La guerra economica contemporanea
- 04 Gennaio 2020

La guerra economica contemporanea

Scritto da Giacomo Centanaro

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Nella discussione europea in materia di guerra (e intelligence) economica è fondamentale il contributo della letteratura francese. La Francia, sia a livello politico che tecnico, ha sempre dimostrato una spiccata sensibilità e attenzione per l’analisi dei conflitti economici, e lo ha ampiamente dimostrato con opere divenute pietre angolari per gli studi successivi. Nel 1991 Bernard Esambert, già consigliere per gli affari economici del Presidente Pompidou, pubblicava La Guerre économique mondiale, costituendo così una solida base di riflessione nel 1994 per il rapporto Intelligence économique et stratégie des entreprises[1] del Commissariat général du Plan, con il quale lo Stato francese espresse la volontà di sviluppare una strategia di intelligence economica e attrezzare al meglio il sistema-paese nei confronti della concorrenza estera. Alcuni degli spunti individuati dal Rapporto (come la necessaria ottimizzazione dei processi di condivisione di informazioni tra pubblico e privato) costituiscono ancora oggi il fondamento di molte strategie statali. Al rapporto lavorarono anche il generale Jean Pichot-Duclos e Christian Harbulot, politologo ed esperto di intelligence economica, che nel 1997 avrebbero fondato insieme l’École de Guerre Économique (EGE), istituto di ricerca e formazione che da allora ha rappresentato il fronte della ricerca europea su questioni legate a livello statale alla geoeconomia e, più in dettaglio, alle dinamiche di intelligence economica concernenti la concorrenza tra aziende sui mercati globali.

Avvalendoci dell’impostazione teorica che la EGE assume riguardo a scontri economici tra Stati e/o imprese e di una “licenza poetica”, potremmo definire gli scontri tra Airbus e Boeing, e i seguenti dazi statunitensi su alcuni beni europei, come una Guerra economica dei cent’anni. Questo considerando la lunga contesa tra i due giganti dell’aviazione, che da decenni si scontrano duramente – spesso con mezzi che sono giudicati dalla controparte come sleali – per il controllo dei mercati e le commesse di tutto il mondo.

Ma perché possiamo qualificarla come guerra? Perché fa parte di un tentativo di mantenere le proprie posizioni di forza economiche, riguarda gli Stati in quanto soggetti riconosciuti nel diritto internazionale e li interessa in ambiti fondamentali per la loro sicurezza e indipendenza, il che vuol dire la possibilità di sopravvivere nell’arena internazionale[2]. Una guerra economica è una guerra anche per via dei suoi effetti sulla vita dei componenti di una comunità: la distruzione del tessuto manifatturiero di una regione o l’immissione nel mercato domestico di prodotti agricoli esteri può avere gravi ripercussioni sociali e quindi politiche, che potrebbero mettere a dura prova il patto sociale su cui si fondano le istituzioni. Le conseguenze economiche e psicologiche possono essere quasi equiparate agli effetti di un conflitto armato convenzionale, con un abbassamento del benessere generale e forti tensioni sociali. A titolo di esempio, si può notare come il governo francese sia ben conscio di questo, sostenendo ed essendo il principale beneficiario della PAC europea, che tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila fu difesa dagli attacchi lobbistici britannici, che avevano mobilitato il dibattito nella società civile attraverso think-tank e leader d’opinione.[3]

Si può sostenere che la guerra economica sia sempre esistita, con le forme e i mezzi propri di ogni epoca storica. Christian Harbulot, il fondatore dell’École de Guerre Économique, la definisce come «l’espressione maggiore dei rapporti di forza non militari», di cui la sopravvivenza di un popolo e l’accrescimento della potenza di un Paese sono gli elementi scatenanti. Sempre riferendosi alle profonde radici della guerra economica, Harbulot scrive: «la storia dell’umanità è fondata sulla ricerca dei mezzi per svilupparsi, e il ricorso alla forza, sia per impadronirsi delle ricchezze e mezzi di sussistenza delle zone geografiche ambite, sia per proteggersi dagli atti predatori degli invasori»[4]. La letteratura ha, a posteriori, riconosciuto come esempi di guerra economica numerosi scontri avvenuti in epoca antica, medioevale e moderna. Per esempio, a seguito della guerra economica e commerciale portata avanti dal re di Francia Luigi XI, il Duca di Borgogna fu costretto a piegarsi e richiedere un trattato di pace, tanto forti erano le pressioni degli attori economici e tanto impellente era la necessità di riportare stabilità nei prezzi dei beni di prima necessità.[5] Ma guardando ancora più indietro, Tucidide scriveva relativamente al contesto della guerra tra Atene e Sparta incorsa nel V secolo a.C.: «L’esito della guerra non sarà deciso in Attica, come si pensa, bensì nei paesi che forniscono agli ateniesi le loro risorse. I guadagni di Atene le sono assicurati dai suoi alleati; queste aumenteranno ulteriormente se gli ateniesi ci assoggettano».[6]

