Ground zero. L’Artico, il cambiamento climatico e la geopolitica delle risorse
- 29 Dicembre 2021

Ground zero. L’Artico, il cambiamento climatico e la geopolitica delle risorse

Scritto da Alberto Prina Cerai

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Per secoli l’Artico è apparso, nell’immaginario comune, come una regione remota, aspra, insidiosa e lontana dal percorso della modernità che si è progressivamente ramificata in tutti i continenti del globo (con l’eccezione dell’Antartide in cui vige un regime riconosciuto di “congelamento” delle aspirazioni sovrane degli Stati) [1]. Tuttavia, quelle condizioni climatiche che avevano tenuto lontana la bramosia della civiltà industriale e capitalistica oggi si stanno gradualmente modificando, giacché l’Artico si prepara ad entrare nell’Antropocene con tutte le conseguenze che ciò comporterà.

Il cambiamento climatico indotto dalle attività umane – evidenza che ormai accumuna la quasi totalità (99%) della comunità dei climatologi a livello mondiale, come di recente confermato da un articolo apparso su Environmental Research Letters – sta infatti avendo conseguenze ancor più dirompenti aldilà del circolo polare artico. Il rilascio di gas ad effetto serra e la loro relativa concentrazione nell’atmosfera ha indotto un aumento della temperatura media annua della superficie, tra il 1971 e il 2017, di ben 2,7°C con numeri ancora più alti nelle stagioni fredde. Ancor più drammatico, nello stesso periodo si sono osservati aumenti di temperatura di 2,4 volte più veloci rispetto alla media dell’Emisfero settentrionale. Questi dati di fatto confermano quanto l’Artico possa definirsi il ground zero del cambiamento climatico: una regione dagli equilibri ecosistemici particolarmente fragili, esposta più di altre agli effetti del riscaldamento globale, frontiera della ricerca scientifica e, in un futuro prossimo, dell’appropriazione delle immense risorse naturali che i suoi ghiacci hanno gelosamente custodito per decine di migliaia di anni.

In breve, l’Artico si sta scaldando al doppio della velocità rispetto al resto del pianeta e il progressivo scioglimento delle calotte polari avrà effetti di varia natura tanto nella regione, quanto nel resto del mondo. Questo fenomeno è stato ricondotto ad una serie di feedback loop che accelerano in maniera esponenziale la perdita di ghiaccio marino. Ma prima di tutto, che cos’è un feedback loop? Nel complesso sistema climatico, vi sono moltissimi processi che possono innescare un cosiddetto “ciclo di retroazione”, ovvero quando l’input di un sistema, generando un output, induce parte di quest’ultimo a rientrare nel ciclo con effetti più o meno alteranti del sistema stesso. Nelle aree polari ne esiste uno di particolare rilevanza, legato alla presenza di ghiacci e neve: l’effetto albedo. In fisica, si tratta della quantità di luce solare riflessa nello spazio da superficie bianche o di colore chiaro. L’albedo di una superficie è la misura di quanto è riflettente della luce solare: più bassa è l’albedo, maggiore è la luce (e il calore) che la superficie assorbe. Nel caso dell’Artico, il fenomeno può essere descritto in questo modo: la riduzione della copertura dei ghiacci marini dovuta allo scioglimento aumenta la proporzione di acqua esposta alla radiazione solare, riducendo così la porzione di superficie riflettente e amplificando l’assorbimento di luce nell’area. Come corollario, l’accresciuto assorbimento di raggi solari aumenta la temperatura superficiale del mare e questo, a sua volta, induce ad aumentare il tasso di scioglimento della rimanente calotta, dunque esponendo ancor più superficie marina e così perpetuando il ciclo retroattivo. In Artide d’inverno si formano circa 15.500.000 kilometri quadrati di banchisa e d’estate la metà della superficie si scioglie: se il trend descritto accelererà, le implicazioni saranno enormi. Non solo porzioni più o meno estese del Mar Glaciale Artico diventeranno relativamente percorribili e aperte alla navigazione – specialmente nelle stagioni più calde e lungo la Northern Sea Route – ma ciò comporterà maggiori volumi di acqua dolce nell’oceano artico, con effetti sulla circolazione oceanica, sui livelli dei nutrienti marini, sul tasso di acifidicazione degli oceani e della produttività e diversità biologica degli ecosistemi marini e non. Senza contare, come detto in precedenza, la perdita di uno dei maggiori alleati naturali nel contrasto all’aumento delle temperature globali: i ghiacci e la neve fresca riflettono il 95% delle radiazioni solari, proiettandole nello spazio e di fatto contribuendo così a “raffreddare” l’atmosfera terrestre, mentre gli oceani “solo” il 10%. Come confermato da uno studio pubblicato sulla rivista dell’Accademia delle Scienze negli USA nel 2014, la recente perdita di ghiacciai ha corrisposto ad un aumento dell’atmosfera del 25% di emissioni di gas serra. Inoltre, in maniera controintuitiva, non è tanto lo scioglimento dei ghiacciai marini a influire drasticamente sull’innalzamento del livello del mare: lo è piuttosto quello della calotta artica della Groenlandia, isola ricoperta all’80% da ghiacci spessi oltre 3 km in alcune zone. Un recente studio condotto dalla NASA e dall’ESA – European Space Agency, ha stimato un aumento tra 70 e 130 millimetri del livello globale degli oceani entro il 2100 se dovesse proseguire l’attuale trend nella perdita dei ghiacci dell’isola.

