I difficili sviluppi dell’antipolitica
- 02 Novembre 2020

I difficili sviluppi dell’antipolitica

Scritto da Olimpia Capitano

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A seguito dei risultati relativi alla tornata elettorale a livello regionale e del controverso dibattito strutturatosi attorno a sostanza ed esito referendario, il Movimento Cinque Stelle ha subito una manifesta accelerazione del processo di crisi che sta attraversando, intendendo “crisi” sia come fase problematica, di polarizzazione delle contraddizioni e di incertezza, che come processo di complessa trasformazione[1].

Per comprendere alcune delle tensioni che stanno attraversando e destrutturando il Movimento tuttavia, bisogna fare un passo indietro, all’interno delle sue genealogie, situate in congiunture specifiche e intrecciatesi con la storia politica italiana e con alcune delle sue eredità.

Uno dei fattori che spiccano in tal senso è quello dell’antipartitocrazia. Le specifiche dinamiche che hanno condotto alla costruzione di una realtà nazionale unitaria e che hanno veicolato gli sviluppi interni alle strutture istituzionali e al sistema politico, sembrano essere attraversate da una sorta di fil rouge, quello dell’antipolitica, che Alfio Mastropaolo ha indicato come punto originario di molte tensioni critiche nella storia politica italiana[2].

Con antipolitica ci si riferisce a un termine di uso perlopiù contemporaneo ma i cui primi utilizzi risalgono al periodo della Rivoluzione francese[3]. Il concetto in sé può esprimersi in molteplici modi ma si riassume, nella sua estrema sostanza, in una forma più o meno complessa di opposizione alla gamma di significati che un sistema politico di volta in volta assume. Non rappresenta in prima istanza un fenomeno di aggregazione, non si propone di per sé di mobilitare e attivare porzioni di società, ma tende a esprimersi in senso negativo e oppositivo. L’antipolitica «è il parlare di politica di uomini che non diventano politici né vogliono prendere parte al potere» o ancora e in senso più lato è «una generalizzazione del paradigma discorsivo del degrado della politica»[4].

Il punto dirimente per un’analisi critica e storicamente collocata della politica contemporanea sta nella consapevolezza del potenziale di mobilitazione del sentimento antipolitico, da cui e su cui gli imprenditori politici strutturano e organizzano il dissenso, assumendo un ruolo chiave nell’incanalamento sociale della protesta. Attivazione di siffatte fratture sociali e loro sistematizzazione si traducono di frequente nella creazione di nuove formazioni politiche che talvolta si limitano all’aggregazione movimentista, altre volte approdano al compimento di processi di piena istituzionalizzazione fino a configurare nuovi partiti politici sia di opposizione che, persino, di governo.

La tensione antipolitica, non certo tipicamente italiana, ha qui però a lungo trovato canali di espressione e radicamento strettamente connessi allo sviluppo storico del sistema politico, definito come bloccato da Massimo Salvadori, ossia legato alla mancanza-impossibilità di un’alternanza di governo prima, alla sua difficoltà dopo[5].

Quand’anche infatti l’alternanza tra governo e opposizione è stata possibile (la prima volta solo nell’aprile del 1996 con la vittoria dell’Ulivo e della coalizione di centro-sinistra), è comunque nata dalle ceneri di un lungo immobilismo che ha prodotto una forte delegittimazione reciproca tra forze di governo e di opposizione. In una prospettiva di lunga durata occorre sottolineare il nesso essenziale tra la complessità dell’alternanza, la continuità della delegittimazione e la coppia concettuale modernità/arretratezza, che ha forse costituito uno dei temi più segnanti la storia dell’Italia unita. Almeno alcune ragioni dell’instabilità politica italiana si possono infatti individuare nella presenza di un impasto particolarmente complicato di arretratezza reale e percepita, dislivelli geografici e processi di modernizzazione comuni, aspirazioni palingenetiche e desiderio di forzare il passo della trasformazione storica.