Il punto di partenza, la diatriba tra Boeing e Airbus, è però paradigmatico delle dinamiche e dei rapporti di forza contemporanei, in particolare di una condizione che si sviluppa a partire crollo del muro di Berlino, e con il delinearsi degli equilibri (o disequilibri) post-bipolari.

Interi apparati produttivi e centinaia di milioni di consumatori entrano nel vortice della seconda globalizzazione. Con le grandi liberalizzazioni e l’entrata in ogni mercato di nuovi possibili concorrenti, il mondo (non solo quello post-sovietico) vide una sostanziale diminuzione dei limiti posti alle dinamiche concorrenziali. Solo per dare una parziale idea del processo, in quelle che vennero chiamate transition economies l’apporto medio del settore privato nel PIL passò da circa il 20% a oltre il 60% in dieci anni.[7]

I legami di solidarietà transatlantici si incrinarono, e se è vero che, ad esempio, i rapporti franco-statunitensi non sono mai stati privi di asperità, fu altrettanto evidente come la categoria di “alleato” iniziò a indicare solo i rapporti militari e che in tutti gli altri settori sarebbe stata sostituita da quella di “concorrente”. Il modello occidentale non era più in pericolo, e Washington iniziò a concentrarsi sull’obiettivo di far prevalere gli interessi nazionali statunitensi. La nuova globalizzazione era il presupposto per la conduzione di una nuova guerra.

Scomparvero gli ostacoli politico-strategici alla globalizzazione dell’economia mondiale, sostenuta dalla rivoluzione tecnologica nei settori dell’informazione, dei trasporti e delle telecomunicazioni. La conquista delle tecnologie più all’avanguardia e dei mercati più redditizi iniziò a sostituire quella territoriale, iniziava così la rottura della «catena tra Stato, territorio e ricchezza»[8], come la definì in seguito Carlo Jean.[9]

Si arrivò a quella che nel 1990 Edward Luttwak battezzò come «la logica della guerra espressa con la grammatica del commercio»[10]: la geoeconomia, che è sia «l’uso di strumenti economici per promuovere e difendere gli interessi nazionali e per produrre effetti geopolitici benefici» sia «gli effetti delle azioni economiche di altre nazioni sugli obiettivi geo-politici di un Paese».[11] La concezione liberale che vedeva nel commercio un agente pacificatore delle relazioni internazionali viene contraddetta quando il sistema internazionale liberale diventa l’arena di una conflittualità estesa a livello globale e che in alcun modo sembra poter essere calmierata.

In questo contesto, lo Stato ritrova (se mai lo avesse perso) il suo ruolo centrale che influenza il mercato e la libera concorrenza e di cui non è solo garante, ma protegge le informazioni, ne stabilisce il corretto utilizzo e lancia progetti di sviluppo tecnologico, di cui un esempio può essere In-Q-Tel, società americana fondata nel 1999 con lo scopo di sostenere la ricerca in campo tecnologico, indirizzata verso le necessità della CIA.

