Scritto da Leonardo Palma
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Nell’abbazia di Westminster, attraverso le forme e i tempi di uno dei rituali più antichi della storia d’Europa, l’arcivescovo di Canterbury ha incoronato re Carlo III. Dopo il più lungo apprendistato, il nuovo re si trova a presiedere ad un compito grave: tenere unito un regno il cui anestetico alle sempre più evidenti crepe era stata la sola figura della regina sua madre; assopire le tentazioni repubblicane di alcuni reami d’oltremare; mantenere la coesione del Commonwealth e guidare il Regno Unito nella fase più tormentata della sua storia recente. Obblighi troppo grandi per un solo governo e che invece si abbattono con il peso indifferente delle responsabilità storiche sulle spalle già incurvate dalla vecchiaia di un uomo solo. «Inquieto giace il capo che porta la corona», mormora Enrico IV dopo l’ennesima notte insonne. Un re che regna ma non governa e che dei silenzi deve fare lo strumento del proprio regnare. Un capo di Stato il cui ruolo è quello, apparentemente, di non fare nulla. Ma fare nulla è il lavoro più arduo che esista, che richiede ogni oncia della propria energia perché l’imparzialità non è naturale né umana. Le persone vorranno sempre che il re sorrida, accigli o concordi con loro ma, nell’esatto istante in cui avrà ceduto al naturale istinto delle personali inclinazioni, egli avrà preso una posizione. Egli avrà ceduto alla sua natura umana infrangendo la vera fonte del potere della monarchia: il mistero e la trascendenza. Quando si espone il misticismo, ammantato com’è della calda luce del sentimento, alla fredda luce della ragione di esso rimangono solo tracce asperse. «Il suo linguaggio apparirà povero quando non folle e le sue più vigorose immagini, private del loro calore sentimentale, finirebbero per assomigliare a patetiche caricature»[1]. Il misticismo politico, nello specifico, è esposto particolarmente al pericolo di perdere il suo fascino e diventare privo di senso una volta che lo si è tolto dalle coordinate di contesto, tempo e luogo. La monarchia, come istituto politico, dipende da questo delicato equilibrio tra reale e immaginario. Umberto II, ultimo re d’Italia, di fronte all’esito fragile e incerto del referendum istituzionale del giugno 1946, tra sospetti di brogli e una maggioranza esigua che restituiva l’immagine di un Paese ancora diviso, commentò che solo una repubblica avrebbe potuto reggersi sul 51%. La monarchia, spiegò il sovrano ad alcuni suoi collaboratori che lo esortavano a resistere, è un istituto mistico, irrazionale. Di fronte al pericolo di ricacciare il Paese nuovamente nell’incubo della guerra civile preferì allora partire. «La mia famiglia ha unito l’Italia. Non sarò io a dividerla»[2].
La questione del misticismo è in realtà solo apparentemente un dato esteriore, dal momento che proprio nella congiunzione tra mistica del re e realtà del re si rintraccia uno dei fondamenti di quello che Ernst Cassirer chiamava il “mito dello Stato”. Quest’ultimo non può esaurirsi certamente nel problema della definizione del rapporto tra mistica e politica della Corona, dal momento che quest’ultima è solo una trama di un tessuto assai più fitto e complesso, sebbene contribuisca, in modi certamente diversi, a definire il carattere perpetuo dello Stato. Il rapporto tra mistica e politica, che i giuristi medievali inglesi definirono come la dottrina dei “due corpi del re” e di cui sussistono robuste evidenze storiche anche nelle realtà giuridiche continentali, si basa sull’idea che il re disponga di due corpi: il corpo naturale e il corpo politico. Secondo la definizione riportata in una causa riguardante il ducato di Lancaster e citata nei Reports del 1761 del Plowden, il corpo naturale considerato per se è un corpo mortale, soggetto a tutte le infermità naturali e accidentali, «alla debolezza dell’infanzia e della vecchiaia». Il corpo politico, al contrario, è un corpo immateriale che non può essere visto né toccato, «consistente nella condotta politica e di governo e costituito per la direzione del popolo e la conservazione