Recensione a: C. Alessandro Mauceri (a cura di), Guerra all’acqua. La riduzione delle risorse idriche per mano dell’uomo, Rosenberg & Sellier, Torino 2016, pp. 208, 17 euro (scheda libro).
Scritto da Gabriele Sirtori
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“Petrolio”: tempo fa era questa la parola magica usata per spiegare intricate vicende geopolitiche in parti del mondo povere o in via di sviluppo. Le linee tratteggiate degli oleodotti in fase di costruzione, le macchie nere e grigie dei giacimenti di petrolio e gas e i simboli stilizzati delle raffinerie sono divenuti un elemento comune sulle cartine di molte aree del Nord Africa, del Medio Oriente o dell’Asia Centrale. Capire la politica mondiale sembrava significasse capire i movimenti del greggio.
Oggi la situazione si profila molto diversa. Tensioni come quella tra Tibet e Governo cinese, Etiopia ed Egitto, Turchia e minoranze curde, Governo siriano e ribelli, governo Israeliano e palestinesi e persino le recentissime proteste anti-governative in Iran possono avere una spiegazione che non ha alcuna relazione con gas o petrolio. Si tratta di lotte per il controllo di un’altra risorsa scarsa: l’acqua.
Nel volume a cura di C. Alessandro Mauceri si disegnano nuove cartine, nuove linee di faglia di una società internazionale che, all’alba del terzo millennio, sta affrontando la sfida più grande della sua storia: gestire il cambiamento climatico. Una combinazione di fattori come l’innalzamento delle temperature mondiali, l’aumento della popolazione, la crescente urbanizzazione, l’incremento della domanda di energia elettrica, la deforestazione e la desertificazione hanno profondamente alterato la domanda e la disponibilità idrica in molte parti del mondo. Ne consegue che oggi 500 milioni di persone vivono in luoghi dove il consumo di acqua è doppio rispetto alla quantità fornita dalle precipitazioni annue, 884 milioni non hanno accesso all’acqua potabile, quasi 2 miliardi hanno accesso solo ad acque contaminate ed entro il 2030, se i consumi idrici resteranno invariati, il mondo potrebbe far fronte ad un deficit di acqua pari al 40%. Di questo passo, secondo quanto riportato da Mauceri, nel 2040 saranno 160 gli Stati che affronteranno il problema dell’insufficienza delle risorse idriche sui propri territori.
Quel che emerge più chiaramente dal libro è l’intima relazione tra l’acqua e i piani di sviluppo economico degli Stati: le principali destinazioni delle risorse idriche oggi infatti sono l’irrigazione di terreni agricoli, l’allevamento di animali, la produzione di energia e gli usi industriali. Il consumo di acqua dolce per agricoltura e allevamento ad esempio si attesta intorno al 70% del consumo totale, con punte che in alcuni paesi raggiungono il 95%. Una quota elevatissima se si considera che solo il 20% della superficie agricola mondiale vive grazie all’irrigazione. Eppure, nonostante la bassa percentuale, quest’area è responsabile del 40% della produzione agricola globale, dimostrandosi così molto più produttiva dell’80% che si basa sull’apporto idrico pluviale. Per questo motivo, nonostante il tremendo impatto sui consumi idrici, i paesi dell’area OCSE da soli spendono ogni anno 347 miliardi di dollari per promuovere un modello di agricoltura intensiva.
Acqua e paradossi dello sviluppo economico
L’aumento della popolazione, spesso letto come positivo per il futuro sviluppo economico di un Paese, ha in realtà effetti sul clima profondamente negativi: a fronte di un fabbisogno maggiore di prodotti agricoli, lo Stato risponde ampliando le aree coltivabili abbattendo foreste o incanalando buona parte dei corsi dei fiumi verso zone aride o semiaride, togliendo acqua alle regioni o agli Stati situati più a valle. Per assurdo che possa sembrare, irrigare terreni aridi, per lo più ad alto contenuto alcalino, contribuisce a concentrare i sali in superficie rendendo quelle terre incoltivabili nel lungo periodo. Il disboscamento invece genera una minore ritenzione delle acque, aumentando il tasso di evaporazione e aggravando la propensione di un corso d’acqua a fenomeni estremi come piene e secche. Tutto questo alla lunga favorisce il processo di impoverimento del suolo, cioè incrementa l’area soggetta a desertificazione abbattendo così la produzione agricola nazionale.
Desertificazione, siccità ed eventi meteorologici estremi sono la prima causa di migrazione al mondo secondo l’International Displacement Monitoring Centre: nel 2016 l’85% di chi ha lasciato la propria casa o la propria terra l’ha fatto per ragioni ambientali. Anche laddove la migrazione sia stata causata da conflitti armati o scontri violenti c’è buona probabilità che questi siano legati a un cambiamento delle condizioni climatiche della zona: secondo alcuni studiosi (Marshall Burke e Edward Miguel) ci sarebbe una forte correlazione tra mutamenti ambientali e possibilità di insorgenza di conflitti armati.
