Recensione a: Christopher Clark, I tempi del potere. Concezioni della storia dalla Guerra dei Trent’anni al Terzo Reich, Laterza, Roma-Bari 2022, pp. 304, 28 euro (scheda libro)
Scritto da Alessandro Venieri
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La pubblicazione in Italia da parte degli Editori Laterza del volume I tempi del potere (il titolo originale è Time and Power. Visions of History in German Politics, from the Thirty Years’ War to the Third Reich), ultimo saggio (2019) di Christopher Clark, Regius Professor di Storia all’Università di Cambridge, raggiunge il pubblico nostrano a distanza di tre anni, segnati da una crisi profonda e da cambiamenti politici e sociali altrettanto rilevanti. L’obiettivo dell’autore australiano, esperto di storia moderna tedesca ma divenuto famoso col saggio I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra[1], è ambizioso e intrigante: andare a rintracciare in quattro momenti diversi delle vicende prussiane e tedesche, sull’arco di quattro secoli, i differenti modi in cui la coscienza temporale è stata filtrata e “incurvata”, dal potere. I quattro periodi cruciali identificati da Clark sono quelli della Prussia e del Brandeburgo all’epoca del Grande Elettore, Federico Guglielmo (1620-1688), il regno di Federico II il Grande (1712-1786), la seconda metà del XIX secolo, sotto il lungo cancellierato di Bismarck (1815-1898), e infine la Germania del III Reich (1933-1945).
L’intreccio tra potere, coscienza temporale e storiografia rappresenta uno dei temi epistemologici fondamentali della scienza storica, spesso non adeguatamente affrontato dalla medesima. L’opera di Clark prende l’abbrivio dagli studi di François Hartog, con le sue indagini sui regimi di storicità[2], ma soprattutto dalle intuizioni di Reinhart Koselleck, il quale con Futuro passato[3] è stato tra i primi a sottolineare come nell’epoca moderna si sia operata una cesura fondamentale rispetto al modo in cui il “tempo storico” viene percepito, narrato e utilizzato. Koselleck ha avuto il grande merito di storicizzare la temporalità (dopo che la scuola degli Annales aveva già operato una temporalizzazione della storia) ponendo al centro della sua analisi un periodo, quello dal 1750 al 1850, da lui definito Sattelzeit, ovvero “epoca crinale” (o epoca sella). È in questo arco di tempo che, in virtù di cambiamenti senza precedenti a livello scientifico, economico, tecnologico, sociale e culturale, la percezione del tempo accelera, demolendo le configurazioni temporali ricorsive delle società premoderne. Futuro e passato, tempo dell’esperienza e tempo dell’aspettativa, vengono sempre più definiti secondo nuovi parametri che rispondono a delle nozioni inedite, espresse tramite vecchi termini che vengono «saturati dallo slancio del cambiamento storico» (p. 8). “Rivoluzione”, “crisi”, “progresso”, “nazione”, “Stato”, “divenire”, e il termine stesso “modernità”, vanno a popolare, stravolgendolo, il panorama temporale di grandi e crescenti masse di popolazione.
Clark dichiara il proprio debito nei confronti dell’opera dello storico tedesco, ma si distanzia da questi per una doppia differenza. Da un lato problematizza la cesura pre-moderno/moderno, pur mantenendo in parte la dicotomia: in luoghi e tempi diversi, la percezione del tempo storico si è evoluta in maniera non lineare, e, seppure determinati fenomeni abbiano investito l’interezza del continente europeo, essi non hanno avuto la medesima carica innovativa per tutte le società. Vi è stata una molteplicità di “regimi temporali”, con traiettorie spesso eccentriche e non riconducibili a schematismi evoluzionistici. Dall’altro, Clark inserisce il tema del potere in maniera esplicita, come demiurgo par excellence del tempo storico: lo fa collegandolo ad una agency consapevole da parte dei grandi attori del potere, i quali sono spesso individui che hanno retto le sorti dello Stato, come Federico Guglielmo, Federico II e Bismarck, e talvolta invece soggetti collettivi quali il partito nazionalsocialista.