del bene pubblico», dunque un corpo privo di infanzia e di vecchiaia e di tutti i difetti e le debolezze a cui è soggetto il corpo naturale[3]. Per questo motivo nessun atto che il re compie con il suo corpo politico può essere invalidato o annullato a causa di alcuna debolezza del suo corpo naturale. La potenza del re, conseguentemente, non poteva venire associata alle sue spoglie mortali, uguali a quelle di tutti gli altri uomini, perché non può essere considerato un potere quello di «peccare, far del male, ammalarsi, invecchiare, recar danno a se stessi»[4]. Nel libro The Governance of England, il Fortescue spiega che i suddetti poteri sono piuttosto indice di impotenza, un’affermazione che faceva già intravedere la connessione tra speculazione giuridica e pensiero teologico medievale dal momento che gli angeli e i santi, nella tradizione cristiana, non posso peccare. Il corpo naturale del re è dunque congiunto al corpo politico che contiene in sé l’ufficio, il governo e le dignità regali ed è a causa di questa unione che il re viene magnificato. Nella cerimonia di incoronazione a Westminster, prima dell’unzione, Carlo è stato spogliato e lasciato nella sua sottoveste perché nel suo corpo mortale egli è un peccatore come tutti gli altri uomini: gli onori e gli oneri che derivano dal corpo politico sono in effetti suoi non per ereditarietà ma per dono divino. Il peso fisico, materiale, della corona assurge a simbolo della condizione dell’umanità tutta nella visione cristiana della Storia: umanità chiamata da Dio, pur se inadeguata a questo compito, ad essere reggente della Terra. Quasi che Dio avesse detto, utilizzando le parole dell’arcivescovo, che nel suo inesorabile amore avrebbe steso sulla polvere che sono gli uomini («Umbra et pulvis sumus», scrive Orazio in Odi IV,7) glorie e pericoli e responsabilità al di là della loro comprensione. Poiché, secondo la dottrina cristiana, gli esseri umani sono imago dei, dunque tutti sono stati incoronati in qualche modo. Un dono che si rivela in realtà essere uno splendore tragico.
Nel Medioevo, le conseguenze giuridiche della dottrina dei due corpi in tema di successione, acquisto, vendita, permuta, fiscalità, come ebbero a notare i sofisticati giuristi elisabettiani, furono vastissime e assai complicate da ricostruire. Esse esulano da questa trattazione, sebbene siano fondamentali per capire la gestazione dello Stato moderno. La Corona, infatti, è la titolare della proprietà fiscale, difende i diritti inalienabili di tutti, è la “fontana della giustizia” e dunque tutte le controversie giuridiche così come i processi e l’azione penale (inclusi quelli che in epoca medievale interessavano i tribunali ecclesiastici) non potrebbero che essere trattati come processi della Corona. La Corona è l’espressione erga omnes dei diritti sovrani dell’intero corpo politico, superiore a tutti i propri singoli membri, incluso il re, ma mai separata da essi. La Corona coincide biologicamente con il re dal punto di vista dinastico, dal momento che la legittimità della pretesa è di natura ereditaria, ma gli coincide giuridicamente in quanto capo del corpo politico. La Corona, tuttavia, è anche un corpo aggregato. Come accennato in precedenza, nella sua capacità umana il re possiede membra naturali come quelle di qualsiasi altro uomo e per questo egli è soggetto alle passioni, alla morte, al peccato. Nella sua capacità politica, invece, egli è corpo politico e le sue membra sono i sudditi; insieme ai suoi sudditi, secondo la giurisprudenza medievale, egli forma la corporation, che fa tutt’uno con loro ed essi con lui. Si spiega così perché nel Medioevo la Corona, pur essendo raramente personificata, era spesso corporificata. Essa è e rimane un corpo complesso, un corpo politico che non può essere separato né dal re, la testa, né dai corresponsabili dello status coronae, le membra. Sull’identificazione di queste membra molto si è discusso per via della loro mutevolezza storica, dal momento che furono di volta in volta individuate nella nobiltà, nei consiglieri privati del re, nell’unione tra Lord e Comuni all’interno del