Recensione a: Guillaume Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica digitale, prefazione di Stefano Liberti, LUISS University Press, Roma 2019, pp. 211, 20 euro (scheda libro)
Scritto da Alberto Prina Cerai
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Siamo entrati nella terza decade del Ventunesimo secolo. Le sfide che le nostre società si accingono ad affrontare sono molteplici: il cambiamento climatico e la crisi ambientale da una parte, la quarta rivoluzione industriale e una rinnovata competizione geopolitica dall’altra. Di fronte a questi stravolgimenti epocali, a cui i governi e l’opinione pubblica mondiale incominciano a dedicare la necessaria attenzione, sembra emergere un consenso più o meno diffuso sulla stretta complementarità tra un futuro più sostenibile in termini di sviluppo economico e le grandi potenzialità che il progresso tecnologico potrà garantire in questa direzione.
Tuttavia, questa fiducia incondizionata sembra mostrare solo un lato delle cosiddette “tecnologie verdi”, quello che prospetta gli scenari più ottimistici. Nel marzo del 2017, un articolo della rivista Nature poneva il problema in termini molto chiari: «[…] una transizione verso una società ad emissioni zero [è] un cambiamento che richiederà ingenti quantità di metalli e minerali. Le risorse minerarie e il cambiamento climatico sono estremamente legati, non solo perché l’attività estrattiva richiede una grande quantità d’energia, ma anche perché il mondo non potrà affrontare il cambiamento climatico senza un’adeguata fornitura di quelle materie prime necessarie alla produzione delle tecnologie verdi.»[1]
Questo estratto, peraltro riportato anche nell’ultimo rapporto della Banca Mondiale dedicato al crescente ruolo di questi minerali, ben esemplifica il cuore della questione affrontata in La guerra dei metalli rari, edito da LUISS University Press. Perché sono così importanti? Quali costi economici, energetici, ambientali e geopolitici saranno necessari per la loro estrazione, raffinazione e diffusione nel mercato mondiale? Rispondere esaustivamente a tutte queste domande probabilmente richiederebbe molto più che la stesura di un libro. Ciò nonostante, il giornalista francese Guillaume Pitron ci introduce con grande abilità in una realtà ai più sconosciuta e che assume, nel corso della lettura, tratti allarmanti. Dalle miniere abbandonate vicino alla cittadina di La Rochelle, passando per i giacimenti di Baotou nella Mongolia Interna fino ai depositi abbandonati dell’impresa Magnequench nell’Indiana (USA), il viaggio di Pitron non è soltanto un resoconto della geografia di questi giacimenti, percorrendo quelle catene del valore che la globalizzazione ha contribuito a forgiare. È soprattutto un lavoro d’inchiesta approfondito, durato sei anni e supportato da interviste con funzionari, attivisti ed esperti del settore, volto a svelare un’intrinseca contraddizione di un mondo più pulito targato hi-tech: perché questa nuova “rivoluzione industriale” si fonda su una serie di elementi – i “metalli rari” – che per caratteristiche fisico-chimiche e collocazione geografica sono lungi dal poter essere considerati una risorsa universalmente accessibile e sostenibile.
Ma quali sono queste risorse? «Il grande pubblico non ne ha una minima idea», ammonisce l’Autore. Sono una sorta di «principio attivo della crosta terrestre», dotati di proprietà fondamentali e che in natura si ritrovano perlopiù «associati ai metalli abbondanti […] ma presenti in proporzioni spesso esigue» (pp. 23, 30). Germanio, tungsteno, cobalto, berillio, gallio e altri sono componenti chiave per le tecnologie verdi: motori elettrici, pannelli fotovoltaici, marmitte catalitiche e le infrastrutture ICT dipendono dalla disponibilità di questi minerali rari, sfruttandone le proprietà magnetiche. Dunque, secondo le proiezioni, «il capitalismo […] sarà sempre meno asservito ai carburanti delle due precedenti rivoluzioni industriali e sempre più ai metalli della transizione in arrivo» (p. 34). Ma sono soprattutto le cosiddette “terre rare” – una lista di 17 elementi, che include la famiglia dei lantanoidi della tavola periodica come l’ittrio e lo scandio, di fondamentale importanza per innumerevoli applicazioni, dagli schermi LED ai sistemi d’armamento – a gettare un velo d’ombra sulla transizione energetica e digitale, per via delle immense implicazioni ambientali e geopolitiche già confermate, in particolare, dall’attività mineraria e commerciale della Cina.