Nel primo capitolo l’autore, procedendo con scansione cronologica, fa partire la propria indagine dalla metà del XVII secolo, immediatamente dopo la fine della Guerra dei trent’anni (1618-1648), in corrispondenza del regno del Grande Elettore. Federico Guglielmo di Hohenzollern si dedicò alacremente, dopo la fine del devastante conflitto, alla ricostruzione dei propri territori, tentando al contempo di fondare su nuove basi una sovranità che si configurava come una inesausta opera di mediazione multi-livello. L’Elettore – un monarca primus inter pares – doveva innanzitutto far valere i propri diritti, distinti e disomogenei, nei diversi territori a lui soggetti, refrattari in ogni occasione a vedersi assorbiti in un’ottica unitaria. In questo contesto, Federico Guglielmo promosse una visione del tempo storico di rottura con le convenzioni, ricorrendo ad un utilizzo estensivo del concetto di “emergenza”. La Guerra dei trent’anni veniva così dipinta, nei suoi scritti e missive, come un fatto del tutto nuovo, una frattura della storia che poneva i suoi Stati in una situazione di pericolo senza precedenti. Il pericolo emergenziale venne pertanto strumentalizzato in un’opera di revisione degli equilibri interni, tra ceti e territori, e il tempo storico concepito come non lineare, aperto a un nuovo inizio e a una molteplicità di possibilità. In particolare, la necessità di avere un esercito permanente, unico per tutti i territori della corona e sotto l’autorità dell’Elettore, richiedeva l’imposizione di nuove forme di tassazione, da comminare secondo procedure del tutto rinnovate per evitare le tempistiche tipiche dei sistemi fiscali pre-moderni. A titolo d’esempio, in una risposta alle ennesime lagnanze rinnovate dagli Stati del Brandeburgo, i quali gli attribuivano non solo di aver imposto a più riprese «straordinari gravami», ma anche di aver mancato di osservare il tradizionale obbligo di consultazione, Federico Guglielmo replicò che le sue iniziative erano dovute a una «ineludibile e sregolata emergenza [Noth], che Dio ci ha inflitto come meritato flagello a danno del Paese e di fronte a cui le ingiustificate leges fundamentales invocate dagli Stati dovevano cedere il passo» (p. 40).
Clark pone l’accento anche sull’interesse esplicito e programmatico di Federico Guglielmo per la storiografia, che egli incoraggiò in maniera diretta a partire dal 1650, con la nomina di storici di corte deputati a redigere testi che sostenessero l’opera del sovrano. Il più notevole tra gli studiosi nominati fu Samuel Pufendorf, che arrivò a Berlino nel 1686: teologo, giurista e filosofo, con la sua opera Due libri sugli elementi di giurisprudenza universale del 1660, Pufendorf aveva sostenuto la necessità della formazione dello Stato sovrano e il diritto del monarca di «costringere i singoli cittadini a contribuire con i loro beni nella misura in cui l’assunzione di tali spese lo renderà necessario» (p. 55). A questa idea di autorità sovrana dinamica e di rottura nei confronti della tradizione, si oppone l’esperienza di governo (e anche di elaborazione storica) del bisnipote di Federico Guglielmo, Federico II. Questi si muoveva in un contesto geopolitico totalmente diverso, in cui la Prussia non viveva più sotto le minacce di potenti vicini ma agiva da attore di primo piano, dotata di un poderoso esercito (quasi 100.000 unità all’inizio del regno, e 200.000 negli anni Settanta e Ottanta[4]). Federico II si trovava a difendere i diritti e le rivendicazioni delle élite locali del regno, minacciate dall’avanzare di nuovi ceti sociali. Il potere della monarchia veniva inteso come stabile, con un «carattere statico del microcosmo federiciano», un mondo in cui «il tempo sembrava essersi fermato e le dinamiche del gusto e della moda – della storia – risultavano sospese» (p. 71). Il tempo federiciano non è più dinamico, o soggetto a rotture, ma ciclico e analogico, con continui riferimenti al passato (specie a quello romano, e infatti Federico volle essere cremato alla maniera degli antichi romani, ma anche a quello più recente, reinterpretato allo scopo). Nella visione di Federico II il proprio ruolo e quello della monarchia erano di motore immobile della storia, e il principe doveva incarnare una assoluta autonomia decisionale, non più di primus inter pares. I collegamenti tra futuro, passato e presente venivano mantenuti dalla fama, che era capace di creare un vero e proprio “circuito transtemporale” di rimandi e riferimenti a exempla storici. Proprio per lavorare in prima persona sulla costruzione e trasmissione della propria fama, Federico si dedicò alla redazione di opere storiografiche, e in particolare con l’Histoire de mon temps offrì una riflessione articolata sulla propria visione del tempo e della storia. La lettura della storia rivela che «le stesse scene si ripetono – occorre solo cambiare i nomi degli attori» (p. 95), laddove vi sono delle leggi immutabili e universali che determinano gli avvenimenti, anche quelli più sconvolgenti. Nella propria lettura dello Stato come fenomeno extra-storico e come necessità logica, Federico arrivò a riscrivere le azioni del proprio avo, Federico Guglielmo, rimuovendo il conflitto politico interno dalla dinamica degli avvenimenti. In tal modo egli «adeguò la sua ricostruzione del passato alle priorità del presente, rendendolo conforme agli obiettivi politici e sociali dello Stato da lui stesso governato» (p. 91).