Gli Stati assumono il ruolo di strateghi delle operazioni, le imprese costituiscono le armate (con diversi ruoli, ad esempio l’offensiva attraverso le esportazioni o la difesa dei mercati domestici), investimenti, sovvenzioni e azioni di penetrazione dei mercati esteri sono l’equivalente di dotazioni in armamenti, progressi tecnici nel settore bellico e avanzamento militare in territorio straniero. L’indipendenza di uno Stato si misura in termini di risorse e di capacità di difendere sul piano commerciale e finanziario il proprio sistema-paese. La difesa è il mantenimento dei posti di lavoro, non solo per evitare la recessione economica ma anche per contenere la disoccupazione, forte elemento di destabilizzazione sociale e quindi di minaccia per ogni democrazia. La sicurezza nazionale diventa così strettamente connessa con l’indipendenza economica.[12]

Alcuni fatti emblematici ci aiutano a comprendere la natura della discontinuità. Già nel 1982 venne fondata la BENS (Business Executives for National Security), organizzazione composta da dirigenti d’impresa americani, con lo scopo di consigliare il governo per migliorare la sicurezza economica degli Stati Uniti e che intrattiene regolarmente rapporti con le agenzie di sicurezza.[13] Appena eletto, Bill Clinton istituì una war room direttamente collegata al Dipartimento di Commercio, affinché il governo potesse spendere il proprio peso nel sostenere l’azione delle imprese statunitensi all’estero. Nel 1993 il Segretario di Stato Warren Christopher dichiarava che la sicurezza economica doveva essere elevata al rango di prima priorità della politica estera degli Stati Uniti e che avrebbe richiesto un ammontare di risorse pari a quello impegnato durante la guerra fredda. La continuità di questo pensiero venne confermata da chi succedette a Christopher nella sua carica: Madeleine Albright dichiarò nel 1997 che gli Stati Uniti dovessero «continuare a creare un sistema economico globale che lavora per l’America».[14] Questo obiettivo sarebbe stato garantito non attraverso una costosa dominazione territoriale ma attraverso la ricerca del mantenimento della supremazia economica, di cui Bill Clinton è considerato l’iniziatore.

Nella contesa interstatuale si inseriscono quindi le grandi imprese, che portano con sé strumenti e strategie inedite e a loro volta gli Stati si inseriscono in quella che, almeno all’apparenza, può sembrare come concorrenza tra privati. Le istituzioni finanziarie, controllate o meno dagli Stati, mantengono rapporti privilegiati con i governi, di cui spesso rappresentano il vettore di potenza nel mantenere la nazionalità di asset strategici. I top manager delle aziende reclutano ex militari o membri dei servizi di informazione che adattano le proprie esperienze al nuovo contesto operativo e la collaborazione tra settore pubblico e privato diventa fondamentale per l’elaborazione di piani di guerra economica offensiva o difensiva. L’intelligence economica si dimostra uno strumento fondamentale nella conduzione di una guerra dove il confine tra interesse pubblico e privato è spesso labile. Un contesto operativo dove un ruolo sempre più preminente è occupato anche dagli attori della società civile e dai loro mezzi per difendere i propri interessi, che non sempre concorrono a sostegno dei progetti di information dominance dei governi. La nuova “guerra cognitiva” si combatte su un campo impalpabile e costantemente sensibile a ogni impulso – quello definito come infosfera – e sono in molti a ritenere che la geo-informazione sia già diventata più importante della geoeconomia: notizie distorte e inesatte possono fare crollare in pochi giorni titoli azionari ed escludere aziende da interi mercati. Questa dinamica permette una più facile erosione delle quote di mercato da parte di nuovi sfidanti e quindi una riduzione del vantaggio concorrenziale delle aziende leader. È la logica del Darwin business: innovare e conquistare, o perire.[15]

La nozione di sicurezza nazionale viene quindi declinata secondo modalità nuove e il governo autorizza i servizi di informazione a trasmettere informazioni sensibili sulla concorrenza e sui suoi punti deboli o segreti scomodi.

