Recensione a: Francesca Balestrieri e Luca Balestrieri, Guerra digitale. Il 5G e lo scontro tra Stati Uniti e Cina per il dominio tecnologico, Luiss University Press, Roma, 2019, pp. 116, 15 euro (scheda libro)
Scritto da Alberto Prina Cerai
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Nel corso della storia la tecnologia ha avuto implicazioni decisive tanto per l’economia internazionale quanto nell’alterare gli equilibri di potenza. Durante la Guerra Fredda, i leader americani e sovietici «concordavano sul fatto che lo sfoggio della potenza tecnologica fosse un’arma cruciale nella battaglia internazionale per conquistare i cuori e le menti […]», ma anche per il ruolo centrale delle scoperte scientifiche e tecnologiche «nel benessere dello stato-nazione»[1]. Quello a cui stiamo assistendo nel corso del XXI secolo sono i primi accenni di una nuova corsa verso la supremazia tecnologica, il cui percorso avrà un impatto ancor più decisivo nel plasmare le relazioni internazionali e ogni dimensione della vita collettiva rispetto a quanto sperimentato nel Novecento. Tuttavia, a differenza del recente passato, la rapidità, l’imprevedibilità e gli stessi contenuti della quarta rivoluzione industriale sembrano sfuggire alle logiche che hanno guidato la globalizzazione di matrice liberale. Al contrario, in un nuovo contesto di competizione geopolitica, l’innovazione digitale sembra spingere, più che alla mondializzazione teorizzata negli anni Novanta, ad un vero e proprio «clash of automations».
In questa cornice interpretativa si inserisce il libro di Francesca Balestrieri e Luca Balestrieri, edito da Luiss University Press. In un centinaio di pagine gli autori riescono a condensare, con una chiarezza espositiva esemplare, gli aspetti e gli attori chiave di questa corsa per la supremazia tecnologica che scandirà i prossimi decenni. Fin dal titolo, il lettore è indotto a riflettere sulla dimensione estremamente conflittuale che già caratterizza l’emergente bipolarismo tra Stati Uniti e Cina, ovvero i due paesi che – per ragioni strutturali e strategiche, come si vedrà – si collocano in una dimensione superiore nelle gerarchie di potenza, soprattutto nella corsa al dominio tecnologico. Non è forse un caso che nel libro venga dedicato poco spazio all’Unione Europea, per ora confinata ad un ruolo di secondo piano.
A livello metodologico, ciò che colpisce nella prima parte del volume è la limpidezza con cui Francesca Balestrieri e Luca Balestrieri delineano il quadro generale, necessario per capire le peculiarità della seconda fase della rivoluzione digitale: stiamo assistendo ad una svolta tecnologica radicale, che si pone tuttavia in una discontinuità di duplice natura con la precedente. La prima concerne la natura stessa della digitalizzazione, che sarà la chiave per accedere allo sviluppo economico, culturale e sociale del XXI secolo. L’innovazione digitale dei prossimi decenni seguirà cinque grandi frontiere tecnologiche: i computer quantistici, l’intelligenza artificiale (reti neurali, machine e deep learning), l’Internet of Things (IoT), la cognitive automation e il 5G. Seppur con proprie complessità tecniche e scientifiche, il progresso in ciascuno di questi settori è strettamente collegato all’altro e ne condivide una necessità: l’accesso a una grande mole di dati. Considerati «l’oro nero del nuovo millennio», il volume dei Big Data è destinato a superare, entro il 2022, i 150.000 gigabyte al secondo grazie all’aumento della «produttività digitale degli individui» e alla progressiva integrazione dell’IoT. Tuttavia, senza un’adeguata capacità di calcolo e di estrapolazione dei dati – e qui entrano in gioco l’intelligenza artificiale e i supercomputer – questa immensa mole di materiale digitale rischierebbe di creare un’inflazione di informazioni senza un’immediata ricaduta, economica e operativa, nel mondo reale. Ed è infatti nella creazione di «ecosistemi digitali» che va ricercata la cifra economico-sociale della rivoluzione tecnologica: smart cities, automazione intelligente e machine learning consentiranno la gestione di sistemi complessi, come il monitoraggio del clima, l’agricoltura sostenibile e il controllo di intere filiere produttive ad alto valore aggiunto. Ma come in tutte le grandi rivoluzioni industriali del passato, è necessaria un’adeguata infrastruttura in grado di connettere il software (AI e machine learning) e le macchine (l’universo dell’IoT). La tecnologia delle reti di quinta generazione, il 5G, offre questa opportunità, in quanto riduce la latenza (il ritardo nella trasmissione-ricezione dell’informazione) e gode di una flessibilità informatica tale da consentire alla rete stessa di adattarsi alla dinamicità dei servizi e sistemi informatici. Non è dunque sorprendente il tono e la forma che ha assunto la recente disputa tra USA e Cina, poiché «chi controlla le tecnologie del 5G controlla un abilitatore indispensabile allo sviluppo» (p.34).
