Scritto da Luca Picotti
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L’Inflation Reduction Act (IRA) statunitense ha destato diverse preoccupazioni in Europa. Il motivo è semplice: l’alleato atlantico ha deciso di utilizzare tutta la propria forza finanziaria, politica e tecnologica per rafforzare le proprie imprese nella grande sfida della transizione ecologica, nonché, più in generale, per presidiare il proprio sistema economico rispetto alla traiettoria protezionistica che l’ordine globale sta andando assumendo. Una partita complessivamente giocata con le armi del diritto, tra scrutinio degli investimenti esteri nei settori strategici e controlli sull’export, e della politica industriale, avente come obiettivo principale il competitor cinese, ma con inevitabili riflessi anche sull’economia dei Paesi amici. Il rischio avvertito a Bruxelles è quello di una perdita di competitività delle imprese europee rispetto a quelle statunitensi.
Difatti, l’Inflation Reduction Act, adottato il 16 agosto 2022, a ben vedere riguarda l’inflazione solo fino ad un certo punto. Si tratta, invero, di una scommessa strategica e finanziaria sulla centralità del sistema manifatturiero americano nella transizione verso le energie pulite. Crediti di imposta, sussidi, garanzie sui prestiti: una possente leva statale volta a sostenere le imprese statunitensi nella sfida energetica e attirare investimenti in suolo americano, sì da (ri)costruire un apparato industriale adatto alle sfide di questa fase storica, prima fra tutte la valorizzazione del combinato disposto di produzione nazionale, sicurezza energetica e continuità degli approvvigionamenti, in un’ottica che vede la dipendenza dall’estero sempre più come un rischio, piuttosto che come una distribuzione razionale delle competenze secondo le logiche ricardiane del vantaggio comparato. Gli ordini di grandezza delle misure adottate da Washington sono i seguenti: quasi 400 miliardi di dollari di investimenti, ripartiti in 250.6 in energy, 47.7 in manufacturing, 46.4 in environment, 23.4 in transportation and electric vehicles, 20.9 in agriculture e 4.7 in water[1]. Dall’energia eolica a quella fotovoltaica, da quella geotermica all’idrogeno, passando per le vetture elettriche, l’obiettivo è quello di sussidiare la transizione ecologica prediligendo componenti e produttori americani; difatti, gran parte dei crediti di imposta sono vincolati all’utilizzo di materiali statunitensi o comunque di Paesi che hanno con gli Stati Uniti un accordo di libero scambio, nonché all’apertura di stabilimenti sul suolo americano. Tra i tanti esempi, uno dei più discussi concerne lo sconto di 7.500 dollari per l’acquisto di automobili elettriche, concesso solo se i materiali critici utilizzati per le batterie e il loro assemblaggio arrivano dall’America o da Stati alleati con cui vi sono i suddetti trattati di libero scambio (si veda p. 136, stat. 1956 (e), Critical Mineral and Battery Component Requirements, IRA, Public Law No: 117-169).
In generale, tale intervento va letto assieme ad altre due misure degne di nota, introdotte a partire dal 2021, entrambe da inserirsi nella volontà di Washington di mantenere un ruolo di primazia dinnanzi alle turbolenze che stanno interessando l’ordine globale. Si tratta, in primo luogo, della Bipartisan Infrastructure Law (BIL), volta a promuovere investimenti per modernizzare il sistema infrastrutturale statunitense; in secondo luogo, e ancora più importante, il Chips&Science Act, finalizzato ad aumentare il peso americano nella delicata e senz’altro strategica catena dei semiconduttori. Sia chiaro: gli Stati Uniti non sono nuovi a misure di questo tipo; hanno sempre utilizzato il diritto, i sussidi e la politica industriale per perseguire i propri scopi strategici, anche a costo di colpire le economie di Paesi alleati (si pensi alla guerra dei semiconduttori con il Giappone negli anni Ottanta). Sarebbe un errore pensare di trovarsi di fronte a qualcosa di inedito. Ciononostante, la portata delle misure – e in generale dell’approccio – di Washington degli ultimi anni rappresenta una delle più grandi sfide all’orizzonte. Protezionismo, sussidi ai campioni nazionali, ingenti quantità di denaro pubblico, controlli sull’export e sugli investimenti, ambizioni di reshoring: il panorama sta assumendo sembianze ben diverse da quelle che, a torto o ragione, si pensavano dominanti negli anni Novanta. Concorrenza e libero mercato non paiono affatto delle priorità per la prima potenza mondiale, tantomeno per il rivale cinese o per gli altri Paesi asiatici. Un campo da gioco che sta disorientando non poco l’Unione Europea.