Parlamento, un organo in cui il corpus morale et politicum del regno diventava vivo, vitale e visibile[5]. Come disse Enrico VIII, «durante le sessioni del parlamento, quando noi come capo e voi come membra siamo congiunti e uniti insieme [rappresentiamo] un [unico] corpo politico»[6]. Siamo lontani dalla persona fittizia, intesa come personificazione autonoma non solo superiore ai propri membri ma anche separata da essi, in cui si sarebbe trasformato lo Stato continentale europeo dopo il XVI secolo. Ancor più lontani dalla pretesa assolutista de l’État c’est moi di Luigi XIV. Viepiù, quel che interessa a noi in questa sede è il fondamento teologico e mistico che insuffla forza e contenuto alla declinazione politica della dottrina. In questo senso, il richiamo alla lezione di San Paolo (Colossesi 2, 19) sul rapporto tra Cristo e la Chiesa, corpo e membra, è evidente e ci torneremo più avanti. Rispetto al corpo politico, il re non muore mai e in effetti la sua morte naturale non fu mai chiamata dai giuristi di età Tudor “la morte del re”, piuttosto la “demise del re”. Il corpo politico non può morire e alla morte fisica del re vi è una separazione tra i due corpi, con quello politico che viene trasferito e trasmesso dal corpo naturale, morto e privato della dignità regale, ad un altro corpo naturale. Una separazione che nel Riccardo II di Shakespeare, forse l’opera più rappresentativa di questo rapporto, è violenta e drammatica, vissuta come lacerazione e come spoliazione tragica e quasi orrorifica del corpo politico del re. Una straziante cerimonia nella quale l’ordine dell’incoronazione viene rovesciato. E anche per questo l’abdicazione di un re o del successore di Pietro, come dimostrano i casi di Edoardo VII, di Juan Carlos e di Benedetto XVI a cavallo tra il XX e il XXI secolo, è ancora oggi vissuta come atto innaturale, come violazione di un patto. Perché, e qui ritorna il paragone cristologico, Cristo non scende dalla croce ma accetta il martirio del suo corpo mortale perché volontà di Dio. Nella scena in cui Riccardo si “disfà di se stesso”, egli grida di aver perduto anche il suo Nome. E in effetti, ancora oggi, il re possiede solo un nomen ma non un vero cognomen.
La dottrina dei due corpi aveva altresì il vantaggio di mettere il popolo, il parlamento e le altre istituzioni nella condizione di poter, come asseriva il grido puritano, “combattere il re per difendere il re”. L’esecuzione di Carlo Stuart poté essere comminata dal parlamento ed eseguita senza particolari sussulti perché la sentenza era stata emessa contro il corpo naturale del re e non contro il suo corpo politico, a salvaguardia della continuità istituzionale della monarchia. Esattamente l’opposto di quanto avvenne nel 1793 nella Francia della Rivoluzione[7]. Il re, scrisse il giudice Brown, è un «nome di continuità, che sempre durerà come capo e governante del popolo conformemente alla legge finché vivrà il popolo e, con questo nome, il re non morirà mai»[8]. D’altronde, proprio la Dichiarazione dei Lords e dei Comuni del maggio 1642 affermava che il corpo politico del re era ed è serbato nel e dal Parlamento (il cosiddetto King-in-Parliament, nell’idea costituzionale tipica dei Paesi di Common Law di fusione dei poteri e non di separazione), mentre il corpo naturale ne è espulso[9]. Ne deriva che, pur essendo il re il protettore e la “fontana della giustizia”, gli atti di giustizia e di protezione non possono dipendere dal suo arbitrio né essere compiuti dalla sua persona, ma lo sono ad opera delle sue corti e dei suoi ministri, i quali devono adempiere al proprio dovere, «anche se il re con la propria persona proibisse loro di farlo». L’alta corte del parlamento non è pertanto solo una corte giudiziaria ma un concilio che deve dichiarare la volontà del Re e ciò che essa compie in questa qualità «ha il carattere dell’Autorità reale, anche se Sua Maestà con la sua persona lo ostacoli o lo impedisca»[10]. L’idea di combattere il re per difendere il re non era di esclusiva appartenenza puritana delle terre d’Inghilterra, dal momento che essa fece la sua comparsa anche nel