In tutto questo l’egemone predatore, come è sempre stato nella storia, stabilisce le regole del gioco, non preoccupandosi se queste siano poi accettate dagli altri attori (basti guardare agli scontri attuali in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio). Ed ecco che vecchi strumenti come il sistema Echelon, i “cinque occhi” anglosassoni, vengono usati a servizio delle strategie di guerra economica del senior partner dell’alleanza. Nel 1998 due rapporti del Parlamento europeo denunciarono questa pratica e il 5 luglio del 2000 venne istituita una commissione temporanea sul sistema d’intercettazione Echelon, la cui relazione dell’11 luglio 2001 parlava esplicitamente di spionaggio operato da parte di un sistema d’intercettazione globale per le comunicazioni private ed economiche. In base ai dati raccolti, la commissione scrisse allora: «il 5% delle informazioni raccolte attraverso fonti non pubbliche è utilizzato per scopi economici; […] tale sistema di controllo delle informazioni potrebbe consentire alle imprese statunitensi di guadagnare fino a 7 miliardi di dollari in termini di contratti».[16]

Un altro esempio di come una grande potenza possa sfruttare la sua influenza: nel 1996 il National Research Council statunitense richiese al Governo federale di costringere le imprese straniere ad adottare le norme americane; ecco che anche la standardizzazione normativa diventa un’arma di guerra economica. Già nel 1992, l’azienda francese Pechiney (produttrice di alluminio) minacciò di rivolgersi al GATT se il suo concorrente statunitense Alcoa, leader mondiale dell’alluminio, non avesse smentito alcune sue dichiarazioni. Alcoa aveva fatto intendere a un costruttore asiatico di aerei civili che solamente il proprio alluminio gli avrebbe permesso di ottenere l’abilitazione dell’Agenzia Federale per l’Aviazione che supervisiona il traffico aereo statunitense.[17]

La potenza di uno Stato o di un’azienda multinazionale è soprattutto espressa dalla capacità di rendere i paesi dipendenti dalla propria tecnologia, dal loro potere finanziario e dalla loro influenza nella definizione normativa delle nuove regole dell’economia di mercato.

Non dovrebbe quindi stupire la postura dell’America di Trump: il nazionalismo economico è sempre stato uno strumento di difesa dell’economia nazionale, sia per le economie in via di sviluppo (la difesa della infant industry di Hamilton) che per quelle mature in difficoltà; il liberismo è la condotta di chi sa di essere in posizione di predominio e di poter acquisire il controllo dei mercati bersaglio. Si può dire che l’America di Trump non stia rigettando il sistema che ha creato, ma che, naturalmente, ne interpreti le regole secondo i propri interessi e bisogni nazionali. Ma questo avveniva già ben prima che Donald Trump conquistasse la Casa Bianca. Il 17 marzo 2000 sul Wall Street Journal comparve un articolo di James Woolsey, direttore della CIA tra il 1993 e il 1995, dal titolo eloquente. “Why we spies our allies?” giustificava lo spionaggio condotto sulle imprese europee per via dei sospetti e delle prove di corruzione che pesavano sulla loro reputazione, specialmente durante la competizione con aziende americane per ottenere commesse da governi stranieri. La qualità e quindi la competitività dei beni prodotti dal sistema economico americano, si legge, sarebbero stati superiori a quelle dei beni prodotti in Europa, dunque le imprese europee non avrebbero avuto altra scelta se non quella di ricorrere sistematicamente alla corruzione per poter prevalere nella competizione con i prodotti americani.

Per ricondurre a unità gli elementi di riflessione espressi e gli attori analizzati, possiamo affidarci a una particolare rappresentazione delle dinamiche di guerra economica, che possa essere usata anche come griglia di lettura. La rappresentazione per scacchiere proposta da Harbulot risulta particolarmente utile per stabilire le correlazioni tra le mosse degli attori poiché ne facilita la lettura dei legami di interdipendenza, delle contraddizioni e delle opposizioni.[18] Le tre scacchiere che interagiscono sono: la scacchiera concorrenziale (concorrenti, fornitori, raggruppamenti professionali), la scacchiera istituzionale (Stati, poteri pubblici, istituzioni) e la scacchiera della società civile (consumatori, sindacati, gruppi di interesse, associazioni). Esiste una grande permeabilità tra le tre scacchiere e infatti le decisioni prese sul piano politico possono avere un’influenza sulla vita delle imprese, ma anche sull’organizzazione della società civile. Ogni scacchiera agisce poi secondo particolari dinamiche e logiche, che la possono portare a scontarsi con le altre; in un solo caso le tre scacchiere sembrano sovrapporsi e garantire così un’univocità di analisi: la tutela dell’interesse nazionale, dove questo è inteso come garanzia del benessere collettivo, della coesione sociale e della salute dell’economia. Questa analisi, però, è realizzabile solo se è possibile individuare a occhio nudo i campi di scontro, che vengono spesso nascosti agli occhi degli osservatori. Sotto questo aspetto, infatti, la guerra economica, nella sua espressione attraverso l’intelligence, è elusiva e anzi, tanto più è condotta efficacemente, tanto meno sarà possibile anche solamente riuscire a individuare gli attori che vi hanno preso parte. Perciò queste scacchiere sono anche state definite come “invisibili”.

