Scritto da Giacomo Bottos
7 minuti di lettura
La condizione giovanile nel mondo del lavoro presenta articolate dinamiche di transizione tra mercato e non mercato, più complesse rispetto al tradizionale passaggio dalla disoccupazione all’occupazione, e viceversa. Quali caratteristiche presenta il lavoro giovanile in questo contesto? Come avvengono le transizioni che un giovane compie prima di trovare un’identità professionale? Come agire nelle tante “aree grigie” dove mancano tutele e strumenti di valorizzazione delle competenze?
Per approfondire questi temi – che sono stati al centro di un progetto di ricerca biennale condotto da Fondazione ADAPT per Fondazione Unipolis – abbiamo intervistato Francesco Seghezzi, Presidente di Fondazione ADAPT, Direttore di ADAPT University Press e assegnista di ricerca presso l’Università di Modena e Reggio Emilia.
Con quali intenzioni e obiettivi nasce la ricerca “I giovani tra mercato e non mercato”, condotta da Fondazione ADAPT per Fondazione Unipolis?
Francesco Seghezzi: Negli ultimi anni abbiamo osservato la crescita e l’affermazione del fenomeno dei lavori senza mercato, e spesso senza contratto, concentrati nella fascia giovanile. L’obiettivo della ricerca è stato quello di verificare, a partire dalla viva voce dei giovani, se si trattava solo di una intuizione o di una concreta, complessa e critica realtà. Allo stesso tempo volevamo capire se e come questi lavori potessero, nonostante le loro criticità che pure andrebbero risolte, costituire comunque esperienze in grado di comporre un tassello di un percorso di acquisizione di competenze per chi li svolge e, nel caso, di quali competenze.
Con quali criteri sono stati scelti gli ambiti territoriali nei quali è stata svolta la ricerca?
Francesco Seghezzi: Abbiamo voluto muoverci lungo due direttive. La prima individuare regioni che avessero sia caratteristiche socioeconomiche differenti che politiche del lavoro e della formazione diverse, in virtù delle competenze regionali in materia. Questo ha portato alla scelta di Lombardia, Emilia-Romagna e Sicilia. Allo stesso tempo però sappiamo che all’interno dei confini regionali si trovano realtà territoriali molto diverse tra loro, per questa ragione abbiamo scelto di condurre le analisi, in particolare i focus group, in due città per ogni regione scegliendo una città grande (Milano, Bologna, Catania) e una città non troppo distante ma con dimensioni ridotte (Busto Arsizio, Castel San Pietro, Acireale) così da poter approfondire il fenomeno oggetto della ricerca in contesti differenti.
Quale è stata la metodologia adottata?
Francesco Seghezzi: La realizzazione della ricerca si è basata su una doppia modalità di analisi. Da una parte, si è proceduto allo studio comparato della letteratura scientifica nazionale e internazionale, per ricostruire il fenomeno nella sua dimensione statistica e nei suoi contorni giuridico-istituzionali. Questa ricerca desk è stata integrata dall’indagine empirica del fenomeno attraverso due strumenti, ossia i focus group e i questionari. All’interno dei focus group sono stati coinvolti enti ed esperti a vario titolo nel campo del lavoro e della formazione giovanile, per raccogliere il punto di vista di chi conosce il fenomeno dal suo interno. Parallelamente, è stato realizzato un questionario direttamente rivolto a ragazzi e ragazze tra i 15 e 29 anni, dando voce diretta alle opinioni dei giovani e alla loro percezione riguardo le esperienze vissute nelle transizioni tra mercato e non mercato.
Quale spazio riveste il lavoro nero nel rapporto e nell’avvicinamento dei giovani al mondo del lavoro?
Francesco Seghezzi: Il lavoro nero rappresenta un fenomeno diffuso nella fase di transizione scuola-lavoro. Se prendiamo i giovani tra i 15 e i 24 anni di età che hanno risposto al questionario, tra il 35% e il 40% ha sperimentato una forma di lavoro irregolare, un dato che se messo in relazione con l’età media di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro (22 anni) rende l’idea di come il lavoro irregolare sia in moltissimi casi la prima tipologia con cui i giovani entrano in contatto con un qualche tipo di attività lavorativa. In molti casi si tratta principalmente di cosiddetti “lavoretti” (aiuto nei compiti, baby-sitting, rider) attività di “micro-lavoro” o lavoro digitale, che spesso i ragazzi compiono mentre sono impegnati in un percorso di studi. È interessante notare come lo svolgimento di attività lavorative di questo tipo durante gli studi è strettamente collegato al livello socio-culturale delle famiglie di provenienza. Nei casi analizzati a livello regionale, la fascia anagrafica successiva (25-29 anni) vede una diminuzione (non entusiasmante, a dire il vero) dell’incidenza del lavoro nero sulla tipologia di rapporto contrattuale: questo accade perché i ragazzi hanno ottenuto un titolo di studio e possono accedere a forme di lavoro regolamentate, o perché hanno accumulato esperienza. L’unico caso in cui la quota di lavoro nero aumenta è riscontrabile nel campione siciliano, probabilmente a causa delle scarse possibilità occupazionali. Diversa è la situazione dei giovani che accettano forme di lavoro a nero o parzialmente irregolari per necessità economiche, o per non allontanarsi dal proprio territorio di nascita.
