Scritto da Giorgia Sposini
10 minuti di lettura
Quella del 1378 fu un’estate assai particolare per Firenze, testimone del tumulto dei Ciompi, una delle espressioni della crisi generale che nel Trecento travolse l’Europa.
La città toscana era stata teatro di uno degli eventi che ebbero maggior peso nel crollo del settore economico-finanziario: la bancarotta del 1345, culminata col fallimento della compagnia mercantile-bancaria dei Bardi. Tale evento non ebbe soltanto delle immediate conseguenze economiche ma comportò il venire meno della fides, la fiducia, il tesoro più prezioso che i mercanti potessero detenere[1].
Tra le cause di questa crisi delle compagnie vi fu innanzitutto il mancato pagamento degli ingenti debiti maturati dal sovrano inglese Edoardo III per organizzare le imprese belliche contro il re di Francia Filippo VI. A ciò si aggiunsero i costi notevoli della guerra che vide contrapposte Pisa e Firenze[2]. Quest’ultima, stanca di doversi servire del porto pisano per i traffici con la Provenza, voleva conquistare la città di Lucca così da appropriarsi del suo avamposto sul Tirreno. A supportare militarmente l’odierno capoluogo toscano fu Gualtieri di Brienne, il duca di Atene, nipote di Roberto d’Angiò re di Napoli. A partire dal settembre 1342 questi divenne signore di Firenze grazie al consenso che riuscì ad ottenere attraverso una politica oscillante che tendeva a favorire in modo alterno un ceto piuttosto che un altro. Fu probabilmente tale doppiezza e ambiguità ad alimentare un’opposizione crescente che si tradusse in tre diverse congiure cittadine e nella cacciata del duca dalla città.
Dopo la breve parentesi di un governo filo-magnatizio con a capo il vescovo Angelo Acciaiuoli, si costituì un governo popolare di homines novi appartenenti sia alle arti maggiori che a quelle minori[3].
Tornando alle ragioni della bancarotta del 1345 è inevitabile chiamare in causa la questione della restituzione del debito che il comune di Firenze aveva contratto con i propri cittadini. Nel 1343 questo ammontava a circa cinquecentomila fiorini; così si decise di unire le varie voci in un’unica amministrazione, il Monte, giustificando la scelta nei termini dell’ottenimento di maggior chiarezza contabile. L’anno successivo nacque un mercato secondario per la compravendita dei titoli pubblici[4], e, nel 1345, una legge sancì la non redimibilità dei crediti; nei fatti si trattava di ammettere l’impossibilità momentanea di restituire i capitali che vennero trasformati in una rendita annua del 5%. Come suggerisce il Tanzini, possiamo parlare di una dichiarazione di bancarotta da parte del comune.
In questo scenario economicamente precario, aggravato dalla carestia del 1347, nel 1348 si abbatté l’epidemia della peste, che, contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, rappresentò in un secondo momento un fattore positivo e propulsivo.
Nel lungo periodo infatti soprattutto i lavoratori salariati poterono giovare dello spopolamento causato dall’alta mortalità dell’epidemia che comportò la diminuzione della manodopera disponibile, cosicché le botteghe e i cantieri edili si trovarono costretti ad accrescere i salari dei lavoratori per garantirsi la manodopera necessaria a riavviare le proprie attività[5].
I ceti svantaggiati conobbero dunque un significativo miglioramento dello stile di vita.
Parte Guelfa e la Guerra degli Otto Santi
Il governo nato nel 1343 dovette scontrarsi con i nobili irritati per l’esclusione dalle cariche politiche che si coagularono intorno a Parte Guelfa, un relitto, una sopravvivenza della vecchia lotta duecentesca tra guelfi e ghibellini; era la roccaforte dei magnati e degli oligarchi. Questa, grazie alla peste del 1348, che causò la morte di molti homines novi alla guida del comune, riuscì a prendere il sopravvento e il controllo delle istituzioni cittadine e si fece promotrice di una campagna ideologica anti-ghibellina. A tal scopo dal 1358 Parte Guelfa iniziò ad usare l’arma dell’ammonizione, pratica esclusoria che colpiva i cittadini ghibellini estromettendoli dalla vita politica e costringendoli a rassegnare le dimissioni dagli uffici che ricoprivano.
Ad aggravare le condizioni economiche fu un’ulteriore guerra contro Pisa (1362-1364), incentrata sull’annoso problema del porto sul Tirreno, che richiese una spesa di un milione di Fiorini.
Inoltre, nel 1358, ser Piero di ser Grifo ideò il sistema del “Monte dell’un tre” che consisteva nel triplicare l’interesse dei prestiti cittadini che passò dal 5% al 15%; una tattica volta a ottenere risorse rapidamente, ma che ebbe un esito fallimentare: ormai il debito si attestava intorno ad un milione e mezzo di fiorini.