Il ruolo assunto dalle diverse élite al potere nella rincorsa alla modernizzazione del Paese ne ha definito una funzione ortopedica e pedagogica che ha sottolineato il complicato rapporto tra forze politiche e tra paese reale e paese legale: ciò si è accompagnato da un lato a una forte presenza dello Stato e ad una impostazione top-down orientata a controllo, raddrizzamento ed educazione della società; dall’altro lato ha implicato tentativi di forzata stabilizzazione politico-istituzionale, che hanno precluso elasticità rappresentativa e logiche di inclusione sociale legate al meccanismo del ricambio governativo, orientando strategie di fissione del potere, dal trasformismo, al consociativismo, alla reazione[6].

In questo modo sono ricorse contrapposizioni frontali tra forze di governo e forze di opposizione che avevano per scopo non tanto alternative politiche di governo quanto alternative di sistema, progetti non entro ma contro le istituzioni vigenti. Da qui lo stabilirsi di un confronto/scontro politico su toni da “guerra civile ideologica” che hanno visto contrapporsi progettualità politico-palingenetiche incompatibili e reciprocamente demonizzate, influenzando senz’altro una crescente sfiducia sociale e un diffuso sentimento antipolitico[7].

A lungo andare il connubio tra delegittimazione politica, forte ingerenza statale e poi ingente pervasività dei partiti, ha indirizzato forme di politicizzazione del sentimento antipolitico in chiave antipartitocratica. Attraverso gli echi di una lettura generalmente virtuosa della società civile, con vigore a partire dagli anni Novanta, la frattura verticale tra società, partiti e istituzioni è andata approfondendosi e ha toccato trasversalmente tessuto sociale e realtà istituzionale. Si pensi in questo senso al ruolo anticipatorio di Bettino Craxi che dall’interno delle istituzioni aveva già sovente denunciato il sistema corrente dei partiti nel discorso pubblico, criticandolo per «i bizantismi e tatticismi in cui si rotolano gli esponenti politici, i partiti, frazioni dei partiti» e per il «cretinismo parlamentare» di un sistema che non aveva bisogno «di una critica salutare e rinnovatrice ma di una critica radicale e corrosiva»[8].

Questa rottura generalizzata è quindi cresciuta assieme alle potenzialità della sua strumentalizzazione politica da parte di nuovi gruppi politici che si sono auto-rappresentati come anti-partiti e che in Italia hanno trovato vasti spazi di radicamento fuori dalle istituzioni e paradossalmente anche al loro interno.

Partendo da queste premesse, centrali per comprendere alcune eredità e linee portanti del percorso politico nazionale, occorre volgere lo sguardo nell’intreccio tra storicizzazione e contemporaneità. Più nello specifico, occorre fare ciò cercando di affrontare elementi strutturali e contestuali in cui il M5S ha trovato appigli per la propria affermazione e per le relative modalità di articolazione del Movimento.

Gli anni di prima maturazione del Movimento sono stati anche quelli della società post-democratica della sfiducia, per richiamare con una formula tanto Colin Crouch quanto Ulrich Beck[9]. In particolare negli ultimi anni si è osservata una crescente pulsione protestataria, trasversale nella società e contrapposta alle forze insocievoli dell’economia. Si è indirizzato uno spostamento del malcontento soprattutto su tematiche materiali quali occupazione, salario e sicurezza, in modo strettamente correlato alla generalizzazione dell’impostazione neoliberista dell’economia e al suo farsi spazio in tutti i partiti attuali dalla destra alla sinistra[10].

Questa tendenza ha coinvolto grosso modo tutti i sistemi politici delle democrazie occidentali tra ventesimo e inizio ventunesimo secolo, manifestando la sostanziale incapacità delle istituzioni politiche di rappresentare e soddisfare società divenute assai complesse, instabili e proteiformi. Da qui dunque una sempre maggior perdita di legittimità delle istituzioni e del sistema rappresentativo, dei partiti, delle ideologie e dei modi tradizionali di raccogliere e conservare consenso.

