metà Ottocento pose al centro la questione femminile e del rapporto tra i sessi. La rivoluzione del 1917 si si nutrì, come ha scritto Todorov, di queste e altre intuizioni degli artisti che, agendo «a un livello più profondo, non cosciente», prepararono l’azione politica[7].
Era così stato possibile, nei primissimi anni di governo di Lenin, un cambiamento sociale e culturale epocale: dal divorzio, all’aborto, alla libertà di convivenza fuori dal matrimonio. Ma, come ricostruisce Ghetti, l’idillio ebbe breve durata. «Nella notte del 16 aprile 1917 […], quando il famoso treno blindato proveniente dalla Svizzera arrivò alla stazione Finlandia di San Pietroburgo, […] c’era Aleksandra, con un fascio di fiori. […] Il 9 ottobre 1920, tre anni e mezzo dopo, la bara di Inessa Armand fu accolta da Lenin in lacrime […]. Le due date segnano l’esordio e la conclusione della grande epopea rivoluzionaria» (p. 94). Come evidenzia l’autrice, nel precoce accantonamento della questione femminile è individuabile la fine del momento più propositivo della Rivoluzione d’ottobre. E il rapporto, personale e politico, tra Inessa Armand e Lenin[8] è una chiave preziosa per ricostruire i limiti contro cui si infranse il governo rivoluzionario, che finì per riproporre per le donne un ruolo di “custodi del focolare”.
Di fronte all’involuzione della società sovietica, nel 1923 Aleksandra Kollontaj scrisse l’opuscolo Largo all’eros alato!, con il quale smascherò «il nucleo inconfessato della Rivoluzione sovietica: l’angoscia che la libertà sessuale e l’emancipazione femminile siano un presupposto necessario su cui realizzare una vera società socialista, fondata sull’effettiva uguaglianza di tutti gli esseri umani» (p. 107). Era questa, scrive Ghetti, una «cecità nei confronti delle esigenze degli esseri umani connaturata nel materialismo dialettico del marxismo leninismo», contro la quale Kollontaj rivendicava il riconoscimento della «dimensione psichica della sessualità umana» come imprescindibile presupposto rivoluzionario (p. 108).
Nella ricostruzione dell’autrice, la rivoluzione bolscevica appare significativamente come il momento spartiacque per il movimento comunista: dopo un iniziale favore, le istanze di una nuova identità femminile e di un nuovo rapporto tra i sessi erano state escluse dal processo rivoluzionario. Questa esclusione sarebbe rimasta ancora per decenni una ferita aperta[9], segnando un punto di non ritorno nelle aspirazioni ad una reale trasformazione della società.
Il lavoro condotto da Ghetti è allora quello di evidenziare come pure degli spunti per approfondire la questione fossero venuti alla luce. E non solo negli scritti di “eretiche” come Luxemburg e Kollontaj, ma nelle parole stesse di un inedito Marx che veniva stampato per la prima volta nel 1932. In quell’anno in Russia uscì la prima edizione dei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Lì il filosofo avanzava, nella sezione denominata «Proprietà privata e comunismo», l’idea che la «dialettica dell’uomo con la natura trova nel rapporto naturale, immediato e necessario tra i sessi il luogo del massimo cimento e la misura del suo grado di civiltà, cioè fino a quale punto l’uomo “si sia fatto uomo”» (p. 135). Come scrive Ghetti, in questo è possibile intravedere, anche per il linguaggio impiegato da Marx per svolgere il tema, un riferimento a una natura umana oltre la natura fisica; l’intuizione che la specificità del rapporto sessuale uomo-donna risiede nella «esigenza di realizzazione della propria identità» (ibid.).
Il Gramsci ricostruito pazientemente da Ghetti sembra essere pienamente consapevole e partecipe di questo dibattito. I testi attraverso i quali l’autrice tratteggia il pensiero gramsciano sul tema sono principalmente la sua corrispondenza, una recensione teatrale al dramma di Ibsen, Casa di bambola, pubblicata nell’Avanti! il 22 marzo 1917, e quanto il pensatore scrisse nei Quaderni a proposito della «quistione sessuale»[10].