 

Il clima surriscalda anche la geopolitica

Considerata l’entità e la complessa interdipendenza di questi fenomeni, è quindi essenziale guardare all’Artico come una sorta di benchmark relativamente alle implicazioni dirette e indirette – gli analisti americani tendono a definirli strategic spillover – indotte dal cambiamento climatico. Potremmo suddividerle in tre gruppi: gli effetti sulla disponibilità di risorse naturali; sulle attività industriali e marittime presenti e future; e sugli equilibri geopolitici e dunque sullo status quo della governance regionale. Partiamo dal primo. L’interesse delle nazioni artiche come Russia, Canada, Stati Uniti, Norvegia, Danimarca (e anche degli Stati artici “osservatori” come la Cina) è cresciuto in maniera considerevole dopo la pubblicazione di un importante rapporto dell’US Geological Survey nel 2008. Secondo le stime dei geologi americani, sotto le calotte e nelle zone offshore la regione custodirebbe 90 miliardi di barili di petrolio, circa 1,700 trilioni di piedi cubici di gas naturale e 44 miliardi di barili di gas condensato. Il 30% del petrolio il 66% del gas artici si troverebbero all’interno della Zona Economica Esclusiva della Russia – la nazione artica più popolosa, con la maggiore estensione territoriale e gli asset (tecnologie e infrastrutture) necessari ad un eventuale estrazione. Pertanto, l’Artico rappresenta per molti l’ultima frontiera nello sfruttamento delle risorse fossili del pianeta, e la prospettiva dello scioglimento dei ghiacciai rende potenziali investimenti in attività esplorative più praticabili. Ma non si tratta soltanto di combustibili fossili: paradossalmente, l’aumento delle temperature artiche sta aprendo anche la possibilità di sfruttare immensi giacimenti di minerali e metalli rari critici e strategici (terre rare, litio, rame, zinco ecc.) per il dispiegamento delle tecnologie rinnovabili, tanto sulla terraferma quanto nei suoi fondali, oltre ad aprire spazi marittimi per gli impianti eolici offshore. È evidente che l’Artico rappresenti una singolarità geologica nel panorama mondiale, foriera di competizione e attriti diplomatici sull’attuale architettura giuridica (UNCLOS) per l’accesso alle sue riserve (quelli che potremmo definire “effetti strategici”) [2]. Tuttavia, secondo alcuni studi un eventuale aumento del consumo di combustibili fossili – come ha riportato l’International Energy Agency, petrolio e gas sono responsabili del 55% delle emissioni climalteranti seguiti dal carbone al 45% – e delle temperature su scala globale potrebbe avere effetti sulla sicurezza delle operazioni estrattive già in corso o futuribili in Artico, dal momento che lo scioglimento degli strati superficiali (come il permafrost) rende instabili le piattaforme e influisce anche sulla composizione chimica delle riserve fossili negli strati più profondi. Questo potrebbe impattare significativamente tanto i costi operativi, quanto indurre regolamentazioni ambientali sempre più stringenti per prevenire i disastri ambientali. Dunque, consentire l’estrazione e il consumo di idrocarburi potrebbe avere nel medio-lungo periodo “effetti eco-sistemici” indesiderati. Proprio per quanto spiegato nelle pagine precedenti, l’aumento delle temperature oceaniche in Artico potrebbe da una parte favorire la crescita eccessive di alghe marine. Le alghe marine, seppur siano componenti essenziali dell’ecosistema marino – in quanto favoriscono l’assorbimento della CO₂ (un meccanismo equiparabile alle piante terrestri), la riduzione dell’acidità e della temperatura dell’acqua – se soggette ad una crescita incontrollata sottrarrebbero preziosi nutrienti per le altre specie, soprattutto i pesci, alterando intere catene alimentari e così la disponibilità degli stock già sotto pressione per la crescita della domanda globale; inoltre ciò potrebbe consentire il rilascio di ingenti quantità di metano (il secondo più importante gas climalterante) e nutrire ulteriormente il ciclo retroattivo e, infine, inficiare in maniera irreversibile la presenza del permafrost sui cui sono installate le infrastrutture idrauliche e di supporto alle attività estrattive. In sostanza, la serendipità delle ricerca delle risorse artiche potrebbe indurre a maggiori regolamentazioni ambientali e così disincentivare il business energetico.