In questo quadro poroso si è approfondita la distanza tra la “gente” e il sistema istituzionale e si è espanso lo spazio dell’antipolitica: in modo più confuso, disordinato, disaggregato la protesta si è mossa tra piazze, social e poi nelle urne, lasciandosi sovente sedurre dalle strabilianti e velleitarie promesse del populismo contemporaneo, che crea una narrazione viscerale, articolata soprattutto per opposizione in senso verticale, contro una non bene definita classe politica e intellettuale (nazionale o europea) od orizzontale rispetto all’alterità, si pensi nella contemporaneità al tema evidente dell’immigrazione[11]. Tutti questi aspetti tendono a coesistere, mischiarsi, confondersi, mutar di priorità e ibridarsi: in generale l’invenzione populista del popolo punta a fornire una rappresentazione omogenea del tessuto sociale, ricostruendo attorno a sé un aggregato fluido cui si attribuisce identità, in contrapposizione a un altrettanto astratto non-popolo. In estrema sintesi si può asserire che questo soggetto popolo rappresenta un significante vuoto idealmente scevro di contraddizioni e variamente costruito per contrapposizione. In questo modo si crea una dialettica che condensa sentimenti, timori diffusi e imprenditoria politica del dissenso e che tende a declinare una politica poco progettuale e fortemente negativa, che alimenta ansie e paure, che si auto-definisce per contrapposizione al “nemico” di turno e che struttura un dispositivo funzionale alle dinamiche del potere nel quadro di una più ampia crisi della rappresentanza[12].

Se dunque siffatti andamenti hanno coinvolto tutta la realtà politica occidentale contemporanea può a questo punto non stupire il fatto che in Italia abbiano trovato uno spazio di radicamento particolarmente congeniale, figlio di una intensa eredità antipolitica e situato in un momento di blocco di sistema. Quest’ultimo ha implicato l’ennesima interruzione di un’alternanza di governo già debole e ha comportato la formazione prima di un governo tecnico, poi di un governo di “larghe intese”, che hanno acuito lontananza e indignazione popolare, cavalcati di lì in poi da Beppe Grillo e dal suo Movimento.

Già nel 2005 il padre del movimento, Beppe Grillo, ha creato una vetrina partecipata attraverso commenti et similia, ma perlopiù inquadrabile come una sorta di cahier de doléances virtuale. Questa scelta personale si è inserita in pieno tra le dinamiche coeve della lunga crisi rappresentativa italiana e ha interpretato a suo modo un’altra delle molte forme mediatiche dell’antipolitica, iniziando a creare uno spazio osmotico tra virtuale e reale, eterodiretto da un comico e uomo di spettacolo, fattore che ha una sua particolare valenza storica considerando la lunga durata dei processi di spettacolarizzazione e personalizzazione politica nel contesto democratico e in particolare, o almeno in modo più evidente, nelle fasi congiunturali critiche: il linguaggio satirico, adoperato sia in senso demistificatorio che di denuncia, ha permesso di veicolare rituali di rovesciamento e forme di rappresentazione di un contesto sociale comune, che tende a rimarcare la frattura verticale e in qualche modo a creare canali di sfogo e di auto-identificazione popolare, utilizzando tuttavia un vocabolario che muovendosi tra grottesco e indistinzione ideologica ha creato un precedente fondamentale per tutte le successive boutades, contraddizioni e inversioni di marcia del M5S[13].

Tuttavia altrettanto significativo è stato l’incentivo di identità collettiva promosso dai pentastellati, sia in relazione alle energie spontanee che hanno portato alla creazione dei primi Meetup, sia in virtù della promessa della democrazia diretta, che ha giocato un ruolo sostanziale nel delineare un’alternativa progettuale e accrescere attivismo e consenso[14].