Verso quale direzione prenderà lo sviluppo economico nella seconda fase della rivoluzione digitale resta, tuttavia, da capire. Quanto inciderà, per esempio, la digitalizzazione sui tassi di crescita e sulla produttività? Quali sono i rischi e i benefici per i lavoratori? Se la questione della creazione o distruzione di lavoro rimane oggetto di intenso dibattito, la preoccupazione degli autori nel riportare gli ultimi studi si fa emergenziale rispetto al tema delle disuguaglianze, in quanto dell’innovazione digitale – e dunque dei guadagni sulla produttività – potrà beneficiare un bacino di lavoratori più o meno esposti a seconda del livello di istruzione e reddito: un processo che in letteratura economica è conosciuto come “skill-biased technological change”. Come avvertono gli autori, il «problema, insomma, non sarà tanto la disoccupazione tecnologica (pur da non minimizzare) quanto la riduzione della quota di ricchezza destinata a remunerare i nove decimi della forza lavoro» (p.40).
Sono i rischi e i benefici dell’economia della conoscenza, un modello che tende a discostarsi tanto dalla retorica del mondo piatto a cui siamo stati abituati a credere nei decenni scorsi, quanto dalla sua presunta universalità. Infatti, sviluppare ciascun elemento di questo «cluster tecnologico» nelle sue piene potenzialità rappresenta una sfida a cui i colossi digitali, in stretta collaborazione con i governi, puntano nei prossimi decenni. Ed è proprio questa nuova forte simbiosi tra innovazione, economia e progettualità politica a rappresentare la seconda discontinuità rispetto all’idea del primato del mercato nell’economia in contrapposizione all’inefficienza dello Stato, perché sono gli stessi contenuti della rivoluzione digitale a richiederne una maggiore presenza. L’economia digitale, basata sull’estrazione ed elaborazione dei dati che giacciono in ogni dimensione della vita sociale, politica ed economica, geolocalizza l’attività produttiva in ciascuna persona fisica e giuridica, laddove consumatore e produttore si fondono in una nuova dimensione ibrida tra l’io fisico e l’io digitale. Ne consegue che politica ed economia si scoprono, necessariamente, dipendenti per la gestione e l’accesso ai Big Data e, dunque, per la piena realizzazione delle potenzialità del digitale. Detto ciò, vi sono tuttavia due notevoli criticità, relative ad un potenziale deficit di fruibilità dei dati. La prima è indotta, e riguarda l’illiberalità dell’intrusione nella sfera privata degli individui, in quanto la privacy viene sostanzialmente «trasformata in materia prima per l’economia digitale» (p.15). La seconda è di natura strategica: i limiti nella capacità effettiva di ciascuno Stato di accedere ai flussi, alle supply chain e alle tecnologie che determineranno i rapporti di forza internazionali del futuro. La combinazione di questi due fattori, domestico e strategico, sarà cruciale per stabilire tanto il grado di prontezza di ciascuno Stato ad abbracciare e a governare le sfide del digitale, quanto la sua subordinazione a nuovi spazi che gli autori non esitano a definire «imperiali», in una nuova logica centro-periferia in cui distretti digitali o mega-regioni sono e saranno in grado di creare una quantità di ricchezza pari al PIL di intere nazioni. Stati Uniti e Cina, in questo senso, già possiedono quelle caratteristiche per ergersi al rango di superpotenze digitali e così promotori di due modelli di sviluppo tecnologico dal tratto comune: una nuova forma di collaborazione tra Stato e oligopoli digitali.