In secondo luogo, lo scioglimento dei ghiacci artici sembra poter rivoluzionare completamente la geografia dei trasporti marittimi e così le arterie della globalizzazione come non mai dal 1950. Secondo alcuni esperti, la Norther Sea Route (NSR) – che risulta essere la più promettente rispetto al Northeast & Northwest Passage e alla Transpolar Sea Route – lungo le coste russe potrebbe essere completamente libera dai ghiacci entro il 2050 nei mesi estivi se il trend corrente dovesse proseguire, diventando potenzialmente una rotta commerciale alternativa al Canale di Suez in termini di giorni di navigazione (21.000 km – 12,800 km: circa 10-15 giorni). In particolare, la compresenza di ingenti riserve energetiche e il vantaggio logistico e di un network di trasporti più avanzato rispetto ai rivali statunitensi e canadesi potrebbe dare alla Russia un vantaggio geostrategico importante, specialmente se combinato alle potenzialità commerciali con la Cina (che nutre significativi interessi economici nella regione). Tuttavia, come evidenziato da un rapporto commissionato da Intesa Sanpaolo e dal centro studi SRM Services sulle potenzialità economiche del trasporto marittimo nella regione, vi è un generale consensus sul fatto che la NSR sia e possa essere nel prossimo futuro «principalmente un corridoio energetico piuttosto che una rotta marittima per i container economicamente profittevole». Questo alla luce dell’imprevedibilità dei cambiamenti climatici in Artico, alla difficoltà di costruire un sistema di monitoraggio e di controllo delle rotte, di problemi di sicurezza e di responsabilità giuridica nelle operazioni di search&rescue, alla mancanza di investimenti coordinati che possano supplire ai maggiori costi di trasporto dovuti ai fattori geo-climatici e soprattutto alla mancanza di un vero e proprio mercato di sbocco regionale e di interoperabilità tra le infrastrutture che possa giustificare gli investimenti. Vi sono poi le incertezze legate alle conseguenze di una maggiore intensità del traffico marittimo, in termini di impatti delle emissioni, di compatibilità con la flora e fauna marittima, di gestione di eventuali disastri ambientali e della stima delle ripercussioni nonostante siano stati raggiunti importanti accordi internazionali (come il Polar Code del 2009 e la recente regolamentazione introdotta dall’International Maritime Organization).

 