Molto potrebbe essere approfondito in tal senso ma basti puntualizzare due aspetti: in primo luogo il nodo storico che Gian Luca Fruci ha connotato come storia (in)finita della democrazia diretta, collegata a una narrazione che tende a ripresentarsi in variabile forma storica e a presentare sempre nuovi orizzonti immaginifici di partecipazione politica collocati in un altrove spaziale e temporale di lungo periodo, oggi rappresentato dal web[15].

La crescita del consenso elettorale attorno al M5S, specie alle elezioni nazionali del 2013 e del 2018, ne ha trasformato profilo politico organizzativo, richiedendo il superamento della originaria struttura informale e una sua graduale istituzionalizzazione. Dal momento in cui, un movimento orizzontale nato online si è tradotto in un partito politico offline, caratterizzato da un rapporto fortemente verticale con la leadership e da un’impostazione latamente gerarchica, il gap tra primi attivisti e più esteso elettorato si è approfondito e non solo per ragioni organizzative.

Se il Movimento è nato anche da molte delle forme di rivendicazione sociale territoriale e antisistemica, drenando buona parte delle energie movimentiste nazionali, la relativa crescita della capacità di attrar consenso entro il più ampio fronte della protesta sociale ne ha ampliato la dimensione catchall e la matrice antipolitica e populista. Va qui infatti fatta attenzione alla potenzialità espansiva del Movimento e al suo carattere non lineare, che ne ha alimentato tanto la crescita quanto le difficoltà di sviluppo.

Il contesto della generale crisi occidentale della rappresentanza democratica e il particolare humus antipolitico italiano hanno anzitutto creato un background funzionale alla generalizzazione del messaggio antipolitico e in specie antipartitocratico dei pentastellati, come perno sostanziale lungo tutto il suo sviluppo. Questo aspetto è stato infatti sin da principio caratterizzante il Movimento, sia per gli attivisti che per l’elettorato in espansione, rimarcandone la posizione lungo la frattura verticale tra istituzioni e società, la carica antisistemica e i consueti toni nazionali da “guerra civile ideologica” (Siamo in guerra: per una nuova politica è tra l’altro uno dei primi testi scritti a doppia mano da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio).

La crescita diffusa e trasversale di malcontento entro la società nazionale ha parimenti portato il Movimento ad ampliare l’accento su questa impostazione negativa del proprio messaggio, orientando gradualmente un asset tipico dell’odierno catchallism che ha portato a definirne una qualità integralmente bipartisan pur partendo da temi originari più propri della cultura movimentista della sinistra.

Tale crescita, accompagnata alla polarizzazione in termini di contenuti, ne ha ampliato in parallelo il potenziale contraddittorio: la coesistenza interna di tante anime distinte ha definito un’insolita creatura politica, il cui equilibrio precario è stato gestito perlopiù stringendo il controllo, mantenendo un forte discorso politico di tipo negativo e penetrando parallelamente le istituzioni. Si è acuita l’incoerenza tra auto-rappresentazione anti-partitica, mitizzazione della società civile, verticalizzazione del Movimento e assunzione sempre più forte di funzioni ortopediche e pedagogiche.

Occorre aggiungere che l’istituzionalizzazione del Movimento non si è neppure accompagnata a un relativo dotarsi di strutture sul territorio e alla definizione di una più chiara ragione sociale e di una linea politica e programmatica. Si ritiene che la pregnanza di ciò si situi nella possibilità di collocare lo sviluppo del M5S nella cornice generale del populismo in democrazia, strutturalmente legato a premesse di ambiguità, indistinzione ideologica ed elasticità di contenuti. Benché il Movimento abbia esibito tratti inediti, come l’efficace uso del web, ciò non lo ha sottratto dal condividere pienamente alcuni dei tratti comuni delle variegate famiglie del populismo, in particolar modo: l’appello diretto al popolo presentato come omogeneo, scevro di contraddizioni e fonte esclusiva della legittimità politica; l’auto-rappresentazione degli outsiders come incarnazione e voce della genuinità popolare; visione manichea e strenui anti-elitismo e anti-istituzionalismo[16].