Il revisionismo reazionario federiciano si scontra, invece, con i profondi realismo e pragmatismo della visione storica di Bismarck, la cui stagione viene esaminata da Clark nel terzo capitolo. Il cancelliere di ferro ha una concezione dello sviluppo storico come di un fiume, sul quale si può navigare con maggiore o minore perizia, ma il cui corso non può essere alterato o combattuto[5]. Il concetto di storia, nel secolo che corre dall’epoca di Federico II a quella di Bismarck, si era evoluto per smettere i panni di rassegna di esempi notevoli – questa era stata l’interpretazione che aveva fatto scuola fino ad allora, condivisa anche da Machiavelli – e diventare lo studio dello spirito del divenire umano. Il “divenire” acquisisce centralità nella coscienza storica tedesca del XIX secolo, come espresso da Ernst Troeltsch: «il divenire continuo degli eventi storici […] non può essere esposto in maniera puramente causale in una successione di singoli eventi delimitabili, ma i singoli eventi sono fusi in una unità dinamica che li compenetra, li dissolve l’uno nell’altro e perciò li rende continui, una unità che è molto difficile descrivere logicamente, ma costituisce nondimeno l’essenza del fatto storico» (p. 115).
Bismarck ebbe il merito di comprendere la portata storica della Rivoluzione francese come cesura epocale dopo la quale i rapporti sociali, politici e culturali non potevano essere più come prima. Il cancelliere prussiano capì che gli obiettivi dell’ancien regime, e quelli suoi personali, in primis la sua fedeltà assoluta alla corona Hohenzollern, dovevano esprimersi in una grammatica totalmente rinnovata, prendendo in considerazione un contesto post-rivoluzionario in rapida evoluzione. In particolare, dopo gli eventi del 1848, Bismarck riteneva che anche gli esponenti della sua classe, la più tradizionalista della Prussia, dovessero accettare il nuovo corso degli eventi: «come ogni persona assennata, il possidente riconoscerà che è inutile e impossibile arrestare o arginare il flusso del tempo»[6]. In maniera disinvolta e proteiforme, anteponendo sempre il fine ai mezzi, Bismarck incarnava un nuovo modello di figura di governante, indipendente da partigianerie nella propria azione proprio in quanto consapevole delle nuove, ignote possibilità aperte dalle rivoluzioni. Il tempo della politica di Bismarck era punteggiato di momenti cruciali (momenti fatali sarebbero stati definiti da Stefan Zweig[7]), e la «responsabilità di governo più elevata e il potere che ne derivava appartenevano di diritto a colui che era in grado di prevedere, leggere e sfruttare le congiunture che offrivano opportunità per intraprendere un’azione decisiva» (p. 144). Ma la visione storica di Bismarck si nutriva di un tempo senza fine e scopo, una partita a scacchi senza termine dove la coerenza era fornita dall’interesse della monarchia e dello Stato costruitole intorno, priva di un fine escatologico che invece era ben presente nella politica tedesca degli anni Trenta.