Quali sono i principali canali di accesso al lavoro per i giovani? Per quanto riguarda il lavoro formalizzato quali sono le forme contrattuali più diffuse in ingresso?
Francesco Seghezzi: Se ci riferiamo alle forme contrattuali più diffuse nell’accesso al mercato del lavoro, l’indagine rivela come il contratto a tempo determinato rappresenti la metà dei contratti in ingresso, seguito dall’apprendistato e dal lavoro intermettente, più raramente dalla forma in somministrazione o a tempo indeterminato. La statistica però non tiene conto dei tirocini extracurriculari, in quanto non rientranti tra le tipologie di rapporto di lavoro ma tra le misure di “politica attiva del lavoro”, che però sono di gran lunga lo strumento più utilizzato: solo nel 2019 sono stati attivati più di 350.000 tirocini. Il tirocinio risulta essere lo strumento privilegiato anche dal punto di vista degli studenti, che lo percepiscono come più aderente alle esigenze datoriali e lo considerano utile per “sperimentare” i propri obiettivi professionali, cioè per capire se quel posto di lavoro faccia al caso loro. È emblematico evidenziare però come tutti questi strumenti di ingresso abbiano dei tassi di permanenza nel posto di lavoro molto altalenanti (se togliamo il tempo indeterminato) ad eccezione del contratto di apprendistato che invece evidenzia un tasso di permanenza presso lo stesso datore dell’80% dei casi. Parlando invece di esperienze regolamentate ma non contrattualizzate, il metodo dell’alternanza formativa è ormai diffuso a livello nazionale e, attraverso strumenti quali il tirocinio curriculare (che interessa l’80% dei giovani impegnati nell’alternanza scuola-lavoro) riesce a “rompere” quella barriera che esiste in Italia tra scuola e lavoro. L’alternanza scuola-lavoro permette al giovane di svolgere parte della formazione “on the job”, rappresentando un primo accesso del giovane nel contesto aziendale, nel quale può acquisire competenze spendibili in ottica futura.
Quali evidenze principali emergono per quanto riguarda i tirocini?
Francesco Seghezzi: Il tirocinio rappresenta sicuramente la tipologia più diffusa di contatto con il mondo del lavoro, ed è ritenuta un’esperienza quasi imprescindibile per ottenere un contratto di lavoro sia da parte dei giovani che dei datori di lavoro. Nonostante la grande reputazione di cui gode, si tratta di uno strumento non esente da criticità. La mancata stipula di un contratto di lavoro colloca il tirocinio in quell’area grigia che si trova tra mercato e non-mercato, che rischia di trasformarsi in una forma fittizia di lavoro subordinato, senza tutele e senza retribuzione. Per quanto riguarda i tirocini curriculari, la mancata chiarezza delle finalità dei tirocini attivati fa si che spesso i tirocinanti si ritrovino a svolgere attività a basso valore formativo; questo è grave se si pensa al fatto che accade con tirocini attivati più per esigenza delle istituzioni formative (come le università) che necessitano di periodi da far trascorrere in azienda ai propri studenti per la maturazione dei crediti formativi necessari alla conclusione del percorso. In questi casi, quando cioè il tirocinio viene svuotato della sua portata educativa, la sua funzionalità come strumento di transizione scuola-lavoro appare limitata. Anche la diffusione dei tirocini extracurriculari (che prevedono per legge una indennità) non rispecchia la loro reale portata occupazionale: degli oltre tre milioni di ragazzi che tra il 2014 e il 2018 sono entrati nel mercato del lavoro italiano, solo il 17,5% l’ha fatto attraverso un tirocinio extracurriculare. Il tirocinio extracurriculare risulta essere uno strumento utile per acquisire esperienza e competenze (più spesso soft skill che hard skill), ma raramente le aziende si avvalgono dell’istituto per reclutare nuovo personale. Il tasso di inserimento dei tirocinanti a 12 mesi dall’attivazione del tirocinio è del 60%, ma soltanto il 14% dei tirocinanti viene assunto dal datore di lavoro presso il quale ha svolto l’esperienza.