Su queste basi è stata infatti possibile l’insolita convergenza con la Lega nel 2018 e la firma di un contratto di governo, costitutivo del primo governo populista nel panorama democratico occidentale. Si ritiene che la frequente difficoltà scientifica e pubblicistica nel collocare chiaramente i pentastellati entro la costellazione del populismo, si sia legata al leitmotiv dell’eccezionalità italiana.

Tuttavia l’approfondimento di uno sguardo storico sul fenomeno non manca di mostrare chiaramente la convergenza tra i fattori dello sviluppo politico internazionale e nazionale. Ciò denota come la forte affermazione di questa forza politica non ne debba necessariamente mostrare una chissà qual peculiarità, ma piuttosto sottolinea la forza dell’intreccio tra generale ondata populista, background antipolitico e antipartitocratico italiano e specificità della storia politica nazionale.

Si pensa che, al di fuori delle forme retoriche della propaganda populista, il M5S abbia finito per porsi come ago della bilancia nel quadro dell’alternanza instabile e delle eredità del bipartitismo imperfetto[17]. Seguendo questo ragionamento si ipotizza che abbia altresì ricoperto un ruolo centrale nel tentativo di inserirsi in quel vuoto politico di lunga durata legato a uno spazio lasciato largamente inespresso dopo lo scioglimento della DC e in vario modo captato dalle forze politiche nazionali della post-democrazia, spesso attraverso declinazioni populiste del messaggio politico (berlusconismo, leghismo, M5S) che hanno ammiccato variamente a destra o a sinistra, oppure sia a destra che a sinistra.

Il Movimento 5 Stelle, come ogni partito populista approdato al governo, ha dovuto progressivamente mutar forma, spostandosi su toni e figure più moderate ma mantenendo le ambiguità interne, per questioni di potenziale estensione del consenso, per una evidente complessità strutturale e per evitare il completo snaturamento della propria funzione di lotta verticale. Queste torsioni sono andate aumentando, ciò anche per due ragioni contingenti: anzitutto il passaggio al governo con il PD, che ha comportato compromessi più complessi e in generale un accostamento ancor più contraddittorio rispetto a quello precedente con la Lega. È infatti in tal caso mancato il collante protestatario ed è, d’altra parte, sembrato manifesto l’avvicinamento alla tanto avversata “casta”, inficiando anche l’eventualità di un ruolo di protesta nel governo. Quest’ultima poi è stata resa perlopiù impossibile dallo scoppio dell’emergenza pandemica che richiede di per sé una dose di responsabilità civile e politica ulteriore e che, da posizioni di governo, non ha potuto lasciare margine a una politica negativa, seppur con tutte le lentezze e contraddizioni emerse anche in questa fase.

A questo graduale percorso di destrutturazione del movimento originario si sono poi continuate ad accompagnare la mancanza di un radicamento territoriale, così come l’assenza di una ragione sociale di riferimento, in generale comune a molte delle realtà partitiche post-democratiche. C’è stato un tentativo di ovviare a tale deficit accentuando la funzione del reddito di cittadinanza ma anzitutto a questo è stata interamente devoluta la funzione di salvataggio dall’indigenza per alcune fasce della società, senza implicare alcuna presa di posizione rispetto a proposte e idee di tipo redistributivo e dunque più strutturale. In secondo luogo esso è stato presentato e rimarcato come risposta innovativa e radicale al tema del lavoro e alla crescente polarizzazione sociale, pur ricordando molto da vicino forme di intervento assimilabili allo Speenhamland Law del 1795. Quest’ultima fu una legge voluta dalle aristocrazie contro la nuova élite dei capitalisti emergenti, come strumento di pacificazione sociale e di conservazione sistemica, che comportò però un crollo del livello dei salari e inficiò sulla (non già rosea) condizione dei lavoratori, sia pure in relazione a un conteso molto diverso[18].