In particolare, sull’Inflation Reduction Act hanno espresso preoccupazioni diversi esponenti europei, da Ursula von der Leyen a Margrethe Vestager[2], passando per i singoli capi di Stato, a partire da Emmanuel Macron[3]. I sussidi statunitensi rappresentano, infatti, non solo un rischio per la competitività delle imprese europee, già gravate da prezzi dell’energia più alti, rispetto a quelle statunitensi, o per gli investimenti nel mercato unico, che potrebbero diminuire in quanto meno attrattivi di quelli oltreoceano, ma si traducono in un vero e proprio strappo nel cielo di carta della infrastruttura giuridica comunitaria così come sviluppatasi da Maastricht in poi. L’Unione Europea, difatti, ha costruito la propria architettura su Trattati finalizzati a garantire determinati principi, fondanti quella che si potrebbe chiamare, per citare un importante volume curato da Sabino Cassese, la nuova costituzione economica[4]: libera circolazione di capitali, libertà di stabilimento, concorrenza, vincoli agli aiuti di Stato, non discriminazione, trasparenza e corretta amministrazione. Un’intera infrastruttura giuridica volta a limitare le spinte politiche degli Stati membri, sì da creare un mercato unico armonico e debellare alla radice le inevitabili divergenze tra le singole bandiere. Da qui le rigide norme sulla concorrenza (art. 101 ss TFUE) o, ancora, sugli aiuti di Stato (artt. 107 e 108 TFUE), così come i vincoli a debito e deficit – anch’essi volti a intrappolare qualsivoglia spinta autonoma dei Paesi più inclini alla spesa pubblica. In questo modo, un costrutto creato e abitato da Stati-nazionali, ancora centrali, ha potuto garantire al suo interno una parvenza di armonia tramite le regole, in modo da evitare che l’assenza di una politica unitaria conducesse a plurime spinte disarmoniche in direzioni diverse. L’armonia delle regole o la disarmonia della politica.
Il problema è che questa fase storica è connotata da un ritorno a tutto campo (ma non se ne era mai andata) della politica. Non ci si trova più di fronte all’illusione di un mondo globalizzato piatto, retto dai principi della lex mercatoria e del diritto internazionale, da interpretarsi con le mere logiche economiche. La pandemia e la guerra in Ucraina – ma i primi vagiti dell’attuale fase erano rinvenibili ancora prima – hanno messo in discussione i paradigmi comunitari, a partire dai capisaldi dell’infrastruttura giuridica: i vincoli agli aiuti di Stato, che in fase emergenziale hanno trovato una nuova disciplina più flessibile, la priorità per la libera concorrenza e il patto di stabilità.
Il tema centrale è, al netto delle deroghe emergenziali, come riprogettare (o proprio se riprogettare) l’infrastruttura comunitaria alla luce delle sfide protezionistiche, quasi da guerra commerciale, portate dall’Inflation Reduction Act. È evidente che l’Unione Europea, con le proprie regole rigide, non ha gli strumenti adatti per rispondere alla potenza di fuoco messa in campo da Washington per tutelare il proprio mercato e le proprie imprese; dopotutto, qui si sta parlando di uno Stato, o un Impero, con una propria politica: le imprese americane first. Per l’Unione Europea, costrutto giuridico-economico formato da più Stati sovrani, la questione è diversa: in primo luogo vi sono le imprese e gli interessi nazionali, sovente contrapposti. Sicché, se l’infrastruttura giuridica permetteva di perseguire una sorta di armonia, una sua deroga rischierebbe di fare emergere l’intrinseca disarmonia tra le politiche dei singoli Paesi membri.
Non a caso, il dibattito sul tema si è acceso con riferimento ai dati sulle autorizzazioni agli aiuti di Stato nel 2022: la Commissione europea ha autorizzato 190 misure nazionali, per un totale di 673 miliardi di euro di sussidi pubblici; di questi, il 53% ha riguardato la Germania (356 miliardi), il 24% la Francia (162 miliardi), il 7.6% l’Italia (51 miliardi) e a seguire gli altri Paesi membri[5].
Il punto centrale risiede nel fatto che, come si è in parte già visto, una deroga alla normativa sugli aiuti di Stato permette ai Paesi finanziariamente più solidi di fornire un maggiore aiuto alle proprie imprese: non a caso più del 50% delle autorizzazioni ai sussidi è andato alla Germania. Ciò significa che gli Stati più forti (Germania, ma anche Francia) possono sostenere i propri campioni con diverso vigore, rendendoli più competitivi di quelli di Paesi che non dispongono della stessa leva finanziaria, come l’Italia, con il risultato di alimentare le asimmetrie. Tant’è che il governo Meloni pare – paradossalmente rispetto alla tradizionale postura italiana circa la flessibilità – scettico su una deroga strutturale alla normativa sugli aiuti di Stato, proprio perché ne beneficerebbero soprattutto (come già ora accade) le industrie tedesche e francesi. Il che è, per l’appunto, quasi un paradosso: l’Italia ha sempre chiesto flessibilità sui parametri fiscali in modo da potere sostenere con la leva pubblica la propria economia, ma ora di fronte alla possibilità che tali deroghe aiutino più le imprese di altri Paesi che quelle italiane si mostra scettica.