Ciò non impedì ai fiorentini di proseguire sulla via dell’attivismo politico. Nel 1375 il comune di Firenze, sentendo minacciata la propria egemonia nell’Italia centrale, intraprese, con altre città, una guerra, detta “degli Otto Santi”, contro il papa. Gregorio XI era intenzionato a riportare il papato a Roma ponendo fine alla parentesi avignonese e a ristabilire l’influenza pontificia sui territori circostanti, scardinando gli equilibri maturati nella zona. Naturalmente la guerra significò un ulteriore enorme sforzo finanziario reclamato in nome della libertà, un valore così caro e così centrale alla retorica trecentesca e spendibile per giustificare le scelte militari anche più azzardate. Il conflitto terminò nel 1378 e le trattative di pace si conclusero solo con l’insediamento del pontefice Urbano VI.
La rivolta del 1378
Non è facile stabilire con esattezza l’origine del termine “Ciompi”, secondo alcuni da ricollegarsi al termine “ciompare”: battere, una delle prime fasi di lavorazione della lana. Altri tendono a vederlo come un sinonimo di “popolo minuto”, categoria dai limiti non facilmente individuabili; certamente comprendeva per la maggior parte i sottoposti dell’industria della lana, ma è possibile annoverarvi anche i sottoposti di altre arti come i lavoratori dell’industria edile[6]. Questi erano parimenti privi di diritti politici, non godevano di una rappresentanza, non partecipavano al governo del comune, i loro nomi non erano presenti nelle sacche da cui venivano estratti a sorte i cittadini che avrebbero ricoperto i vari uffici.
Il cosiddetto governo di popolo, sorto nel 1343, non era “di popolo” nel senso più stretto e autentico della parola, sebbene vi avessero un ruolo gli iscritti alle arti sia maggiori che minori; ancora gran parte della popolazione rimaneva esclusa da questo meccanismo.
La parte iniziale della rivolta è caratterizzata dal riaccendersi dello scontro tra il partito oligarchico e filopapale di Parte Guelfa e il Partito degli Otto, rappresentante di banchieri, mercanti, imprenditori, bottegai, artigiani, che accoglieva anche alcuni membri di importanti casate come appunto il loro portavoce Salvestro de Medici, protagonista della fase iniziale dei disordini che sconvolsero Firenze. Questi, il 18 giugno 1378, divenne Gonfaloniere di giustizia, il principale funzionario esecutivo della città, e inaugurò la sua carica presentando alla Signoria una petizione con cui proponeva di ripristinare nella loro integrità ed efficacia gli ordinamenti di giustizia del 1293[7].
Quando si venne a sapere che la Parte stava organizzando un colpo di stato le arti si radunarono con le proprie milizie a Piazza della Signoria e furono raggiunte dai lavoratori e da alcuni forestieri. A fare da collante a tale inusuale coalizione era la volontà di porre fine al potere di prescrizione di cui godeva Parte Guelfa.
La folla dei salariati, appropriatasi del gonfalone di giustizia, si riversò nelle strade compiendo scorrerie, bruciando e saccheggiando le abitazioni degli oppositori. Poi si diresse verso le Stinche, il carcere fiorentino, per liberare i lavoratori che vi erano detenuti per debiti seguendo un istinto di solidarietà; a luglio i Ciompi costituivano ormai un soggetto autonomo e iniziarono a riunirsi in segreto con alcuni membri delle arti minori.
Il 19 luglio i priori, ricevute denunce anonime riguardo ad una supposta organizzazione degli operai, fecero arrestare Simoncino d’Andrea detto “Bugigatto” il quale fu sottoposto a tortura con lo scopo di estorcere informazioni che confermassero o smentissero l’imminente moto insurrezionale. Nelle confessioni di Simoncino è possibile trovare in nuce quello che sarà il contenuto del programma una volta formalizzato e rielaborato; tra le richieste primeggiava la volontà di cacciare l’Ufficiale forestiero, detentore della giurisdizione penale sui lavoratori, il quale agiva come un aguzzino nei confronti degli operai tenendoli sotto controllo, maltrattandoli e perfino torturandoli. («…che per ogni piccola cosa ci martoria»). Lamentavano inoltre di essere pagati in modo inadeguato dai maestri lanaioli che «…del lavorio che si viene dodici ne danno otto». Infine, il terzo punto fondamentale, riguardava la necessità di non essere più sottoposti all’Arte della lana e di poter istituire una propria arte. («vogliono essere parte del reggimento della città») [8].