È attraverso questi percorsi che è andata declinando la funzione storica del M5S, la cui rapidissima parabola di affermazione e l’altrettanto rapido declino rispondono a fattori sia storici che contingenti: i primi identificabili. Da qui adesso emerge l’urgenza di ridefinizione strutturale e sostanziale di un partito che continua a dirsi anti-partito ma che non può più permettersi siffatte ambiguità.


[1] Su questi aspetti relativi al concetto di crisi si rimanda agli importanti riferimenti di seguito: Reinhart Koselleck, Crisi per un lessico della modernità, Ombre corte, Verona, 2012; Edgar Morin, Per una teoria della crisi, Armando, Roma, 2017.

[2] Alfio Mastropaolo, Antipolitica all’origine della crisi italiana, L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000.

[3] Il primo novembre 1790 si costituiva ad Aix-en-Provence il cercle des antipolitiques, nucleo locale affiliato sin dalla nascita alla società parigina dei giacobini, di cui avrebbero seguito intenzioni e sorti: è in questa fase e in tale contesto che emerge per la prima volta il termine antipolitica. Cfr. Paolo Viola Prima del populismo. Radici settecentesche dell’antipolitica, in «Meridiana», n. 38-39, 2000, p. 16.

[4] Mastropaolo, Antipolitica, cit., p. 29.

[5] Massimo Salvadori, Storia d’Italia: crisi di regime e crisi di sistema 1861-2013, Il Mulino, Bologna, 2013.

[6] Giovanni Orsina, Guido Panvini (a cura di) La delegittimazione politica nell’Italia contemporanea, 1. Nemici e avversari politici nell’Italia repubblicana, Viella, Roma, 2016, Kindle edition, cap. 1.

[7] Salvadori, Storia d’Italia, cit., pp. 17-25.

[8] Mastropaolo, Antipolitica, cit. p. 66.

[9] Ulrich Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2000, pp. 4-20; cfr. Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 1-39.

[10] Francesco Tuccari, La rivolta della società: l’Italia dal 1989 ad oggi, Laterza, Roma-Bari, 2020, pp. 1-14.

[11] Nadia Urbinati (a cura di) Thinking democracy now. Between Innovation and Regression, Feltrinelli editore, Milano, 2019, pp. 77-97.

[12] Ernest Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari, 2019, pp. 211-236.

[13] Oliviero Ponte di Pino, Comico e politico: Beppe Grillo e la crisi della democrazia, Raffello Cortina Editore, Milano, 2014, pp. 118-139.

[14] Paolo Ceri, Francesca Veltri, Il movimento nella rete: storia e struttura del movimento cinque stelle, Rosenberg&Sellier editore, Torino, 2017, pp. 224-231.

[15] Gian Luca Fruci, La storia (in)finita della democrazia diretta, in «Italianieuropei», 5-6, 2013, pp. 40-44.

[16] Flavio Chiapponi, Il populismo 2.0. Note preliminari sulla leadership e sul modello organizzativo del Movimento 5 Stelle, in «Quaderni piacentini», XLII, 3, 2012, pp. 302-303.

[17] Salvadori, Storia d’Italia, cit., pp. 17-25.

[18] Tuccari, La rivolta della società, cit., p. 96.

Scritto da
Olimpia Capitano

Nata a Livorno nel 1994, laureata in Storia e Civiltà presso l’università di Pisa, autrice del libro “Il PCd’I a Livorno. Premesse e linee di sviluppo”. Si occupa di storia politica italiana e di storia sociale del lavoro, con particolare attenzione all’indagine delle strutture e del funzionamento democratico.

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