Tale realtà mette in luce la contraddizione fondamentale dell’Unione Europea: essendo una Unione di Stati, ogni bandiera vuole tutelare, in primis, le proprie imprese. Quelle francesi sono concorrenti rispetto a quelle italiane e viceversa. Un interesse europeo è ancora lontano. Peraltro, ciò si inserisce in un discorso più ampio: nonostante anni di narrazione sulla globalizzazione e sul potere delle multinazionali, le imprese mantengono, in ultima istanza, una impronta geografica, pure se nascosta dietro a incroci di partecipazioni societarie e vari arbitraggi fiscali. In altre parole, anche le imprese sono riferibili ad una determinata realtà statuale nella cornice dello scacchiere geopolitico. Google e Amazon sono americane, Tencent e Alibaba cinesi; partecipano alla competizione tra le due superpotenze.
Ritornando all’Unione Europea, l’Inflation Reduction Act sta mettendo in luce alcune fragilità strutturali del costrutto comunitario: mantenere una regolamentazione inadatta alle sfide geopolitiche all’orizzonte, ma che permette di tamponare le asimmetrie interne, o derogarla, così da adottare strumenti più consoni alla fase storica attuale, ma rischiando di fare esplodere tali asimmetrie?
Il dilemma pare di difficile soluzione. Se si vuole affrontare una simile sfida con le stesse armi statunitensi (politica industriale, sussidi a campioni nazionali, protezionismo), emergono le asimmetrie; le imprese tedesche, ad esempio, si possono avvantaggiare di più di quelle italiane. Se si vuole mantenere l’attuale infrastruttura giuridica, difficilmente si potrà competere con le misure americane. In quest’ultimo caso, l’unica strada percorribile rimarrebbe quella di confidare in magnanime deroghe da parte di Washington (come quelle che concede al Canada o al Messico in altre parole). Ciò permetterebbe di mantenere l’infrastruttura attuale senza creare asimmetrie, ma sarebbe allo stesso tempo l’ammissione di una debolezza strategica: confidare, sostanzialmente, in una caritatevole deroga dell’alleato è, forse, un po’ troppo poco per una Unione che ambisce ad essere un attore di primo grado.
Certamente vi sono ulteriori profili che meriterebbero di essere discussi. Ad esempio, da una prospettiva italiana, si potrebbe affermare che una maggiore crescita delle imprese tedesche sussidiate porterebbe, in via riflessa, benefici anche a quelle italiane integrate nella filiera; se da un lato è vero, dall’altro non è detto che tali aiuti vadano tutti in settori in cui c’è forte integrazione (come sicuramente è nell’automotive) e, comunque, ci si troverebbe innanzi alla accettazione di un rapporto subordinato, che rinuncia a priori a puntare sulla crescita delle imprese nazionali, ma si accontenta dei guadagni indiretti delle medie imprese nostrane derivanti dagli aiuti ricevuti dai campioni tedeschi. Per di più, il tema non concerne solo i rapporti con la Germania, ma riguarda, ad esempio, anche quelli con la Francia, ove, si sa, la competizione tra i due Paesi è piuttosto accesa, specie sul fronte degli investimenti esteri. Tali tematiche riecheggiano, dopodiché, anche in eventuali proposte di fondi sovrani comunitari finalizzati a sussidiare la transizione: come si ripartiscono i sussidi europei tra le varie imprese appartenenti a Stati diversi? Se si indicono delle gare e le vincono in gran parte, ad esempio, le imprese tecnologiche nordiche, e non le realtà italiane (più che legittimo, sia chiaro), si torna di fatto al punto di partenza delle asimmetrie. Sono nodi che occorrerà sciogliere. E, scavando tra una soluzione e l’altra, al netto delle mezze misure ibride – allentamento delle regole, ma solo in parte; istituzione del fondo sovrano, ma con poca disponibilità economica ecc. – continua ad aleggiare lo spettro dell’intrinseco dilemma comunitario: l’armonia delle regole o la disarmonia della politica?
[1] McKinsey’s Public Sector Practice, The Inflation Reduction Act: Here’s what’s in it, McKinsey & Company, 24 ottobre 2022.
[2] Gianmarco Carriol, L’inflation reduction act di Biden preoccupa l’Europa, «Wall Street Italia», 6 dicembre 2022.
[3] Michel Rose e Jeff Mason, U.S. Inflation Reduction Act ‘super aggressive,’ Macron tells lawmakers, «Reuters», 1 dicembre 2022.
[4] Sabino Cassese, La nuova costituzione economica, Laterza, Roma-Bari 2021.
[5] Redazione, Aiuti di Stato, ecco la classifica Ue: Germania prima, Italia terza, «Il Sole 24 ORE», 12 febbraio 2023.