La dirompente ascesa economica del Dragone è in buona parte dipesa dallo sfruttamento, spesso incondizionato, delle circa 10.000 miniere presenti nel paese, con costi ambientali e sanitari spaventosi. Questo poiché il processo di raffinazione dei metalli rari richiede l’utilizzo di sostanze chimiche, reagenti e ingenti quantità d’acqua, con conseguente inquinamento del suolo, dei corsi d’acqua e dell’atmosfera circostante, oltre ad un aumento esponenziale dei casi di cancro registrati nelle prossimità di questi giacimenti. Non solo il territorio cinese, ma tutti i paesi produttori sarebbero esposti ai medesimi rischi legati all’attività estrattiva, dall’America Latina sino alla Francia. E infatti, allargando lo sguardo, è l’intera filiera produttiva legata al settore minerario e il ciclo di vita delle tecnologie verdi, ammonisce Pitron, che rivela il «lato oscuro» della rivoluzione green tech. Perché per produrre energia pulita serve consumare altrettanta energia, senza contare lo smaltimento dei rifiuti prodotti dalle energie rinnovabili e dei residui stessi dell’industria estrattiva. La stessa economia digitale, che pare smaterializzare l’impatto dell’essere umano sulla Terra, risulta essere un’illusione: «[…] uno studio americano stima che il settore dell’informazione e della comunicazione (ICT) consumi il 10% dell’elettricità mondiale e produca ogni anno il 50% in più di gas a effetto serra rispetto al trasporto aereo». In breve, dalle parole dell’Autore, sembra emergere che la realtà di una transizione energetica che ricorre all’utilizzo di «minerali sporchi il cui sfruttamento è tutto tranne che pulito» sia fortemente trascurata dal dibattito pubblico [pp. 50, 57].
Al pari della questione ambientale, i risvolti commerciali e geopolitici non sono fonte di minor preoccupazione. Ma come si è arrivati a questo punto? Secondo Pitron, il peccato originale risiede nelle scelte operate dalle classi dirigenti e industriali occidentali a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Seppur la distribuzione sia più o meno omogenea su tutto il pianeta, la differenza sostanziale negli scorsi decenni era nel fatto che l’estrazione avveniva in loco, mentre lavorazione e stoccaggio erano perlopiù dominati dalle aziende occidentali (su tutti USA e Francia). Tuttavia, i crescenti costi d’estrazione e la contaminazione dei siti indussero a delocalizzare le proprie industrie inquinanti. All’epoca sembrò una logica economica impeccabile, che non riguardò solamente il settore minerario: in presenza di vantaggi economici, la nostra coscienza ambientale svaniva di fronte alla possibilità di trasferire nei paesi assetati di sviluppo, meno inclini a porsi domande più scomode, costi e rischi ambientali ormai insostenibili nelle società avanzate. Nel frattempo, mentre la globalizzazione veniva celebrata al pari della “fine della storia”, a migliaia di chilometri di distanza dai complessi minerari di Mountain Pass e La Rochelle un gigante dormiente nelle lontane periferie asiatiche, «forte di una produzione annuale di più di centomila tonnellate, si [arrogava] il monopolio delle terre rare» [p. 68]. È in quella deresponsabilizzazione alimentata dalla logica del profitto a breve termine, che andrebbe ricercato uno dei più gravi errori strategici compiuti dall’Occidente dalla fine della Guerra Fredda. La cecità di allora, secondo l’Autore, rischia di minacciare la futura «sovranità mineraria» di ogni paese pronto ad abbracciare quella transizione industriale che altererà complessivamente, secondo gli esperti, i rapporti tra paesi produttori e consumatori come mai accaduto nella storia.
È paradossale come uno dei prodotti della civiltà del tardo Novecento – l’ambientalismo – abbia inconsciamente indotto a trascurare le lezioni del passato. È quanto sembra trasparire dalla tesi dell’Autore. Per secoli una delle leve del potere mondiale consisteva nello sfruttare risorse vitali o, in mancanza, nel controllare le più importanti rotte commerciali e snodi strategici. L’ascesa a potenze globali dell’Impero britannico prima, e degli Stati Uniti poi, è in questo senso lampante. Oggi, è la geopolitica delle terre rare a rappresentare la prossima tappa per il dominio del mondo. E la Cina, come già accennato, è in una posizione di preminenza assoluta, controllando quote di produzione che superano mediamente il 50% per i minerali rari e arrivano addirittura al 95% per le terre rare. Non solo Pechino, ma un gruppo crescente di paesi in via di sviluppo in Asia, Africa e America Latina detiene o è alla ricerca spasmodica del “nuovo petrolio”, mettendo le nazioni occidentali in una posizione commerciale sempre più vulnerabile. Una situazione potenzialmente esplosiva se si considera che il mercato dei metalli rari è estremamente volatile, ristretto e opaco: trattandosi di materiali strategici, considerazioni di sicurezza nazionale potrebbero spesso avere la meglio, intralciando il più classico gioco della domanda e offerta.
