Recensione a: Gianfranco Baldini (a cura di), La Gran Bretagna dopo la Brexit, il Mulino, Bologna 2016, 304 pp., 24 euro (scheda libro).
Scritto da Alice Cavalieri, Paolo Marzi
8 minuti di lettura
Non molti si sarebbero aspettati che, messi davanti alla scelta di rimanere o andarsene dall’Unione Europea, i cittadini britannici si esprimessero effettivamente per il Leave, divenendo così il primo Stato Membro a compiere questo fatidico passo e minando potenzialmente la raison d’être europea. E mentre il Governo di sua Maestà e le istituzioni comunitarie si preparano ad avviare i negoziati per l’uscita, le cancellerie di tutta Europa e di tutto il mondo si affannano nel regolare nuovamente i rapporti con la Gran Bretagna, a livello accademico la domanda più frequente che ci si pone riguardo l’argomento Brexit è: “come siamo arrivati a questo”?
È a tale preciso quesito che Gianfranco Baldini ed i coautori del libro La gran Bretagna dopo la Brexit intendono dare risposta. Attraverso uno studio polisemico sui vari aspetti della politica britannica, gli autori vanno ad indagare le ragioni politiche che hanno portato all’idea del referendum, il contesto istituzionale in cui si è sviluppato tale ambiente politico, il ruolo che i media hanno ricoperto in ambito elettorale e referendario, il comportamento dei vari leader politici a livello domestico ed internazionale rispetto alla questione e molto altro ancora.
La prima parte del libro dal titolo “Le elezioni del 2015”, di cui fanno parte i primi cinque capitoli, offre principalmente una panoramica sul contesto politico-istituzionale in cui si è sviluppata l’idea della Brexit.
Il capitolo 1 si concentra sull’attività del governo Cameron-Clegg, sulle principali tematiche affrontate nel corso della legislatura 2010-2015 e sulle ripercussioni dell’operato della coalizione liberal-conservatrice sul sistema politico britannico. Le ultime elezioni, infatti, hanno decretato il crollo dei liberal-democratici e la vittoria dei conservatori, questi ultimi agevolati da una serie di fattori quali la ripresa economica dovuta alle politiche di austerity moderata, il recupero di consenso nell’elettorato riguardo temi spinosi (sanità, ecc.) e la consapevolezza di essere l’unico grande partito con reali prospettive di governo. Fondamentale è stato inoltre il forte ruolo esercitato dai media – come spiegato nel terzo capitolo – dove le ragioni della sconfitta laburista vengono ricollegate a due principali elementi: l’impossibilità per il partito di presentarsi come una credibile alternativa e il vantaggio dei Tories in termini di copertura mediatica. Se si tiene presente la visione negativa di Miliband come leader del partito (enfatizzata da alcuni tabloid) e vi si aggiunge l’idea diffusa dei laburisti come causa della crisi economica, non risulta difficile comprendere i motivi per cui i conservatori siano stati considerati l’opzione migliore rispetto ad un governo laburista di minoranza, inevitabilmente ostaggio dei nazionalisti scozzesi. Lo stesso tema è poi ripreso anche nel capitolo 6, in cui si guarda anche alla vittoria dello Ukip nelle elezioni europee del 2014, alla perdita di consensi nell’ala destra dell’elettorato e alla posizione apertamente pro-europea di laburisti e LibDem, come ulteriori fattori a vantaggio dei Tories. In questa situazione politica, la promessa fatta dai conservatori nel 2013 di indire un referendum popolare sulla membership europea è stata quindi mantenuta, pur in un clima di crescenti tensioni e spaccature interne, come spiegato più nel dettaglio nella seconda parte del libro.
La quasi impossibilità di un governo laburista monopartitico emerge chiara dall’analisi fatta nel capitolo 2, che sposta l’attenzione sul sistema politico-elettorale britannico, recentemente messo a dura prova dai tentativi di riforma. Il sistema maggioritario first-pass-the-post, infatti, è stato giudicato da diversi fronti come inadatto a rispondere alle necessità di cambiamento provenienti da più parti della società britannica, in quanto offre un sistema altamente disproporzionale che sacrifica la piena rappresentatività in favore della governabilità. Il problema principale, tuttavia, riguarda il progressivo scollamento tra elettori ed eletti, unito alla sempre più marcata biforcazione geografica (città/piccoli centri) e generazionale (giovani/anziani), che viene cavalcata dai partiti in modo crescente al fine di assicurarsi un bacino elettorale ampio e/o fidelizzato.
L’attività del governo Cameron II, tuttavia, non ha risentito eccessivamente del passaggio da un governo di coalizione ad uno monopartitico. Anzi, l’analisi comparata del capitolo 4 dimostra come il governo Cameron-Clegg fosse produttivo tanto quanto quello insediatosi dopo le elezioni del 2015 e come quest’ultimo sia, di fatto, “più debole” di altre precedenti amministrazioni (Blair I e Major I), in particolare a causa della risicata maggioranza e delle forti divisioni interne al partito.