mondo cattolico mediterraneo. In un articolo del maggio 1946, Luigi Einaudi si espose pubblicamente in favore della continuità monarchica in Italia e, nel tratteggiare le caratteristiche dell’istituto, prese a prestito dalla letteratura della Reconquista l’appello dei «compagni delle battaglie comuni contro gli arabi» in terra di Spagna ai sovrani nuovamente assunti al trono. «Noi, ognuno dei quali è uguale a te e che tutti insieme siamo più di te, dichiariamo e vogliamo che tu sia re per la difesa di tutti noi contro chiunque di noi si eriga ad oppressore nostro e contro la follia di noi stessi se per avventura ci persuadessimo a rinunciare alla nostra libertà. Se tu sarai re per difendere noi e le nostre libertà, noi ti saremo fedeli perché saremo, così facendo, fedeli a noi stessi ai nostri avi e ai nostri figli. Ma se tu non sarai il re che noi vogliamo, sappi che non basterà più l’oblio dell’esilio volontario a lavare le tue colpe»[11]. Corpo politico e corpo naturale, testa e membra, difesa dei diritti inalienabili di tutti, dovere di combattere il re per difendere il re qualora la persona del re fosse venuta meno al patto. Quando nel giorno del trionfo l’imperatore romano vittorioso sfilava sul cocchio trainato dal Campo Marzio al Campidoglio, come un dio incarnato avvolto nella toga purpurea di Giove capitolino e con lo scettro con l’aquila del dio e il volto dipinto di bruno e di rosso, lo schiavo che era con lui sul cocchio reggendogli sulla testa la corona dorata gli sussurrava: «Memento quod es homo. Memento»[12]. La previsione di questa “valvola di sicurezza”, se così vogliamo chiamarla, dimostra come tanto i giuristi quanto i Comuni avessero chiara la potenza politica che avrebbe potuto promanare dalla dottrina dei due corpi. Non è un caso che, nell’opera di Ernst Kantorowicz del 1957 sui due corpi, il tema della teologia politica, nel senso espresso da Carl Schmitt, assumeva da parte della critica una vertigine assai peculiare e che l’autore già nella prima introduzione volle fugare ricordando la sua avversione nei confronti del nazionalsocialismo tedesco e del culto mistico del capo. Kantorowicz desiderò tenere ben lontane quelle accuse, già invero sollevate ai tempi del suo Federico II, ricordando come proprio l’emergere di alcuni dogmi e irrazionali teologismi politici nel primo Novecento fossero divenuti delle vere e proprie ossessioni ideologiche capaci di sfidare «i più elementari principi della ragione umana e politica». Un processo, a ben guardare, favorito parzialmente anche da quella scristianizzazione progressiva del Politico che sottrasse alle teleologie politiche di massa quel sostrato religioso che avrebbe dovuto servire, per l’appunto, a ricordare all’uomo chi fosse uomo e chi fosse Dio.
Come accennato in precedenza, il pensiero dei giuristi Tudor faceva infatti saldo riferimento al linguaggio paolino e ai suoi successivi sviluppi rintracciando una germinazione quasi diretta nel passaggio dal corpus Christi di san Paolo al corpus mysticum medievale e quindi al corpus reipublicae mysticum equiparato al corpus morale et politicum dello Stato. Sino a giungere a quella definizione (pur con le interferenze portate dal concetto di dignitas) del motto secondo cui ogni abate era un “corpo mistico” o “corpo politico” e pertanto anche il re era, o aveva, un corpo politico “che non moriva mai”. È innegabile che in questa dottrina fossero presenti tracce di eresia. A ben guardare, ce n’era per tutti i gusti dal momento che vi si potevano scorgere residui dell’arianesimo, del nestorianesimo, del donatismo ma, scavando più a fondo, anche di monofisismo, noetica, monotelismo e sabellianismo. Non è questa la sede per imbarcarsi in una discettazione sulle differenti gradazioni di questa o quella eresia, ciò che conta è dimostrare come la dottrina dei due corpi, nella sua apparente efficienza e semplicità, sollevasse una non prevista quantità di complessi problemi giuridici, fiscali e teologici. Al netto però delle eresie e delle sparse accezioni pagane percolate dalla Roma classica, la finzione giuridica dei due corpi del re non