Quest’inversione di tendenza è ben rappresentata dalla produzione dei magneti, il vero turning point per l’elettronica moderna. Esplosa a partire dagli anni Ottanta, inizialmente vedeva le industrie giapponesi dominarne tanto la produzione quanto il know-how tecnologico per le innumerevoli applicazioni commerciali. Tuttavia, quando la Cina offrì costi di produzione nettamente più competitivi, il Giappone, gli Stati Uniti e l’Europa non esitarono a trasferirne la produzione («[…] e i loro segreti industriali»), convinti che la Cina e le “Tigri Asiatiche” – per esempio l’Indonesia, a cui l’Autore dedica alcune interessanti riflessioni – non avrebbero tentato di scalare le catene del valore. Tuttavia, avendo deciso di «farsi carico del “petrolio del Ventunesimo secolo», Pechino stava in realtà pianificando di «entrare in conflitto con l’Occidente sulle risorse [al fine] di ambire al segmento di alta gamma delle industrie digitali e verdi una generazione più tardi» [p. 100]. Un conflitto commerciale sopito, che a partire dagli anni Duemila ha visto i cinesi – monopolisti della materia prima – sfruttare il vantaggio competitivo e destabilizzare quelle imprese che avevano deciso di non delocalizzare minacciando di tagliarle fuori dalla supply chain. E così il complesso minerario di Baotou è diventato in pochi decenni la “Silicon Valley delle Terre Rare”. Questo risultato, frutto di un’ibridazione tra il settore estrattivo e la tacita cooptazione delle imprese occidentali ad alto valore aggiunto veicolata dall’utilizzo delle joint ventures, ha portato il Dragone a capitalizzare nel lungo termine una Grand Strategy davvero organica, fatta di investimenti in ricerca e sviluppo e acquisizioni strategiche e alimentata da un desiderio di riscossa nazionalistico. Non stupisce, dunque, come ora la Cina possa legittimamente candidarsi quale leader internazionale nella transizione energetica e tecnologica che si delinea all’orizzonte, scommettendo di fatto contro quell’ordine internazionale a guida occidentale fondato sulle risorse fossili.
Nella parte conclusiva, Pitron restituisce questa incipiente conflittualità ricostruendo alcuni momenti chiave. L’embargo cinese sui metalli rari imposto al Giappone nel 2010, in seguito ad un incidente marittimo, la corsa all’autonomia strategica nel rifornimento di questi materiali essenziali per tutta l’industria militare e della Difesa, o la controversa acquisizione dell’impresa statunitense Magnequench che scatenò il cosiddetto “Chinagate” durante gli anni Novanta sono esempi di come la “guerra dei metalli rari” sia già in atto, con tutte le possibili catastrofiche conseguenze. Dalla conquista dello spazio alla scoperta di nuovi giacimenti oceanici, nuovi «nazionalismi minerari» potrebbero terremotare ulteriormente l’assetto geopolitico globale, inducendo un irrigidimento delle catene del valore e portando a sovrastimare le reali capacità di produzione rispetto alle richieste future di un mondo più sostenibile e hi-tech.
E mentre il mondo si appresta a sperimentare la sua quarta rivoluzione industriale, con le tecnologie del digitale, l’economia della conoscenza e le filiere delle energie rinnovabili, la nostra reale percezione dei costi e delle potenziali criticità di questo nuovo modello di sviluppo rimane fortemente influenzata da un’altra realtà, ugualmente minacciosa: quella dei cambiamenti climatici. Ciò nonostante, ci ricorda l’Autore, «i successi diplomatici, le ambiziose leggi di transizione energetica e le più appassionate arringhe ecologiche saranno inutili se non avremo a disposizione quantità a sufficienza di questi metalli» [p. 136]. Come conciliare, dunque, l’interesse dell’umanità alla coabitazione con l’ambiente all’interesse di quelle nazioni che, sempre di più, guardano ai metalli rari come una leva fondamentale per il potere mondiale? Come frenare la corsa indiscriminata al loro sfruttamento e così governare con successo la transizione energetica e digitale? E soprattutto, i costi-benefici della green economy saranno tali da calmierare la guerra per i metalli rari? Seppur questo volume non offra ricette a questioni così complesse, il che sarebbe ben lontano dai suoi propositi, il merito di Pitron sta proprio nell’aver posto le domande più taglienti in un momento catartico. Poiché, paradossalmente, il «progetto di ridurre l’impatto dell’uomo sull’ecosistema […] ha in realtà reso ancora più ferrea la nostra stretta sulla biodiversità» [p. 155].
[1] Ali, S., Giurco, D., Arndt, N. et al., Mineral supply for sustainable development requires resource governance, Nature, N. 543, pp. 367–372, cit. p. 367 (2017).