Una premessa teorica che ci aiuta a capire come questa nuova compartecipazione Stato-imprese sia intrinseca dell’era digitale ci viene fornita, paradossalmente, dalla distinzione tra capitalismo liberale e politico offerta da Branko Milanović. Il primo – guidato dagli USA – prevede un «sistema liberale meritocratico» che concentra la maggior parte della produzione nel settore privato, consentendo la proliferazione dei talenti tramite diritti e opportunità democratiche; il secondo – esemplificato dalla Cina – baratta alti tassi di crescita con limitati diritti civili e politici. Seppur generica, questa definizione ci consente di non perdere di vista il focus centrale del libro: seppur si tratti di due modelli differenti per quanto riguarda il rapporto tra Stato e società civile, tuttavia rappresentano due facce dello stesso capitalismo se consideriamo l’innovazione tecnologica come driver per lo sviluppo. I fatti, in entrambi i paesi, sembrano confermare questa tendenza, seppur con alcune differenze.
Se consideriamo l’esplosione dell’e-commerce in Cina (la cui quota di mercato raggiunge il 42,4% a livello globale!), spiegano Francesca Balestrieri e Luca Balestrieri, noteremo che la leadership acquisita dai colossi BAT (Baidu, Alibaba e Tencent) è avvenuta tanto a discapito di concorrenti occidentali (Google e Amazon) quanto saltando, di fatto, una tappa della digitalizzazione, ovvero passando dai pagamenti cash a quelli online tramite app (smartphone) senza il passaggio intermedio delle carte di credito. Questo poiché i colossi digitali cinesi, a differenza dei competitor esteri, hanno compreso maggiormente le esigenze dei consumatori cinesi e allo stesso tempo beneficiato della programmazione tecnologico-industriale di Pechino. Lo stesso piano “Made in China 2025”, che punta a ridurre la dipendenza del Paese dal know-how straniero in settori strategici (AI, cybersecurity, ICT etc.), è anche e soprattutto dettato dalla volontà di «ridefinire il rapporto dell’industria nazionale all’interno della globalizzazione» (p.57). Da manifattura del mondo, la Cina vuole ricollocarsi all’interno dell’interdipendenza globale in una posizione di maggior forza negoziale, specialmente per quanto riguarda la supply chain dell’Industria 4.0 e l’intelligenza artificiale. Inoltre, le applicazioni di quest’ultima sconfinano ben oltre il settore commerciale: ridurre il gap in ricerca e sviluppo con gli Stati Uniti rappresenta anche una sfida alla loro supremazia militare, con inevitabili conseguenze in termini di sicurezza nazionale.
Una crescente preoccupazione scuote, non a torto, l’establishment americano, che ha definito Pechino negli ultimi rapporti governativi come un «competitore strategico» e ha portato a rielaborare una nuova strategia di sicurezza nazionale: stringente, in cui il perimetro per la difesa della sovranità sarà tracciato dal livello di supremazia tecnologica che gli USA sapranno garantirsi. Un segnale, in questo senso, «si è avuto [registrando] uno spostamento nel baricentro degli investimenti in ricerca e sviluppo nei settori tecnologicamente rilevanti per la Difesa dal governo verso le imprese» (p.77). Più di sessant’anni fa, sull’onda dell’isteria post-Sputnik, l’ascesa del complesso militare-industriale rispondeva all’esigenza di dimostrare ai sovietici come la dinamicità dell’american way of life potesse sostenere e garantire – con i contributi pubblici – una superiorità tecnologica inarrivabile. Oggi, come mostrano gli Autori, quel modello sembra persistere, ma declinato in termini opposti: gli investimenti della Difesa e del governo tendono a favorire aziende e imprese particolarmente virtuose sul piano dell’innovazione tecnologica, come dimostra una recente commessa di 10 miliardi di dollari del Pentagono ad Amazon. Questa privatizzazione della sicurezza nazionale, tuttavia, non deve farci dimenticare quanto quest’ultima rimanga la cifra per orientare gli investimenti: l’ordine esecutivo firmato da Donald Trump sul mantenimento della leadership americana nel campo dell’intelligenza artificiale ben rappresenta il paradigma dello “Stato innovatore” proprio della rivoluzione digitale. Questi due aspetti sembrano suggerire, anche nel caso americano, un «modello di integrazione Stato-imprese fondato sull’incanalare risorse pubbliche per il rafforzamento della competitività sul mercato di soggetti privati» (p.81).