Il capitolo 5 indaga i progressivi cambiamenti della politica estera britannica, specialmente in seguito all’elezione di Corbyn a capo del Labour. Il nuovo segretario, infatti ha decretato una forte spaccatura politica in un tema, quello della politica estera, che ha sempre visto i due grandi partiti condividere una visione interventista, benché in entrambi gli schieramenti vi fosse l’opposizione di alcuni backbenchers.
La seconda parte del libro – comprendente i capitoli dal 6 al 10 e intitolata “I partiti dalle elezioni al referendum” – si interessa soprattutto dei principali attori presenti nella politica britannica al momento del referendum sulla Brexit.
Il capitolo 6 esplora le problematiche relazioni tra il partito conservatore e l’Ue, ponendo in luce il rapporto conflittuale tra i partiti britannici e la membership europea già durante l’avvio del processo di integrazione. Tuttavia, mentre nel 1983 erano stati i laburisti a proporre nel loro programma l’uscita del paese dalla Cee, sarà poi la Iron Lady a pronunciare nel 1988 il discorso considerato come vero e proprio manifesto fondante dell’euroscetticismo, opponendosi alla creazione di un super-stato europeo. Proprio a partire dai primi anni Novanta, anche gli stessi leader conservatori si faranno portavoce della causa euroscettica.
Il capitolo 7 sposta l’attenzione sul partito laburista, intrecciando l’alternanza dei vari leader alla guida del partito – da Miliband a Corbyn – con il rapporto intessuto tra questi e le trade unions.
Nel capitolo 8 l’esame è su uno dei più rilevanti attori nella campagna a favore del Leave: lo Ukip, partito emblema dell’euroscetticismo hard che è riuscito ad aumentare i propri consensi in tempi molto brevi, facendosi portavoce del malcontento di un elettorato con caratteristiche socioeconomiche e culturali ben definite, che abbracciano l’elettore maschio, bianco, anziano, poco istruito e non benestante. La sua crescita come partito è derivata in larga misura dall’abilità nel ricollegare la questione della membership europea ai timori – più marcatamente diffusi tra l’elettorato sopra descritto – legati al tema dell’immigrazione. Inoltre, l’esile maggioranza ottenuta nelle elezioni del 2015 dai Tory e l’esistenza di una rilevante ala euroscettica all’interno del partito guidato da Cameron, hanno dato la spinta allo stesso premier per indire il referendum che aveva promesso sulla permanenza britannica nell’Unione, andando così incontro anche alle volontà e agli interessi dello stesso Ukip.
Strettamente legata alla Brexit è la questione scozzese, presa in esame nel capitolo 9. Nel 2014, infatti, un altro referendum – quello che ha negato alla Scozia l’indipendenza dal Regno Unito – ha marcato una nuova importante tappa nella recente storia britannica. Il turnover elettorale nelle elezioni del 2015 ha visto anche in Scozia una netta sconfitta del partito laburista a favore di un crescente nazionalismo, a cui lo Scottish National Party (Snp) ha dato voce, divenendo il partito egemone oltre il Vallo e la terza formazione politica a Westminster. La “questione scozzese” è strettamente legata all’esito del referendum sulla Brexit: il fatto che la Scozia si sia espressa a gran voce per il Remain, infatti, riporta violentemente a galla il tema dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, con la possibilità sempre più tangibile di indire un nuovo referendum a soli due anni di distanza da quello fallito nel 2014.
La terza parte del libro è interamente dedicata al referendum, dai primordi delle elezioni 2015 fino al risultato finale, passando per l’accordo Uk-Ue, l’analisi degli schieramenti in campo ed i potenziali scenari successivi al voto.
Il capitolo 10 si ricollega alla prima parte del libro nel trattare del governo di coalizione liberal-conservatore e delle promesse elettorali di Cameron. Il Primo Ministro britannico contava infatti sull’appoggio dei LibDem, di parte del suo stesso partito e dell’opposizione laburista per far sì che la proposta di un referendum sull’appartenenza all’Ue trovasse nel Parlamento uno scoglio insormontabile. Sorprendentemente, le elezioni del 2015 e gli sviluppi politici successivi hanno cambiato radicalmente lo scenario – trovando i Tories al governo da soli ma più frammentati che mai al loro interno – e obbligato Cameron ad indire di fatto la consultazione popolare. Il capitolo si concentra anche sulla spinosa questione riguardante i possibili scenari post-referendum, prima tra tutte la necessità di negoziare i termini della Brexit e successivamente di ridefinire i rapporti con l’Ue, prendendo a modello i rapporti dell’Unione con altri paesi.