La guerra economica conferma come l’interesse nazionale sia effettivamente il motore principale della politica internazionale, ma questo, nella sua accezione geoeconomica, è il risultato della sintesi collettiva degli interessi di tutte le parti economiche e sociali di ogni paese e non coincide solamente con le priorità di politica estera del potere esecutivo degli Stati.


[1] Conosciuto più comunemente come “Rapporto Martre”.

[2] Che – secondo il pensiero realista delle Relazioni Internazionali e le sue numerose evoluzioni – è la questione fondamentale che guida le scelte degli Stati, che si confrontano in un contesto internazionale anarchico, fondato su logiche di potenza. Secondo la scuola realista la presenza di istituzioni internazionali di confronto ed elaborazione di politiche di cooperazione non altererebbe la natura dell’arena internazionale e, anzi, in quelle stesse sedi si riproporrebbero le stesse dinamiche dei rapporti interstatuali.

[3] Ali Laidi, Denis Lanvaux, Les secrets de la Guerre Économique, Seuil, Parigi, 2004, pp. 102-103.

[4] Christian Harbulot e Paul Baumard, La guerre économique, in «Infoguerre», settembre 2018.

[5] Ali Laïdi, Histoire Mondiale de la Guerre Économique, Perrin, Parigi, 2016, p. 143.

[6] Tucidide, La guerra del Peloponneso, citato in Christian Harbulot, L’art de la Guerre Économique.

[7] A. Colli, in Amatori e Colli (a cura di), Il mondo globale. Una storia economica., G. Giappichelli Editore, Torino, 2017, p. 241.

[8] Giuseppe Gagliano, Stato, Potenza, Guerra economica, Collana SISM, 2014.

[9] Generale e docente. Tra i principali esperti italiani ed europei di geopolitica, strategia militare e geoeconomia.

[10] Edward Luttwak, From Geopolitics to Geo-Economics: Logic of Conflict, Grammar of Commerce, «The National Interest», numero 20, estate 1990.

[11] Robert D. Blackwill, Jennifer M. Harris, War by Other Means. Geoeconomics and Statecraft, The Belknap Press of Harvard University Press, USA, 2017, p. 20.

[12] Questa posizione è ampiamente condivisa in letteratura e sostenuta da un ampio numero di autori, tra cui Bernard Esambert, Christian Harbulot, Eric Delbeque, Ali Laidi, Giuseppe Gagliano, Paolo Savona.

[13] Ali Laïdi, Les Etats en guerre économique, Seuil, Francia, 2010, p. 161.

[14] Ali Laïdi, Histoire Mondiale de la Guerre Économique, Perrin, Parigi, 2016, pp. 453-454.

[15] Eric Delbecque, Frédéric Giqueaux, Introduction a la sécurité économique. La guerre économique ou l’échiquier furtif, Uppr, Francia, 2017, pp. 59-60.

[16] Relazione sull’esistenza di un sistema d’intercettazione globale per le comunicazioni private ed economiche (sistema d’intercettazione ECHELON).

[17] Ali Laidi, Denis Lanvaux, Les secrets de la Guerre Économique, Seuil, Parigi, 2004, p. 111.

[18] Christian Harbulot, L’art de la Guerre Économique. Surveiller, analyser, protéger, influencer, VA Editions, Versailles, 2018, p. 103.

Scritto da
Giacomo Centanaro

Laureato presso la Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze. Ha conseguito titoli post-laurea presso l’Università LUISS di Roma e ha completato un periodo di studio presso l’Université Paris 1 Pantheon-Sorbonne. È stato coordinatore del Limes Club Firenze ed è alumno della Scuola di Politiche.

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