Delineati i modelli, stabiliti i player, Francesca Balestrieri e Luca Balestrieri dedicano particolare attenzione alla questione controversa del 5G, che rappresenta il primo fronte d’attrito. Come si è anticipato precedentemente, senza questa tecnologia gli ecosistemi digitali – e la ricchezza da essi generati – sarebbero impensabili. Ad un primo sguardo, il mercato degli apparati 5G vede gli USA in netto svantaggio, con una salda leadership cinese (Huawei-ZTE) ed europea (Ericsson-Nokia). Il controllo delle supply chain legate al 5G rappresenta una leva geopolitica di non poco conto: acquisirne il monopolio di produzione comporta il condizionamento dell’intero sviluppo del cluster tecnologico, dunque della primaria leva di sviluppo digitale. Ciò nonostante, se guardiamo le componenti hardware chiave la situazione è decisamente diversa: compagnie informatiche americane come Broadcom, per esempio, controllano la costruzione di core, router e microchip sui quali la Cina paga tanto un ritardo tecnologico quanto un disavanzo commerciale non indifferente. Tagliare la Cina fuori dal mercato di queste componenti o software, come avvenuto nel corso della controversia con Huawei, o di converso minacciare di escludere le imprese americane da importanti rifornimenti di materiali e minerali strategici (le cosiddette “terre rare”) sono tattiche che, aldilà di terremotare l’impianto multilaterale costruito con la globalizzazione, mostrano quel salto di qualità nella competizione internazionale dovuto alla nuova fase della rivoluzione digitale. Quest’ultima, detto in altri termini, «produce discontinuità nella distribuzione del potere mondiale», aumentando la conflittualità geopolitica e inducendo ad una rinnovata «coincidenza tra interesse di sicurezza strategico dello Stato e attenta tutela delle filiere tecnologico-industriali» (p.87). Dunque, l’interdipendenza globale – come suggerito recentemente da Henry Farrell e Abraham L. Newman – diventa arena e strumento per politiche industriali e tecnologiche offensive, dal momento che la tutela della propria sovranità induce a ricostruire catene del valore all’interno di un perimetro politicamente sicuro. Una sfida che, in realtà, condurrà Cina e Stati Uniti – con i rispettivi colossi digitali – a contendersi nuovi mercati, ad estendere la competizione geopolitica e a promuovere due visioni differenti di modernità lungo la frontiera dello sviluppo digitale.
Siamo di fronte ad una nuova Guerra Fredda? Seppur inseriti in un contesto tecnologico ben più maturo, Stati Uniti e Cina contribuiranno a calare una “cortina di cobalto” sul mondo. Il libro, oltre a delineare i caratteri di questa conflittualità, spinge ad una riflessione multilivello sull’impatto della rivoluzione digitale: quale società verrà promossa nel mutato rapporto tra Stato ed economia digitale? Come cambieranno le esigenze di sicurezza in un mondo in cui «la sola inefficienza che davvero [conterà] è la vulnerabilità strategica» delle catene del valore? Quali prospettive per l’individuo in un mondo che sarà sempre più – e, forse, necessariamente – tecnocratico? Quali nuove configurazioni del potere mondiale verranno costruite con l’avvento delle smart cities e degli imperi tecnologici? Domande a cui il volume offre alcune possibili risposte per prepararci alle sfide dell’era digitale.
[1] Audra J. Wolfe, Competing with the Soviets: Science, Technology, and the State in Cold War America, Baltimore, John Hopkins University Press, 2013, cit. p.6.