Come chiarito anche nel capitolo 11, in cui si cerca di fornire delucidazioni in merito alla futura strada che dovrà prendere la Gran Bretagna, una della possibilità è proprio quella di mantenere i benefici derivanti dall’appartenenza comunitaria e allo stesso tempo porre un limite alla libera circolazione e dunque alla migrazione dei cittadini comunitari verso la Gran Bretagna, come accade ad esempio con Norvegia e Svizzera. Tuttavia, nonostante l’efficace campagna referendaria a favore del Leave – che ha fatto leva sulle divisioni del fronte del Remain, unite allo scarso impegno del partito laburista e la forte sfiducia della popolazione nei confronti della classe politica – e la conseguente vittoria di questo schieramento al referendum, nessuno aveva ed ha ancora pensato ai piani e le tempistiche post-Brexit, la cui definizione spetta ora alla neo-premier Theresa May.
Il libro termina con la “provocazione” del capitolo 12, che enuncia l’eventualità di un nuovo referendum sullo stesso tema: asserendo infatti che il popolo britannico si sia espresso a favore dell’uscita dall’Ue senza specificarne però le modalità, il capitolo ritiene possibile e auspicabile dal punto di vista strettamente politico l’indizione di una nuova consultazione referendaria. Tuttavia, la fattibilità di questa opzione, come sostenuto dall’autore, sembra dipendere in gran parte dall’umore e dalla volontà dell’opinione pubblica rispetto al risultato del voto di giugno, desideri che sono strettamente legati all’andamento economico del paese e al successo nelle trattative per futuri accordi commerciali.
Analizzando nel dettaglio il testo, il libro riesce – grazie al contributo di una molteplicità di autori – a spiegare magistralmente il modo in cui una concatenazione di eventi molto differenti fra loro abbia spinto il sistema politico britannico (o almeno una sua parte) prima ad avallare la possibilità del quesito e successivamente a “forzare” i conservatori a metterlo in pratica. In un’analisi a tutto tondo che copre partiti, leader, media, istituzioni e quant’altro, è possibile farsi un’idea chiara e oggettiva sulle ragioni che hanno portato il Regno Unito ad indire il referendum sulla membership europea, attraverso un percorso a ritroso che riesce abilmente a rivelare, capitolo dopo capitolo, tutti gli elementi che hanno contribuito all’outcome finale.
Nonostante i molti elementi positivi che caratterizzano questa opera, tuttavia, occorre notare che il libro non è del tutto immune da piccole note di biasimo sia per quanto riguarda le tematiche affrontate in alcuni capitoli, sia per il contenuto di altri. Un esempio in questo senso si può trovare nel secondo capitolo, dove la vittoria dei Tory viene interpretata come il fattore “che ha “sbloccato” il nuovo Parlamento con un governo monopartitico, dimostrando così la tenuta del sistema politico britannico. Quest’idea in particolare non è esente da critiche: l’ascesa dell’Snp ed il suo conseguente “monopolio” nei seggi a Nord del Vallo, infatti, potrebbe pregiudicare seriamente le possibilità del Labour di ripresentarsi in futuro come unica forza di governo (al netto dei seggi contendibili), tallonato a sinistra anche in Inghilterra e Galles da Verdi e nazionalisti gallesi. Quello che sembra emergere dalle elezioni del 2015, quindi, è che solo uno dei due componenti principali del sistema Westminster abbia effettivamente retto, mentre permangono i dubbi sul sistema tout court, in particolare riguardo la possibilità che una formazione relativamente piccola come lo Snp possa accedere ad una rappresentanza parlamentare ben maggiore di quella dello Ukip, che invece ha preso milioni di voti in più. Considerazioni teoriche a parte, l’idea di una riforma elettorale non è attualmente nell’agenda dell’attuale governo conservatore.
Adottando una visione d’insieme del testo, alcuni capitoli risultano essere particolarmente teorici – come quello sull’analisi comparata dei governi – mentre altri sono relativamente marginali. In particolare, l’analisi della politica estera britannica post-elezioni 2015 e del nuovo corso dato in questo campo dalla leadership di Corbyn sembra distaccarsi da quello che è il tema centrale del libro. Allo stesso modo il settimo capitolo, nel propinare al lettore un excursus avente come oggetto il cambio di leadership laburista e le relazioni partito-sindacati, si allontana alquanto dal focus del libro. Solo alla fine del capitolo si tenta di ricollegarvisi, nel sottolineare la contrapposizione durante la campagna referendaria tra la l’atteggiamento decisamente attivo del Labour Party a favore nel Remain e quella invece alquanto passiva di Corbyn.
Ciò nonostante, anche questi capitoli contribuiscono a loro modo a completare lo scenario pre-Brexit in ogni sua parte. Tale critica dunque non inficia la qualità e l’efficacia dell’analisi svolta, che si traduce in un’opera efficace e dal contenuto decisamente encomiabile.