Tutto ciò assume una dimensione geopolitica nel momento in cui osserviamo che nel mondo ben 263 bacini idrici sono internazionali, situati cioè sotto la sovranità di due o più Stati spesso in competizione tra loro su quantità e tipologia di utilizzo delle acque comuni. Di questi, 158 sono gestiti senza alcun tipo di accordo condiviso, aumentando così la probabilità di contenziosi. Spesso infatti i piani economici degli Stati rivieraschi di un dato bacino, specialmente nelle aree del mondo in via di sviluppo, prevedono un prelievo idrico superiore alla effettiva quantità disponibile senza che nessuno di questi Paesi sia disposto a cedere sui propri progetti. In questi casi la costruzione di dighe, sia di accumulo sia per la produzione idroelettrica, canalizzazioni, sbarramenti e altri tipi di infrastrutture da parte di un Paese a monte hanno spesso esiti devastanti per gli Stati a valle: riduzione della portata del fiume, diminuzione della biodiversità, danni all’attività di pesca e all’agricoltura e peggioramento della qualità dell’acqua con danni milionari all’economia. In molti casi questa situazione crea terreno fertile per l’insorgere di conflitti armati.
Nelle pagine seguenti il lettore troverà una lista di casi esemplari di tensioni in atto legate alle risorse idriche presentati nel libro di Mauceri. Per una trattazione completa e approfondita si invita alla lettura.
Egitto ed Etiopia
L’Egitto da millenni trova la sua fortuna nel Nilo, il fiume più lungo dell’Africa e uno dei bacini idrici più grandi del mondo. Nonostante questo oggi il Paese vive in un grave stato di deficit idrico e la situazione non accenna a migliorare. I problemi sono principalmente due: la crescita della popolazione e il rapido deterioramento delle riserve idriche di superficie e sotterranee. Nel 1950 in Egitto si contavano 22 milioni di abitanti, nel 2010 questo numero era già salito a 85 milioni e nel 2050 le proiezioni salgono a 120 milioni. Se queste cifre saranno confermate, la disponibilità idrica pro capite precipiterà notevolmente. Il governo del Cairo infatti sta utilizzando, oltre alle acque del Nilo, le sue riserve idriche fossili: situate molto in profondità, si tratta di una fonte d’acqua non rinnovabile.
Il Paese però continua a dipendere totalmente dal suo maggior fiume. La situazione sarà ancora più grave una volta che sarà completato il progetto della Grand Ethiopian Renaissance Dam, una diga costruita sul Nilo Blu in territorio Etiope e in gran parte finanziate da istituti bancari cinesi. Una volta a pieno regime la diga dovrebbe poter produrre 6000 Megawatt di energia elettrica all’anno. Dal bacino artificiale che si creerà non si prevedono prelievi idrici per uso agricolo, tuttavia la diga è un’arma potente per controllare il flusso del fiume a valle. Per questo nel 2015 Etiopia, Sudan ed Egitto hanno deciso di tutelarsi reciprocamente stringendo un “accordo di bacino” per un uso equo e appropriato dell’acqua.
Turchia
La Turchia è un Paese dalla geografia variegata e, soprattutto nel Sud-Est del Paese, dove la presenza di monti e altipiani permette un notevole apporto idrico. Dal territorio turco nascono i due principali fiumi del Vicino Oriente: il Tigri e l’Eufrate (che non incontra nessun affluente una volta passati i confini turchi). Questi due fiumi costituiscono il 98% della disponibilità di acqua dolce dell’Iraq. Non stupisce dunque la tensione causata dalla decisione di Ankara di costruire una rete di nuove dighe, laghi artificiali e canalizzazioni per aumentare la produzione di energia idroelettrica e l’area coltivata in Anatolia. Questo piano prende il nome di Güney Doğu Anadolu Projesi, Progetto per l’Anatolia Sud-Orientale (GAP).
Se il progetto dovesse andare in porto questa regione della Turchia beneficerà di 1,2 milioni di ettari in più di terre irrigate, facendo diventare così lo Stato turco una potenza agricola. Per contro il Tigri e l’Eufrate potrebbero subire una riduzione – rispettivamente del 50% e dell’80% – della loro portata. In precedenza la diga Karakaya (completata nel 1988) e la diga Ataturk (1992), avevano diminuito la portata dell’Eufrate in ingresso in Iraq dai 720m2 d’acqua al secondo degli anni ’70 ai circa 260m2 al secondo di oggi. Una riduzione ulteriore sarebbe disastrosa per l’economia dei due paesi a valle: Siria e Iraq.