Il quarto capitolo, che si occupa della coscienza della temporalità storica del Terzo Reich, è quello che presenta più difficoltà per l’autore, che si svincola dalla tentazione di centrarsi, come nei precedenti capitoli, su una sola figura politica, per adottare un approccio più eclettico e basato su una varietà di fonti e testimonianze maggiore. Il lettore viene condotto attraverso alcuni Revolutions Museum, istituzioni culturali create durante il periodo nazionalsocialista in varie città tedesche per commemorare il periodo rivoluzionario del regime – più propriamente contro-rivoluzionario – in cui i nazisti, secondo la retorica ufficiale, avevano scongiurato il pericolo rosso nel Paese attraverso atti di violenza e guerriglia. La museificazione di fatti recenti, recentissimi anzi, voleva essere dimostrazione icastica del modo in cui il regime si raffigurava quale cesura epocale nella storia non solo tedesca ma globale. In un discorso del luglio 1934 Hitler spiegava come l’ascesa dei nazisti non fosse un semplice avvicendamento o cambiamento politico, ma il momento cruciale, in cui un nuovo regime aveva «estirpato un’era vecchia e malaticcia» (p. 170). La storia dei nazisti presentava i caratteri di una vittoria della profezia, emersa dal passato remoto, pre-storico, contro i dettami della storia cronologica, del tempo degli storiografi, degli avvenimenti pre-nazisti. Il nazionalsocialismo risultava così l’inveramento della promessa al popolo tedesco che cancellava come parziale, o falsa, la rimanente parte delle vicende umane. Il concetto stesso di storia, da questo punto di vista, viene negato nella propria accezione tradizionale e respinto, contrariamente a quanto invece venne propagandato dal regime fascista italiano, che si inseriva senza soluzione di continuità nella narrazione storica tradizionale: «per dirla altrimenti, nel museo fascista la storia nella forma di una sequenza cronologica circonda e incorpora lo spazio della memoria; nel “museo della rivoluzione” nazista il tempo continuo della memoria sconfigge e soffoca la storia» (p. 177). Il regime nazionalsocialista non si adoperò per una rivoluzione del paradigma della storia lineare dall’interno, ma «tentò piuttosto di evitare la storia del tutto, di uscirne fuori collocandosi nel continuum temporale di una memoria metastorica inerente alla razza» (p. 180). Il Volk, con la propria ontologia mitologica, esonda dai limiti dello Stato, che viene visto solo come mezzo temporaneo al suo servizio, e vive un’esistenza vera nel momento in cui, per mezzo del partito, svela la falsità delle narrazioni storiografiche, fa saltare le misure cronologiche e impone la propria narrazione e azione.
Il quarto capitolo segna così la conclusione dell’analisi diacronica, che offre al lettore quattro distinti approcci del potere al tempo storico, partendo da quello dinamico (Federico Guglielmo), per procedere a uno reazionario-statico (Federico II), uno conservatore-pragmatico (Bismarck), per terminare infine con l’orientamento negativo-totalitario (negazionista verrebbe da dire) della Germania nazionalsocialista. È un’analisi non solo di grandi personalità della politica tedesca, ma anche un modo alternativo per indagare la formazione storica della statualità prussiano-tedesca, che veniva definita nella propria complessità da Perry Anderson come uno slittamento sia geografico che sociale (e culturale) dall’Oriente all’Occidente attraverso uno «sviluppo diseguale e combinato»[8].
Ma il saggio ha una valenza che va oltre l’indagine storiografica e ideologica, ponendosi in collegamento diretto coi dibattiti contemporanei. Nelle conclusioni, infatti, Clark fa riferimento a tendenze globali risalenti ormai a più di tre anni fa (precedenti, dunque, sia l’evento pandemico, con le sue conseguenze economiche, che il conflitto ucraino-russo), ma attualissime nella loro tragicità: «per il momento, l’attuale ondata di incertezza e di disorientamento temporale – di per sé un fenomeno di grande interesse storico – continua a farsi più profonda. Le sue tracce si possono scorgere nel tono retrò della retorica politica odierna, nell’ubiquità del “presentismo” e della nostalgia, nelle composite o palinsestiche configurazioni temporali della narrativa contemporanea e in quelle opere d’arte che in anni recenti hanno concentrato l’attenzione sul tempo come dimensione destabilizzante dell’esistenza» (p. 214). Queste considerazioni sembrano riecheggiare taluni rilievi recenti da parte di addetti ai lavori, che hanno indicato nel presentismo e nello schiacciamento della prospettiva storica una forma di crisi non solo storiografica ma anche sociale, un in cui il dibattito politico viene compresso verso tendenze conservatrici e conformistiche[9].