può non essere riferita al pensiero teologico cristiano rappresentando in tal senso una pietra miliare della teologia politica cristiana. Per questo il paragone tra Stato e corpus mysticum si diffuse un po’ ovunque nel Continente ma mise salde radici particolarmente in Francia, fils aîné de l’Église. Quest’idea può essere facilmente rintracciata nel misticismo della monarchia francese che conobbe una prima fioritura ai tempi di Carlo V per poi evolversi nel corso dei secoli verso un più deciso misticismo degli Stati. Jean Gerson (1363-1429), cancelliere dell’università di Parigi, parlava con regolarità del “corpo mistico” della Francia ogniqualvolta scriveva della struttura organica del regno nella sua divisione in tre Stati. I riferimenti alla natura mistica della monarchia francese sono ben presenti anche nella narrativa delle guerre di Vandea (1793-1800). Ricorda l’ambasciatore Sergio Romano nelle sue memorie che l’Eliseo, ai tempi di De Gaulle, aveva la solennità, la dignità e i silenzi di un palazzo reale[13]. Il generale vi dimorava come un monarca repubblicano, secondo la celebre definizione di Duverger. E di un re egli aveva tutti i caratteri: l’attenzione, la cortesia e la distanza nei confronti dell’interlocutore, così come una forza simbolica che trovava la sua fonte non già nella volontà divina ma in sé stessa, nel ricordo della Francia Libera. Alcuni attribuivano al generale un inconfessabile segreto: il disegno di restaurare la monarchia e rimettere sul trono gli Orléans. Ma perché, continua Romano, egli avrebbe dovuto farlo se con la sua persona e con le istituzioni della Quinta Repubblica aveva già dato alla Francia una monarchia repubblicana? Nel compromesso tra l’organicismo identitario gollista e il modello Westminster preferito da Michel Debré si chiudeva a cerniera un secolo e mezzo di storia francese. «Je n’ai pas fondé une nouvelle République, j’ai simplement donné des fondations à la République, qui n’en avait jamais eu […] Ce que j’ai essayé de faire, c’est d’opérer la synthèse entre la Monarchie et la République»[14]. La Costituzione del 1958 sanava idealmente lo scempio dell’uccisione di Luigi XVI a place de la Concorde ricomponendo la cornice istituzionale e storica di Francia rimettendo un re sul trono. I tè con il Conte di Parigi, teorico pretendente al trono del ramo orleanista, non erano un complotto monarchico: erano una reciproca investitura. De Gaulle riconosceva al Conte il diritto a rappresentare idealmente la Francia; il Conte riconosceva al generale il diritto di governarla in nome e per conto dei suoi antenati[15]. La repubblica come reggenza. Anche la Costituzione italiana del 1948 prevede tutto sommato la stessa finzione giuridica per il capo dello Stato. Il fatto che il presidente della Repubblica italiana rappresenti l’unità Nazionale significa che egli è «la personificazione vivente dello Stato nella sua unitarietà […] e solo per questo destinatario di particolari onori»[16]. Il capo dello Stato è nella sua persona fisica la raffigurazione simbolica del corpo politico, rappresenta lo Stato nella sua esistenza. E, come il re, egli è personalmente irresponsabile, ed è infatti prevista la controfirma del ministro. Allo stesso modo, seguendo una definizione del Constant, il suo è un potere neutro e non semplicemente neutrale in quanto a raccordo di tutte le parti[17]. Non per niente la dottrina è concorde nel riconoscere “residui regi” nell’organo della Presidenza della Repubblica italiana, anche perché esso si configura in sostituzione proprio di quello che nel 1947 il padre costituente Ruini definì il “pilone regio” dello Stato parlamentare[18]. Anche il Quirinale mantiene dunque alcune caratteristiche di quella finzione giuridica medievale, seppur filtrata da esperienze costituzionali diverse e da secoli di vicende politiche, che ne fanno però in un certo senso un istituto molto simile a quello della “monarchia di luglio” di Luigi Filippo d’Orléans e, forse, anche per questo annoverato tra le istituzioni repubblicane che godono di maggior prestigio e rispetto sia a livello interno che internazionale.