Tornando al nostro Simoncino e ai suoi torturatori, fortuna (o meno, a seconda dei punti di vista) volle che l’orologio di Palazzo Vecchio si rompesse e fosse chiamato un operaio per provvedere alla riparazione. Tale operaio, Niccolò Orioli, scoprì ciò che stava accadendo e subito diffuse la notizia. Al suono delle campane della Chiesa del Carmine, nell’importante quartiere operaio di Camaldoli, una folla dilagò per le strade e si diresse in Piazza della Signoria dove reclamò il rilascio degli arrestati[9]. Da questo punto gli eventi precipitarono e i rivoltosi giunsero a conquistare il palazzo della Signoria e ad istituire un priorato provvisorio con a capo Michele di Lando[10]. I Ciompi videro immediatamente soddisfatta la loro rivendicazione di una propria arte; difatti tra il 24 e il 28 luglio ne furono istituite tre: l’arte dei tintori, l’arte dei farsettai e quella del Popolo di Dio o degli scardassieri, ossia i lavoratori salariati.
Gli iniziali entusiasmi ben presto scemarono di fronte all’evidenza di una gestione del governo contradditoria e insufficiente; era sempre più evidente che il governo di Michele di Lando in realtà non era un governo amico e stava celatamente lavorando per boicottarli sul piano istituzionale. A ciò si aggiunse sul versante economico la serrata messa in atto dai lanaioli che condannò alla disoccupazione e di conseguenza alla miseria e alla fame i lavoratori, spingendoli a proseguire la lotta per epurare il governo dagli elementi appartenenti al popolo grasso. I Ciompi si trovarono ben presto soli in questa loro impresa, poiché furono abbandonati da coloro che li avevano affiancati nelle rivolte di luglio e che vedevano ormai soddisfatte le proprie esigenze.
Tra il 25 e il 27 agosto nella contrada di Camaldoli, durante una riunione, nacque il collegio degli Otto Santi del popolo di Dio che assunse il ruolo di governo-ombra e si occupò di dirigere le fasi finali della rivolta. Nei fatti però questo governo ebbe vita assai breve poiché Michele di Lando organizzò immediatamente una reazione. Lo scontro finale si tenne in Piazza della Signoria dove, il 31 agosto, i Ciompi si scoprirono isolati e furono attaccati e dispersi dai soldati del comune e dalle milizie delle corporazioni, tra cui anche quelle delle nuove arti dei tintori e dei farsettai. Giunse così a termine, ufficialmente il primo settembre 1378, il governo dei Ciompi e con questo la loro tentata rivoluzione.
La discussione storiografica intorno alla rivolta dei Ciompi ha prodotto due diverse linee interpretative; la prima è quella marxista che individua le caratteristiche di una lotta di classe: l’intento di ribaltare la macchina statale fiorentina, un programma radicale, capacità di autonoma iniziativa dettata dalla presenza di una precoce coscienza di classe. Tra i sostenitori di questa teoria troviamo Ernst Werner, Victor Rutenburg, Samuel Cohn e Ernesto Screpanti. Questi, invita a notare la rilevanza della richiesta dei Ciompi di sospendere il pagamento degli interessi del debito pubblico per dieci anni, definendolo un tentativo di «esproprio a danno dei borghesi»[11].
Era evidente l’ostilità che il popolo minuto nutriva nei confronti del sistema del debito pubblico, preso in analisi da Marx: dacché era nato come uno strumento finalizzato al reperimento di risorse finanziarie per le istituzioni, si era trasformato in un mezzo di accumulazione del capitale. Esso facilitava il transito di risorse dalle classi più povere a quelle più abbienti dal momento che, ad esempio, serviva a liquidare gli interessi attraverso il sistema delle imposte indirette cui era soggetta la popolazione tutta.
L’interpretazione alternativa data al fenomeno è di tono decisamente moderato; essa vi vede un tentativo di riforma, esclude qualsiasi intento rivoluzionario e che i Ciompi fossero un gruppo autonomo, ritenendo piuttosto che fossero influenzati e guidati dal ceto medio;[12] è questa l’idea di Philippe Wolf, Michel Mollat e Gene Brucker. In particolare, quest’ultimo riconosce nell’agire dei Ciompi i segni di un innato conservatorismo e attaccamento alle tradizioni, testimoniati dall’assenza nelle petizioni di un programma volto a distruggere il regime oligarchico esistente, a stabilire un ordine egualitario e ad abolire la proprietà privata[13].
Chiaramente i Ciompi non avevano maturato un’ideologia e un programma comparabili a quelli elaborati dai movimenti della classe operaia del XIX secolo dell’Europa industrializzata; usare paradigmi interpretativi modernizzanti, modellati intorno all’esperienza dei movimenti rivoluzionari otto-novecenteschi, non deve farci dimenticare di contestualizzare.