Il pezzo su Ibsen è un piccolo ma fondamentale saggio della radicale distanza di Gramsci rispetto agli altri dirigenti comunisti: nel presentare la figura di Nora come «una donna nuova, non più un mero oggetto sessuale e la nutrice dei figli, ma un essere umano a sé, con esigenze interiori proprie, la personalità e la dignità di soggetto indipendente», Gramsci proponeva un’idea di emancipazione nettamente più avanzata di quella che si fermava alla rivendicazione dei diritti economici (p. 30). Era questa d’altronde una caratteristica fondamentale del pensatore sardo, che, come ricorda Bermani, nei suoi rapporti personali costringeva sempre a quella «educazione del pensare e alla scoperta di quella verità, che ognuno reca in sé e che nessuno possiede» (cit. p. 22).
Nella riflessione dei Quaderni, il discorso raggiunge una compiutezza ancora maggiore. Gramsci, per avviare la sua analisi del regime fordista, annotava come nel corso della storia il tentativo di regolamentare i rapporti sessuali fosse sempre stato una preoccupazione prioritaria di coloro che volevano progettare società nuove. Queste righe, lette oggi, sembrano applicabili anche alla sessuofobica politica sovietica.
Nella sua attenta analisi della nota, Ghetti evidenzia la specificità del pensiero gramsciano sulla questione sessuale, che viene considerata come pre-politica e avente rilevanza etico-civile. È questo uno scarto di pensiero anche rispetto al Marx dei Manoscritti: non era più sufficiente l’emancipazione economica e giuridica, alla donna occorreva «anche la realizzazione di una nuova immagine interiore di sé e lo sviluppo di una nuova identità, di una nuova consapevolezza anche nell’esercizio della sessualità» (pp. 143-144). Alla base di questa apertura e del riconoscimento di uno specifico femminile, vi era in Gramsci, suggerisce Ghetti, la convinzione radicale di un «sentimento di uguaglianza», fondato sulle scoperte della «scienza biologica, che afferma l’uguaglianza “naturale”, cioè psico-fisica di tutti gli elementi individuali del “genere” umano» (cit. p. 144).
A fronte di queste importanti elaborazioni teoriche, nel volume emergono anche, a più riprese, le difficoltà dell’uomo Gramsci, che in una lettera alla famiglia scriveva di essere a lungo vissuto «tutto per il cervello e niente per il cuore […]. Come se gli altri non esistessero» (cit. p. 22). Negli scritti più intimi, le lettere, emerge la problematicità che l’esigenza, storica e umana, di trovare una nuova dimensione del rapporto uomo-donna palesava: «mi pare di essere un rottame in balia delle onde. Vedo ora, più plasticamente, molte difficoltà che prima intuivo solo intellettualmente e sento la mia insufficienza in modo disperante» (cit. pp. 128-129). Nell’attenta ricostruzione che l’autrice fa dei rapporti tra Gramsci e le sorelle Schucht si intravedono così, ora da una parte ora dall’altra, tutti gli ostacoli incontrati, in una situazione già di per sé disperante, nel tentativo di portare alla prassi questa rivoluzione dei rapporti.
Come si è provato ad evidenziare, il merito fondamentale del saggio sta nell’ampiezza e nella profondità dello sguardo dell’autrice: la ricostruzione della biografia e del pensiero gramsciano in relazione alla questione femminile è inserita nella cornice più ampia dell’emersione del tema all’interno del campo comunista. In questo modo Ghetti abbozza una storia episodica ma significativa del pensiero marxista della prima metà del Novecento, che promette nuovi approfondimenti. Attraverso intuizioni e limiti di un personaggio rivoluzionario come Gramsci, l’autrice arriva al cuore di quello che viene identificato, alla luce della teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli, come il vero fallimento del marxismo: la rinuncia alla ricerca su una dimensione umana non cosciente. Come scrive Ghetti: «l’irrazionale per eccellenza da sempre per l’uomo è la donna, il diverso dalla ragione, ovvero la propria immagine interiore, che in modo del tutto inconsapevole per ognuno di noi va a rappresentare il primo anno di vita, fatto di affetti senza parola, in cui inconscio e coscienza ancora non conoscono scissione» (p. 198). Nel retrocedere di fronte alla questione femminile, l’autrice legge dunque l’espressione del limite più profondo dell’antropologia marxista.