L’Artico e lo sviluppo sostenibile

La compresenza di opportunità e limiti nella corsa alle risorse in Artico per via dei cambiamenti climatici rappresenta un dilemma internazionale di non semplice risoluzione dal punto di vista della governance. Come sostenuto dai principali esperti, l’Artico ha goduto per decenni, e principalmente dopo la fine della Guerra fredda, di un’intensa fase di cooperazione tra i Paesi coinvolti soprattutto per i mutui benefici della ricerca scientifica. Oggi le opportunità offerte dalla tecnologia e dalla scienza hanno esteso questa cooperazione ben oltre il circolo polare, raggiungendo lo spazio e il possibile utilizzo di satelliti e tecnologie spaziali per il monitoraggio del clima, dell’ambiente e degli ecosistemi della regione. Il successo del Consiglio Artico rappresenta, dal punto di vista politico, la suggellazione di questi sforzi condivisi e multilaterali. Tuttavia, gli scenari che si aprono con le conseguenze del riscaldamento globale in Artico non possono assicurare che questi equilibri possano reggere nel prossimo futuro. La decisione sull’estrazione degli idrocarburi artici e il potenziale sviluppo della NSR a scopi marittimi e commerciali rappresenta un problema di governance che riguarda anche lo sviluppo economico delle nazioni e comunità artiche interessate ma che potrebbe avere conseguenze ben al di là del Polo. Da una parte, assistiamo ad una narrazione che vuole affrontare le problematiche ambientali da un punto di vista regionale e che difende il diritto delle nazioni artiche di sfruttare le proprie risorse enfatizzando la volontà di impiegare modalità e tecnologie eco-compatibili. Dall’altra, vi è invece una posizione che guarda all’Artico da una prospettiva globale: «What happens in the Arctic does not stay in the Arctic». E non si tratta solo di una frase ad effetto, ma accomuna una vasta platea di esperti – dalla comunità scientifica ai governanti, passando per la società civile e gli attori economici. Come è emerso dall’ultima edizione della Conferenza internazionale Arctic Connections. Sustainable Development in the Arctic: how do we succeed? tenutasi a Roma tra il 26 e il 27 ottobre 2021 presso la sede della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI).

La storia della SIOI, ora guidata dal Presidente Franco Frattini, ex Ministro degli Esteri e già Rappresentante Permanente d’Italia presso le Nazioni Unite, si è negli ultimi anni fortemente intrecciata con i destini artici. Lo vuole una tradizione italiana, tra esploratori e ricercatori, scienziati e pionieri, che ha visto il nostro Paese fortemente attivo nella regione – oltre ad essere un membro osservatore permanente del Consiglio Artico [3].

Ai saluti introduttivi del Presidente Frattini e di Benedetto Della Vedova – Sottosegretario di Stato del MAECI – sono seguiti quelli di Morten Hoglund, funzionario del governo norvegese per l’Artico e di Arne O. Holm, capo redattore del quotidiano online High North News. L’Artico rappresenta una grande opportunità, anche per l’Italia, come terreno su cui testare «la transizione energetica» ha rimarcato Frattini, chiaramente «al centro del PNRR del Governo Draghi» e alla luce di una storica e «e fruttuosa cooperazione tra ENI e Regno di Norvegia». La possibilità di conciliare lo sviluppo dell’Artico nell’ottica della transizione ecologica non si basa su fondamenta politiche instabili, piuttosto il funzionamento della governance nella regione rappresenta «uno dei migliori esempi di come la cooperazione internazionale possa funzionare». E questo è ancor più rilevante alla luce della «dimensione umana» che l’Artico custodisce, nei saperi e nelle tradizioni delle comunità autoctone presenti che più di tutte rischiano di patire gli effetti del cambiamento climatico sulla loro terra. E si tratta di un approccio – quello della transizione verde, sostenibile e giusta – che caratterizza anche la nuova strategia artica della Commissione europea e che passerà «dall’importanza della cooperazione tra UE e Norvegia», come ha ricordato l’Ambasciatore di Norvegia in Italia Johan Vibe, in collegamento, per ricercare soluzioni tecnologiche ed energetiche che siano compatibili con l’ecosistema artico [4].

Soluzioni a problemi che l’incedere del cambiamento climatico in Artico continua a ricordarci quanto saremmo vicini, in assenza di misure drastiche, ad una potenziale catastrofe. Capire l’Artico è insomma un primo e doveroso passo per comprendere la portata della crisi climatica globale. E in questo senso «l’attività della SIOI» ha ricordato il Sottosegretario Della Vedova, «svolge un ruolo primario nel diffondere una consapevolezza diffusa di questi temi nel dibattito pubblico italiano». Perché «contrastare il cambiamento climatico è una questione di importanza strategica» per preservare «la stabilità globale e il futuro progresso economico». E farlo a partire dall’Artico, prima linea della crisi climatica, è doveroso anche per un Paese come l’Italia che gode già di «una lunga storia di coinvolgimento nella regione – della quale l’attività di ricerca scientifica è stata di primaria importanza».

