Scritto da Alessandro Ambrosino
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Un buon punto di partenza per iniziare una riflessione sul tema dell’identità può essere un’affermazione di Alberto Mario Banti, uno fra i più importanti studiosi del Risorgimento e della storia contemporanea d’Italia, il quale ha sostenuto, in un saggio sul senso di appartenenza alla nazione, che: «essere membro di una comunità […] è posto in relazione diretta con il non appartenere agli “altri”»[1].
È proprio all’interno di questo rapporto, totalmente libero da interferenze di qualsiasi tipo, che il concetto di identità si rivela nella sua forma più immediata, ovvero la naturale costruzione di un confronto con tutto ciò che non rientra nella nostra persona, nella nostra coscienza e nella nostra percezione della realtà. Ogni individuo, infatti, sviluppa una propria identità a partire dal rapporto con “l’altro”, mescolando una prospettiva esterna, in cui certe sue caratteristiche ne permettono il riconoscimento esteriore, e una prospettiva interna, in cui il soggetto elabora psicologicamente le influenze che riceve dagli altri. La cosa si complica quando dalla dimensione individuale si passa alla sfera collettiva. L’immagine, a prima vista compatta, che il concetto d’identità porta con sé in realtà si sfalda e assume una forma estremamente malleabile poiché, inserita in un contesto più ampio, permette di capire, come ha scritto Stefano Cavazza, che «in verità noi siamo individui parte di una pluralità di appartenenze e l’insieme di tali appartenenze contribuisce a definire la nostra personalità»[2]. Dunque, al rapporto del singolo con il singolo si possono aggiungere e sovrapporre il rapporto del singolo con il gruppo, il rapporto del singolo con l’etnia, con la lingua, con il genere, con lo spazio e la valutazione simbolica che si attribuisce al proprio ambiente di provenienza.
Costruire dei contorni fra la “nostra” e la “loro” persona è dunque necessario alla realizzazione della vita stessa, tuttavia, quando questi contorni si irrigidiscono in un’affermazione assoluta dell’identità che presuppone una separazione incolmabile, si rischia di innescare una reazione talmente violenta da arrivare all’esclusione se non addirittura all’annullamento dell’altro. Non si tratta di un pericolo teorico, ma di processi, legati all’eterno bisogno di sicurezza e protezione di ogni individuo, che nella storia sono avvenuti innumerevoli volte. Come ha scritto Édouard Glissant: «La tentazione del muro non è nuova. Ogni volta che una cultura o una civiltà non è riuscita a pensare l’altro, a pensarsi con l’altro, a pensare l’altro in sé, queste rigide difese […] si sono innalzate [e] sono crollate»[3].
Sono gli stessi concetti che si ritrovano nell’ultimo libro di Adriano Prosperi, Identità, all’interno del quale, con occhio lucido, lo studioso di storia moderna nota un preoccupante ritorno della retorica identitaria come materia prima nell’elevazione di barriere religiose, etniche e culturali che avrebbero il compito di proteggere le civiltà da dannose ibridazioni.
Non è un caso che la diffusione del concetto, insieme ai suoi sinonimi come “radici”, “etnie”, “fondamenti”, appaia inarrestabile al giorno d’oggi, in un contesto in cui «mentre le merci e gli oggetti si mondializzano, gli esseri umani si tribalizzano»[4]. Lo sfumare di nozioni che fino a pochi decenni fa sembravano solide ed incontrovertibili ha messo in crisi culture politiche, certezze economiche e sicurezze sociali a cui però si è risposto solo in parte con entusiasmo, mentre nella maggior parte dei casi è andata crescendo un’ossessiva reazione di chiusura e rifiuto che si è palesata nei tentativi di ricerca di una mitica “identità naturale”.
Tale ripiego non è avvenuto soltanto nel dibattito pubblico o nel discorso politico ma si nota anche nel mondo accademico, all’interno del quale sta crescendo la tendenza a sottolineare come il soggetto sia erede di elementi biologici più che il risultato di complessi interlacciamenti culturali. Su questo punto Prosperi osserva infatti come: «Oggi trionfano le neuroscienze […] e il sapere storico regredisce a funzioni ancillari. La dimensione storica delle culture registra la sua sconfitta inglobando dosi massicce di terminologia identitaria. Tutto quello che una volta andava sotto il nome di “civiltà” […] oggi rientra nella grande area dei conflitti e scambi d’identità»[5].