Nelle pagine finali del testo, Ghetti ricorda una poesia del poeta turco Nâzim Hikmet, comunista costretto all’esilio in Unione Sovietica, il cui primo verso recita: «sono cent’anni che non ho visto il suo viso». Quando venne scritta questa poesia erano passati, come nota l’autrice, quasi cento anni dalla pubblicazione del primo libro del Capitale di Marx, e la questione dei rapporti d’amore e dell’identità della donna restava senza soluzione nel movimento comunista. Nel non riconoscimento di questa diversità nell’uguaglianza sta, per Ghetti, il confine estremo oltre il quale non seppe spingersi il pensiero marxista, pur pungolato dalle intuizioni di pensatori come Gramsci e Kollontaj. Il pensatore di Ales avrebbe forse fatto sue anche queste altre amare parole di Hikmet: «cantando la grande canzone della speranza / m’allontano dalle città, dalle donne amate / porto la nostalgia di loro come ferita che non rimargina nella mia carne»[11].
Nella foto di copertina Julia Schucht con i figli Delio e Giuliano negli anni Trenta.
[1] Per un recente contributo sul tema, con particolare attenzione al mondo statunitense, si veda: R. Heberlee, “The personal is political”, in L. Disch e M. Hawkesworth (a cura di), The Oxford handbook of feminist theory, Oxford UP, New York 2016, pp. 593-609. Per una panoramica sull’Italia, si veda invece: M. A. Bracke, La nuova politica delle donne. Il femminismo in Italia, 1968-1983, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2019.
[2] A. Cambria, Amore e rivoluzione. Tre sorelle per un rivoluzionario: le lettere inedite della moglie e delle cognate di Antonio Gramsci, SugarCo, Milano 1976.
[3] Per un’analisi del testo della Cambria, si veda: A. Righi, “Non ci sono risposte compagno Gramsci… non ancora alle tue domande. Soggettività e differenza sessuale: un dialogo tra Adele Cambria e Antonio Gramsci”, Carte italiane, II, 4 (2008), pp. 129-155.
[4] Segnalo, tra gli altri: L. Durante, “Gramsci e la soggettività politica delle donne tra natura e storia”, Critica marxista, 1 (2012), pp. 57-66.
[5] Vedi, in particolare: N. Ghetti, Gramsci nel cieco carcere degli eretici, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2014; Ead., La cartolina di Gramsci. A Mosca, tra politica e amori, 1922-1924, Donzelli, Roma 2016; Ead., “Gramsci, le donne e la «quistione sessuale»”, Práxis e hegemonia popular, V, 6 (2020), pp. 99-111.
[6] In questo, il riferimento di Ghetti è in modo particolare alla teoria della nascita fagioliana.
[7] T. Todorov, L’arte nella tempesta. L’avventura di poeti, scrittori e pittori nella rivoluzione russa, Garzanti, Milano 2018, p. 15.
[8] In italiano, si vedano: R. Armeni, Di questo amore non si deve sapere. La storia di Inessa e Lenin, Ponte alle Grazie, Milano 2015; A. Paradiso, “Inessa Armand: rivoluzionaria e femminista”, Studi Storici, 38, 3 (1997), pp. 857-868.
[9] Si veda ad esempio, per un’ampia ricostruzione della morale interna del Pci in fatto di rapporti personali: A. Tonelli, Gli irregolari. Amori comunisti al tempo della Guerra fredda, Laterza, Roma-Bari 2014.
[10] In particolare, la nota 62 del primo quaderno, che sarà poi ripresa nella nota 3 del quaderno speciale 22.
[11] N. Hikmet, Poesie d’amore, Mondadori, Milano 2002, p. 71.