La coscienza temporale viene ancora gestita dal potere per tentare di ottenere risultati politici nel breve e medio termine: in questo senso vanno intesi i discorsi di Orbán che fanno riferimento allo stile di vita ungherese, immutato da 1.000 anni[10], o quelli di Putin in riferimento all’Ucraina, che la dipingono come un errore della storia da sfatare guardando alle origini del popolo russo[11]. Sembra così che il discorso storico del potere, in maniera simile a quanto accaduto spesso nell’arco del primo Novecento, stia slittando sempre più verso quella degenerazione che è «il demone delle origini», come venne definito da Marc Bloch, il travestimento di quel diabolico nemico della storia vera e propria che è la «mania del giudizio»[12]. Il vuoto formatosi a seguito della scomparsa del telos dalle visioni politiche contemporanee ha lasciato aperta la porta al fenomeno carsico del revisionismo storico tradizionalista e nazionalista, avvantaggiato dalla capacità di riutilizzare tropi e figure già disponibili nell’immaginario collettivo. Gli esiti, potenzialmente disastrosi, possono essere mitigati da un innalzamento del livello di guardia riguardo deformazioni nella ricostruzione storica operati al di fuori dell’ambito strettamente storiografico, ad opera di non addetti ai lavori, e riguardo l’uso pubblico della storia, un uso che spesso è sottile ma sempre presente. Una possibilità di uscita concreta citata da Clark è il progetto dell’Unione Europea, che se opportunamente rilanciato può mostrare la via per un superamento delle incertezze e del disorientamento storico che attanagliano l’offerta politica attuale, offrendole un fine che abbia come pilastro la solidarietà: come il Grande Elettore ricordava ai propri Stati, tutte le province, nonostante i loro specifici privilegi e tradizioni, erano membra unius capitis.
[1] C. Clark, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra, Laterza, Roma-Bari 2013.
[2] F. Hartog, Chronos. L’Occidente alle prese con il tempo, Einaudi, Torino 2022.
[3] R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, CLUEB, Bologna 2007.
[4] Per avere un’idea delle innovazioni portate in ambito militare da Federico II, un punto di partenza può essere il saggio La rivoluzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere dell’Occidente di Geoffrey Parker (il Mulino, Bologna 1990): «L’originalità del sistema militare di Federico il Grande sta quindi principalmente nell’aver migliorato i rifornimenti, cosa che gli permise di spostare i suoi eserciti con relativa rapidità e buon ordine […] e nella disciplina superiore delle sue truppe che diede modo al re di lanciare degli attacchi di sorpresa sotto il naso del nemico» (p. 268).
[5] «L’uomo non può né creare né indirizzare il fiume del tempo, può solo viaggiarci e far rotta con più o meno esperienza e perizia» dichiarò lo statista prussiano di fronte ad alcuni ospiti che erano venuti a trovarlo nella sua tenuta, dopo la pensione (p. 113).
[6] O. Bismarck, Gedanken und Erinnerungen, vol. I, Stuttgart 1898, p. 36.
[7] S. Zweig, Momenti fatali, Adelphi, Milano 2011.
[8] P. Anderson, Lo Stato assoluto. Origini e sviluppo delle monarchie assolute europee, il Saggiatore, Milano 2014, p. 227.
[9] E. Traverso, La tirannide dell’io. Scrivere il passato in prima persona, Laterza, Roma-Bari 2022.
[10] Si veda il testo del discorso di Viktor Orbán all’inaugurazione ufficiale della sede nazionale dell’Associazione Scout Ungherese del 28 maggio 2018, disponibile sul sito ufficiale del governo ungherese.
[11] Si veda l’articolo di Vladimir Putin, On the Historical Unity of Russians and Ukrainians del 12 luglio 2021, disponibile sul sito della Presidential Library of the Russian Federation.
[12] M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 2009, p. 27.