Lo Stato, ha scritto Michael Walzer, è invisibile e dunque deve essere personificato per diventare visibile, simbolizzato per essere amato, immaginato per poter essere concepito[19]. Solo attraverso questo processo di simbolizzazione le istituzioni, nella loro astrattezza, possono acquisire vitalità. I simboli non sono orpelli o strumenti di arredo perché, laddove la sostanza è invisibile, è necessaria una forma che dia corpo al contenuto, incarnandola. I simboli sono una componente costitutiva di una comunità politica perché rispondo alla fondamentale domanda: perché facciamo queste cose in questo modo?; essi non sono un vello d’oro ma permettono alla sostanza invisibile di acquisire concretezza al punto che la forma può diventare la massima espressione della sostanza. Nella sua opera sui simboli naturali, Mary Douglas ha definito questi ultimi come una meditazione sui grandi misteri della religione e della filosofia, cioè sul rapporto tra ordine e disordine, tra formale e informale, tra vita e morte[20]. Il simbolismo degli Stati è una lettura interiore, un processo di auto-interpretazione cognitiva di quello che un Paese è, della sua storia, dei principi che lo ispirano, guidano e sostengono[21]. Nella lettura che Roger Scruton fa della monarchia nella sua elegia dell’Inghilterra[22], l’istituto della Corona rappresenta in tal senso, nella sua forma essenziale, indipendente dalla competizione elettorale, dagli umori del popolo e dagli interessi di parte, la Tradizione intesa come trasmissione attraverso il succedersi delle generazioni naturali di quei principi che conferiscono senso e contenuto all’identità di una comunità politica. Il re, nel suo corpo naturale, non ne è altro che la personificazione simbolica.
«Scorri indietro nel tempo fino alle più oscure radici della civiltà e le troverai annodate attorno a un pozzo o strette intorno a una pietra sacra. Le persone prima portavano rispetto per un luogo e solo dopo ne traevano gloria. Gli uomini non amavano Roma perché era grande, era grande perché gli uomini l’amavano». Gilbert Keith Chesterton, Orthodoxy (1908)
[1] Ernst Kantorowicz, I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Einaudi, Torino 1989 / 2012.
[2] Amedeo di Savoia-Aosta, In nome del re. Conversazione con Gigi Speroni, Rusconi, Milano 1986.
[3] Ernst Kantorowicz, I due corpi del Re, op. cit.
[4] Ernst Kantorowicz, I due corpi del Re, op. cit.
[5] Walter Bagehot, The English Constitution, Hard Press, Londra 2018.
[6] Ernst Kantorowicz, I due corpi del Re, op. cit.
[7] Sergio Bertelli, Il corpo del re. Sacralità del potere nell’Europa medievale e moderna, Ponte alle Grazie, Firenze 1990.
[8] Ernst Kantorowicz, I due corpi del Re, op. cit.
[9] Vernon Bogdanor, The Monarchy and the Constitution, Oxford University Press, Oxford 1995.
[10] Walter Bagehot, The English Constitution, op. cit.
[11] Luigi Einaudi, Perché voterò per la monarchia, «L’Opinione», 24 maggio 1946.
[12] Ernst Kantorowicz, I due corpi del Re, op. cit.
[13] Sergio Romano, Memorie di un conservatore, Rizzoli, Milano 2002.
[14] Alain Peyrefitte, Le mal français, Plon, Parigi 1976.
[15] Sergio Romano, Memorie di un conservatore, op. cit.
[16] Massimo Siclari, Il Presidente della Repubblica nelle recenti esperienze costituzionali, Jovene, Napoli 2013.
[17] Stefano De Luca, Il pensiero politico di Benjamin Constant, Laterza, Roma-Bari 1993.
[18] Francesco Bonini, La Presidenza della Repubblica, in Francesco Bonini, Sandro Guerrieri, Simona Mori, Marco Olivetti (a cura), Il settennato presidenziale. Percorsi transnazionali e Italia repubblicana, il Mulino, Bologna 2022, pp. 161-180.
[19] Michael Walzer, On the Role of Symbolism in Political Thought, «Political Science Quarterly», Vol. 82, No. 2, giugno 1967, pp. 191-204.
[20] Mary Douglas, I simboli naturali, Einaudi, Torino 1979.
[21] Rocco D’Ambrosio, La monarchia inglese, i repubblicani e Aristotele, «Formiche», 12 settembre 2022.
[22] Roger Scruton, England: An Elegy, Pimlico, Londra 2001.