In merito al grado di autonomia di cui godevano i Ciompi, è innegabile che nella fase iniziale questi si affidarono a Salvestro de Medici, e in generale a lungo furono coalizzati con le arti minori. Tuttavia, questa osservazione non consente di presumere in modo automatico una passività da parte delle classi lavoratrici, non ne deriva come naturale conseguenza una loro soggezione, una loro strumentalizzazione da parte delle classi più alte.
Certamente non si vuole dare una lettura radicale né rischiare di cadere nella trappola dell’anacronismo, ma emerge già, a partire dal programma di San Lorenzo, una consapevolezza dello sfruttamento, se non la vogliamo definire, per prudenza terminologica, una coscienza di classe.
Dai Ciompi vengono denunciate le condizioni impari di alcuni cittadini, specialmente rispetto a chi deteneva le redini del potere, innanzitutto a partire dalla richiesta di poter istituire una propria arte che stava a significare avere una rappresentanza e partecipare del potere politico.
Inoltre, in merito alla questione del salario mi pare interessante la formula stessa di elaborazione della richiesta così come emersa anche dalle confessioni di Simoncino; difatti non si può parlare di una richiesta in senso stretto, di una mera rivendicazione di avere più soldi, quanto piuttosto di una denuncia verso un meccanismo remunerativo iniquo che per dodici (siamo portati a supporre) ore lavorative pagava otto. Sembra che vi fosse dunque contezza di una sorta di pluslavoro, prendendo in prestito le categorie marxiane, che produceva un plusvalore che però andava ad accrescere i profitti degli imprenditori, degli industriali del settore laniero. Più che questo aspetto, specialmente l’intento di inserirsi all’interno del governo della città ha spinto molti studiosi a giudicare come riduttivo e improprio il termine “tumulto”. Tale termine potrebbe infatti indurre a pensare a delle rivolte dettate dalla fame, a degli “assalti ai forni”, a manifestazioni di malessere e proteste per la mancanza di cibo e per le condizioni di miseria.
Tuttavia, c’è da dire che il periodo tra il 1343 e il 1383 non conosce molti di questi episodi, dal momento che come già evidenziato, a seguito della peste, si verificò un aumento dei salari anche presso le classi più umili che compensò il contemporaneo aumento dei prezzi dei beni di consumo. Certamente in Europa vi furono alcune tensioni e rivolte sociali più o meno coeve, basti pensare alla “Jacquerie”, la sollevazione dei contadini francesi da collocarsi tra il 1356 e il 1358, e alle rivolte inglesi del 1381.
I Ciompi videro soddisfatte alcune delle proprie richieste ma, non paghi di ciò, proseguirono la propria azione rivoluzionaria alla guida della quale fu posto il collegio degli Otto Santi del popolo di Dio. Ad alimentare la rivolta fu specialmente la serrata condotta dai “padroni” che creò effettivamente condizioni di miseria portando a perseguire istinti più basilari e materiali e al fallimento dell’impresa rivoluzionaria.
Considerando che i Ciompi, se non nella fase finale, non ebbero mai l’intento di sovvertire l’ordine oligarchico esistente, ma semmai vollero penetrare nelle sue strutture, non è del tutto appropriato parlare di rivoluzione in termini moderni, dato che non portò ad un radicale e permanente cambiamento delle strutture sociali. Tuttavia, a parere di chi scrive, è estremamente riduttivo considerare questa complessa vicenda come semplice frutto di un moto di plebe disorganizzato e caotico, diretto dall’esterno e sorto soltanto da un’indomabile rabbia sociale.
[1] L. Tanzini, 1345. La bancarotta di Firenze, una storia di banchieri, fallimenti e finanza, Salerno Editrice, Roma 2018, p.21.
[2] La guerra si svolse tra il 1341 e il 1342 quando avvenne la conquista della città di Lucca.
[3] Il sistema del priorato delle arti era in vigore a Firenze già dal 1282.
[4] Ibid, p.80.
[5] Ibid, p.108.
[6] Ibid, p.68
[7] F. Franceschi, I ciompi a Firenze, Siena e Perugia in Rivolte urbane e rivolte contadine nell’Europa del Trecento, Firenze University Press, Firenze 2008, p.286.
[8] Tutte le citazioni inerenti al discorso di Simoncino sono tratte da: E. Screpanti, La politica dei Ciompi, p.8
[9] R.C. Trexler, Follow the flag, the Ciompi revolt seen from the street, Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance, T.46, No. 2 (1984), p.368.
[10] E. Screpanti, La politica dei Ciompi, op. cit. p.6.
[11] E. Screpanti, La politica dei Ciompi, op. cit. p. 30.
[12] P. Lantschner, Revolts and the political order of cities in the late middle ages, «Past and Present», n. 225, p.5.
[13] S.K. Cohn, The Laboring Classes in Reinaissance Florence, Academic press, 1980, p.130.