Cosa si osserva per quanto riguarda il volontariato?
Francesco Seghezzi: Spesso si considera lo svolgimento di un’attività di volontariato come una scelta poco diffusa tra i giovani italiani, in relazione ai loro coetanei europei. Tuttavia, dai risultati della nostra indagine emerge che i numeri sono più alti delle ultime statistiche a livello nazionale diffuse da ISTAT. Inoltre, emerge come chi tra i giovani ha svolto un’attività di volontariato la considera come un’attività utile nello sviluppo di competenze generali, come ad esempio la flessibilità, la capacità comunicativa, di team-working e problem-solving, l’empatia e la gestione dello stress. Sicuramente il volontariato si configura come uno strumento utile per la riattivazione sociale e per il contrasto verso fenomeni di marginalizzazione, come quelli che coinvolgono i NEET, e allo stesso tempo permette la creazione di reti di prossimità che permettono al giovane di venire a conoscenza di opportunità professionali e formative.
Quali raccomandazioni sono emerse dalla ricerca?
Francesco Seghezzi: In base agli esiti della ricerca sono state elaborate alcune policy che suggeriscono la direzione da seguire per facilitare la transizione mercato-lavoro, che possiamo riassumere in tre linee di azione. In primo luogo, è necessario implementare il servizio di orientamento offerto ai giovani e facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, anche a livello locale. Garantire un’informazione efficace, continua e trasparente su quelle che sono le possibilità occupazionali, mettendo in contatto gli istituti scolastici e formativi in generale con il mondo delle aziende. Per far questo c’è bisogno di una profonda analisi del mercato del lavoro per selezionare quelle che sono le professionalità necessarie e le competenze più richieste dai mercati. In secondo luogo, bisogna introdurre un’attività di contrasto a quelle forme di lavoro che si collocano nelle “zone grigie” per evitare l’uso distorsivo di questi strumenti e ripristinare la loro valenza formativa, in grado di sviluppare competenze e professionalità. Infine, è necessario attuare una politica di inserimento di quei giovani che vivono condizioni di difficoltà o esclusione sociale (come ad esempio i NEET), anche attraverso la creazione di nuovi percorsi di formazione aderenti alle esigenze della nostra società e della nostra economia. Un esempio è dato dall’investimento sulle Fondazioni ITS, previsto anche dal PNRR: si tratta di enti di istruzione terziaria non accademica che offrono percorsi altamente qualificanti, in stretto collegamento con le filiere produttive del territorio in cui operano. Allo stesso modo, bisognerà implementare gli strumenti di formazione professionale per garantire processi di trasformazione produttiva (transizione verde e digitale) che sappiano coniugare sostenibilità economica e sostenibilità sociale, dando ai giovani possibilità non solo di entrare nel mondo del lavoro, ma aprire percorsi di carriera in settori e in mestieri in crescita esponenziale.
Nel complesso, quale quadro emerge dalla ricerca per quanto riguarda la situazione dell’occupazione giovanile e qual è il contributo e le relazioni reciproche dei due ambiti – il mercato e il non mercato – oggetto dell’indagine?
Francesco Seghezzi: Come ampiamente risaputo, i dati sull’occupazione giovanile italiana restituiscono un quadro drammatico, che vede il nostro Paese al terzo posto per tasso di disoccupazione giovanile e al primo posto per presenza di NEET, cioè giovani tra i 15 e i 29 anni di età che non lavorano e non sono impegnati in percorsi di istruzione e formazione. Una concausa di tale situazione è rappresentata dalla difficile transizione scuola-lavoro, che si caratterizza per instabilità, lunghezza, scarse garanzie economiche e mancanza di strumenti adeguati, ricaduta della responsabilità quasi esclusivamente sulle spalle del giovane. Allo stesso tempo, però, concentrarsi unicamente sulle criticità rischia di inchiodarci allo status quo. Le aree grigie del “non-mercato”, a cui afferiscono le esperienze dei tirocini, del volontariato, dei lavori sporadici o saltuari, devono infatti essere analizzate per trarne spunti da cui definire strumenti che valorizzino queste esperienze e le rendano funzionali allo sviluppo di competenze, alla definizione di professionalità e al contrasto all’esclusione sociale dei giovani. Solo così sarà possibile costruire percorsi lavorativi fruttuosi e una corretta gestione di quelle transizioni occupazionali che sappiamo saranno sempre più la normalità per le nuove generazioni.