Siria
C’è soprattutto l’acqua tra le cause scatenanti del conflitto siriano. Tra il 2006 e il 2010 oltre il 60% del territorio è stato attraversato da una siccità acuta. Colpiti sono stati soprattutto i governatorati di Aleppo e Hassakeh (che da soli producevano più della metà del grano nazionale), oltre a quelli di Idlib, Homs e Dara, ovvero quelle città considerate oggi roccaforti dei ribelli antigovernativi. I dati ci dicono che nel 2009, dopo tre anni consecutivi di carestia, la produzione di grano è calata al 55% della quota di produzione media, gli allevatori avevano perso l’85% del bestiame e circa 60 mila famiglie (più o meno 250 mila persone) avevano abbandonato le campagne per trasferirsi in città. A questo numero nel 2010 si aggiunsero ulteriori 50mila famiglie. A questo inurbamento improvviso corrispose un alto tasso di disoccupazione, frustrazione e senso di abbandono da parte dello Stato, imputabile ad una cattiva gestione della crisi. Questi aspetti hanno fatto da catalizzatore per le proteste del 2011 che hanno portato all’intricata situazione odierna. Il conflitto armato e la forte emigrazione poi hanno ulteriormente ridotto la superficie coltivata: nel 2015 è stato raccolto il 40% di grano in meno rispetto a prima dello scoppio della guerra civile.
La siccità non è imputabile solo al cambiamento climatico: da una parte infatti il problema è dovuto alla situazione di stress dell’Eufrate e alla drastica riduzione della sua portata, dall’altra al governo siriano: perseguendo un programma di autosufficienza alimentare, tra la metà degli anni ‘80 e il 2000 ha raddoppiato l’area irrigata (passata da 600 mila a 1,2 milioni di ettari) utilizzando spesso, laddove l’acqua dell’Eufrate non era sufficiente, il pompaggio di risorse idriche dalle falde acquifere. Queste ora sono ridotte a livelli critici sia per quantità che per qualità, tanto che il loro utilizzo in tempo di siccità si è rivelato il più delle volte impossibile. In altre parole, il piano di sviluppo agricolo perseguito da Hafez al-Asad (padre di Bashar), sebbene necessario dato l’aumento della popolazione siriana, dal punto di vista ambientale era semplicemente insostenibile.
Israele
Il caso forse più emblematico del presente e futuro valore geopolitico dell’acqua è la politica adottata da Israele nei confronti dei vicini. Nel 1967 in seguito alla guerra dei 6 giorni le truppe israeliane occuparono il Sinai e la striscia di Gaza egiziani a Sud, le alture del Golan siriane a Nord e la Cisgiordania a Est, sottraendola al governo giordano. Mentre il Sinai è stato restituito al governo del Cairo nel 1979 e la striscia di Gaza ha visto il ritiro delle truppe israeliane nel 2005, la Cisgiordania resta territorio occupato (regolato dagli accordi di Oslo) e le alture del Golan sono considerate unilateralmente parte del territorio israeliano. Per capire le ragioni dietro queste differenze è utile guardare alle disponibilità idriche di ciascuna regione. Laddove il Sinai infatti è una zona quasi totalmente arida, la striscia di Gaza resta un’area costiera le cui falde acquifere, data la vicinanza con il mare, sono altamente saline e scarsamente utilizzabili. Sono aree quindi di scarsa importanza idrica. Ben diverso il discorso per la West Bank e il Golan: con il controllo militare su questi territori Israele ha ottenuto infatti l’accesso al Giordano dalle sue sorgenti (quasi tutte collocate nel Golan) alla sua foce nel mar Morto, ottenendo così l’egemonia su quello che è a tutti gli effetti il più importante fiume della regione tra il Mediterraneo e l’Eufrate. È stato anche grazie a questa manovra che Israele ha ottenuto una disponibilità idrica tale da poter diventare un esportatore di acqua dolce verso gli Stati confinanti.
Questa ricchezza tuttavia non è equamente distribuita: le rive del Giordano infatti sono state dichiarate zona militare, rendendo l’accesso impossibile ai palestinesi. Oltre a questo, nei territori della West Bank sotto controllo militare israeliano è in vigore l’ordine militare n.158 che impone per qualsiasi opera idraulica, dallo scavo di nuovi pozzi alla loro manutenzione, fino alla costruzione e manutenzione di cisterne per la raccolta di acque piovane, di chiedere una speciale concessione governativa. L’ottenimento di questi permessi è particolarmente difficoltoso per i cittadini palestinesi: tra il 1967 e il 1994 (prima cioè degli accordi di Oslo II) sono state concesse solo 20 licenze di perforazione per uso domestico e 3 per uso agricolo, e solo 15 permessi per lavori di manutenzione di pozzi già esistenti.
Gli accordi del 1995 non hanno migliorato la situazione: le zone sotto l’amministrazione dell’Autorità Nazionale Palestinese sono infatti tra loro sconnesse, interrotte da insediamenti, campi e strade costruite da Israele. Inoltre, negli accordi è stato posto un tetto alla captazione di acqua dal sottosuolo da parte dei palestinesi ma nessun limite per i coloni israeliani. Le perforazioni palestinesi possono avvenire inoltre solo in determinate zone in corrispondenza dell’Acquifero orientale che presenta però una cattiva qualità delle acque. Di recente un rapporto Oxfam ha rilevato che i 520mila coloni presenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est nel 2013 utilizzavano 6 volte la quantità di acqua a disposizione dei palestinesi.