Alla luce di queste importanti osservazioni sono seguiti tre panel di grande interesse e dedicati alle diverse prospettive (economiche, tecnologiche e sociali) e potenzialità di uno sviluppo sostenibile in Artico. Una regione che offre, come detto, immense risorse energetiche e minerarie tra le banchise e nei suoi fondali marini, che potrebbero scatenare una frenetica corsa alle risorse, deragliata dai binari in linea con le priorità della comunità internazionale e locale e particolarmente dannosa per il suo già fragile ecosistema.

Tra i tanti e illustri ospiti, dal mondo accademico a quello istituzionale e privato, sono intervenuti in sequenza, con l’abile moderazione di Bard B. Michaelsen (Arctic University of Norway): Manfred Hafner (Fondazione ENI Enrico Mattei, FEEM), Monica Paulsen (Kunnskapsparken Helgeland), Matteo Chiesa (Arctic University of Norway), Ernesto Ciorra (ENEL), Stefania Bati e Marco Demo (UN Youth Delegates Italy) Michael Mann (Ambasciatore della Commissione europea per l’Artico), Massimo Mapelli (La7), Ingvild B. Kielland (Sparebank1), Tommaso Murè (Presidenza del Consiglio dei Ministri), Raphael Goulet (Commissione europea), Bruno Versini (e-Geos), Grammenos Mastrojeni (Unione per il Mediterraneo), Carlo Barbante (CNR), Ola Grabak (European Space Agency) e Carmine Robustelli (MAECI).

Un parterre davvero prestigioso che ha arricchito la discussione con interventi e osservazioni cruciali per comprendere la portata dei cambiamenti in Artico. Una regione che sembra molto lontana dalla nostra quotidianità, ma nulla potrebbe essere più lontano da tutto ciò. Perché quello che succede in Artico non rimane in Artico e avrà profonde conseguenze nella vita di tutti noi. È la cruda realtà. Il destino dell’Artico si propaga su scala globale dal momento che le emissioni dovute al consumo e all’estrazione di petrolio, gas e carbone hanno un impatto climatico slegato dalla loro posizione geografica. Dunque, è pertanto comprensibile e sempre più auspicabile che attori artici, e non, siano interessati a non fare delle contese geopolitiche un ulteriore tipping point nella lotta ai cambiamenti climatici e alla tutela dell’ambiente, specialmente in Artico. Una regione di “frontiera” che rimarrà, nel prossimo futuro, un difficile trilemma – tra clima, risorse e geopolitica.


[1] In Antartide vige una “sospensione delle sovranità” con il Trattato di Washington (1959), il quale stabilisce che l’area non è soggetta alla sovranità di alcuno Stato proprio perché non appropriabile e che sia oggetto soltanto della ricerca scientifica. Il successivo Protocollo di Madrid (1991) ha inoltre dichiarato l’Antartide patrimonio ecologico mondiale, riserva dedicata alla pace e alla scienza, e stabilito una moratoria di 50 anni su ogni attività mineraria.

[2] La United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS) è stata concepita per fornire una cornice di regole applicabili a qualsiasi mare o oceano del mondo. Adottata nel 1982 dopo circa un decennio di negoziazioni in sede ONU, l’UNCLOS è entrata in vigore nel novembre del 1994: composta da 320 articoli (più 9 annessi), la Convenzione ha definito tutte le disposizioni a cui gli Stati devono conformarsi e creato l’International Tribunal for the Law of the Sea con sede ad Amburgo. Il Tribunale ha giurisdizione rispetto alle dispute che emergono sull’interpretazione e l’applicazione della convenzione.

[3] L’istituzione politica e intergovernativa che raccoglie i leader e i rappresentanti delle nazioni e le comunità indigene artiche, oltre ad un cospicuo gruppo di Paesi terzi interessati alle dinamiche della regione.

[4] L’Unione Europea ha di recente lanciato la sua nuova Arctic Policy con un focus specifico sullo sviluppo sostenibile, sull’energia rinnovabile e la proposta di estendere una moratoria sull’estrazione di combustibili fossili, https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/IP_21_5214

Scritto da
Alberto Prina Cerai

Dopo le lauree all’Università di Torino e all’Università di Bologna, ha svolto un periodo di ricerca presso il King’s College di Londra. Ha completato in seguito un Corso Executive in Affari Strategici presso la LUISS School of Government, una PhD Summer School con Politecnico di Milano-EIT Raw Materials su materiali critici ed economia circolare e un Master con la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI). Attualmente collabora con Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e LUISS University Press, oltre a svolgere attività di consulenza e analisi.

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