Eppure, lo studio del passato insegna che l’utilizzo dell’identità come catalogazione scientifica rischia di essere errato, non solo se essa sostituisce l’effettiva comprensione delle differenze fra i gruppi umani ponendo delle barriere fra loro, ma soprattutto se ignora la dimensione del mutamento che appartiene alla storia stessa. Qui sta dunque il punto centrale: l’identità può essere semplice ed innocua, ma allo stesso tempo «assassina»[6]. Compito dello storico è individuare i rapporti di forza impliciti che stanno dietro a questa parola e avvertire «l’eco sorda della risacca della storia […] che scaraventa sulle rive più diverse popoli e individui, quando non li cancella inabissandoli nel fondo del mare»[7].
Il continuo riferimento all’appartenenza ad un gruppo o ad una comunità è usato oggi in maniera estensiva da molte categorie: si va dai discorsi dei politici ai testi di psicologia, ma esso trova applicazione anche nel turismo[8], oppure nell’ambito della ricerca, nel quale sono soprattutto gli studi storici ad aver sostituito termini tradizionali come “mentalità” o “cultura” con quello decisamente più ambiguo di “identità”.
Utilizzare in maniera volontaria un termine così sfuggente, capace di assumere significati molto diversi a seconda dell’ambito a cui si fa riferimento, consente spesso sia di sottrarsi alla decifrazione delle sue complicazioni, sia alla declinazione di un suo significato univoco.
Proprio per questa ragione, Prosperi cerca di facilitare la comprensione delle varie ramificazioni dell’identità utilizzando il famoso titolo di Pirandello Uno, nessuno e centomila, per definirne tre fondamentali suddivisioni.
Un conto, infatti, è l’identità individuale, ovvero la coscienza del proprio essere, formata da una grande molteplicità di influenze e suggestioni e per questo motivo multidimensionale, contro cui l’ideologia identitaria dominante vorrebbe proporre l’uomo ad una dimensione, segno di un impoverimento della concezione della personalità umana, contro cui già Marcuse combatteva nel 1968[9].
Allo stesso modo esiste il suo contrario, ovvero il nessuno, il «grado zero dell’identità»[10], a sua volta divisibile o in una condizione biologica nulla, come il non essere nati, o nel rifiuto deliberato o ancora nell’espropriazione violenta. Il tema si presta a riflessioni molto profonde sull’aborto e soprattutto sul significato di identità per tutte quelle persone che decidono deliberatamente di lasciarsi una vita alle spalle e assumere un’identità nuova. Anche in questo caso gli esempi storici non si contano e per questo va riconosciuto che «la storia delle civiltà umane è storia di migrazioni e mescolanze di culture»[11] mentre è doveroso domandarsi che cosa questa storia può insegnare nel contesto attuale.
Si arriva così all’identità dei centomila, ovvero l’identità collettiva come risultato di una costruzione non solo di origine familiare, ma anche come persuasione, propaganda oppure imposizione violenta. Qui Prosperi recupera e rielabora molti spunti, tutti essenziali, al fine di analizzare la dimensione collettiva dei comportamenti, la quale continua ad essere un dato di fatto innegabile. Si parte dalla presa di coscienza del fatto che la realtà della società di massa del mondo contemporaneo è una realtà di comportamenti collettivi, su cui possono agire manipolazioni e suggestioni. Proprio la maggiore o minore forza di queste ultime rappresenta il problema fondamentale della politica nell’età delle masse, nel quale i confini fra democrazia e demagogia sfumano ed è complicato definire se esista un popolo come corpo collettivo[12]. Non è difficile trovare qui riferimenti alle passate dittature, ma è interessante notare come tale idea possa essere fatta risalire anche a Hobbes e al suo Leviatano, dove il popolo è individuo dai molti corpi e da una sola testa. Tuttavia, risulta complicato attribuirgli una sua particolare personalità storica e dotarlo di un destino naturale. In circostanze particolari può però avvenire che la cosiddetta “propaganda”, termine inventato nel Cinquecento per indicare i metodi di propagazione del Cristianesimo nel Nuovo Mondo, riesca ad indottrinare le masse, secondo la modalità definita da George L. Mosse della «nazionalizzazione»[13], rendendole partecipi emotivamente di un destino del quale loro sarebbero le sole responsabili.
Certamente, si tratta di tematiche che spesso rientrano negli studi di storia contemporanea o delle scienze sociali, ma proprio il fatto che sia uno storico modernista ad occuparsene permette un punto di vista innovativo e attento ai rapporti di forza di lunghissima durata. Se per Prosperi, infatti, «le identità collettive che abbiamo conosciuto nella storia sono quelle della religione e quella dello Stato»[14], si tratta di capire qual è il nesso che le lega e come si possa superare i paradigmi storici che fino a poco tempo fa ancora affrontavano la storia degli altri mondi solo a partire da quando entravano nell’ottica occidentale.
A fatica, spiega l’autore, si sta riscoprendo ai giorni nostri «l’assorbimento dei tratti originali delle altre culture»[15] e si sta andando a recuperare ciò che la cultura europea aveva cancellato nel processo di formazione delle identità collettive. Si tratta dunque, in un contesto di utilizzo dell’identità per riscoprire particolarismi etnici qual è quello attuale, di restaurare una storia più vera, una «connected history»[16], secondo la definizione di uno storico indiano, che metta in luce tutti i sottili legami tra mondi culturali diversi eppure uniti da molti fili, sostituendo definitivamente la storia delle origini dei popoli con quella degli incontri delle civiltà.
La seconda parte del libro è dedicata proprio al caso europeo che, contro una narrazione storica tutta impegnata a riconoscerne le radici originali, l’elemento cristiano e i suoi valori più genuini, si dimostra, al contrario, uno dei migliori esempi di cultura nata dall’incontro con l’altro.
L’osservazione iniziale dell’autore fa nuovamente riferimento alle preoccupazioni del tempo presente, all’interno del quale, se è vero che gli storici hanno compreso l’importanza di un utilizzo plurale del termine “civiltà”, allo stesso modo capita troppo spesso che essi lo impieghino in maniera eccessivamente difensiva: al fine, cioè, di mettere in luce le differenze incolmabili fra i popoli, piuttosto che elaborare come sia effettivamente avvenuta «la trasmissione di concreti oggetti di civiltà nello scambio […] che i popoli europei hanno avuto con gli altri»[17].
Ancora una volta ci si trova di fronte ad uno sguardo storico diverso e ben più ampio di quello a cui è abituata normalmente la ricerca. Grazie infatti ad una periodizzazione lunghissima, dalle crociate al colonialismo, Prosperi riesce a mettere in luce i fenomeni di incontri e scambi culturali sia da parte dei popoli europei, sia da parte degli altri, andando a identificare successi e fallimenti di una grande osmosi che ha coinvolto indifferentemente gli abitanti del Nuovo Mondo, le civiltà orientali e la cultura europea.
È in questo lunghissimo processo, spiega l’autore, che bisogna andare a ricercare le radici delle categorie di orientalismo e occidentalismo, poiché, se da un lato la cultura europea ha saputo imporsi e conquistare il diverso, come nel caso delle società radicalmente differenti dell’America precoloniale, l’Oriente si è trasformato in un arcano ed affascinante mistero, capace di opporsi e sopravvivere al sapere scientifico e alla religione universalistica cristiana dell’Europa[18]. L’orientalismo, nella fortunata definizione elaborata da Edward Said nel 1978, rappresenta proprio le modalità con cui la cultura europea ha conosciuto l’Oriente, cercando dapprima di dominarlo ma poi, consapevole dell’enorme eredità culturale di quei luoghi, ne ha fatto lo spazio privilegiato in cui porre l’altro, il “diverso”. Rappresentando e studiando l’Oriente, integrandolo nella civiltà e nelle cultura europee in senso fisico e immaginario, l’Europa ha potuto meglio definire sé stessa per contrapposizione: la sua immagine insieme ai suoi interessi territoriali e politici. L’assunto implicito era una distinzione ontologica tra Oriente e Occidente, come due entità contrapposte ma legate dagli interessi occidentali: un rapporto basato sulla disuguaglianza e sulla discriminazione. Questa alterità, sia nel contesto della globalizzazione sia nei tempi passati, ha suscitato e suscita spesso reazioni di chiusura poiché non riesce ad essere spiegata dalle categorie di pensiero occidentali. Per questo motivo, solo una riformata cultura storica, attenta sia alle rapide trasformazioni attuali che alle lente modificazioni avvenute nei secoli dell’età moderna in uno spazio geografico non eurocentrico, sembra la soluzione adatta per contrapporsi all’ossessivo utilizzo dell’identità come separazione. Questa alterità, sia nel contesto della globalizzazione sia nei tempi passati, ha suscitato e suscita spesso reazioni di chiusura poiché non riesce ad essere spiegata dalle categorie di pensiero occidentali. Per questo motivo, solo una riformata cultura storica, attenta sia alle rapide trasformazioni attuali che alle lente modificazioni avvenute nei secoli dell’età moderna in uno spazio geografico non eurocentrico, sembra la soluzione adatta per contrapporsi all’ossessivo utilizzo dell’identità come separazione.
Un ultimo spunto conclusivo viene invece offerto da un confronto fra le nozioni di identità, etnia e nazione al giorno d’oggi e il loro rapporto con il senso di appartenenza all’Europa. Se è vero che «nessuno storico serio proporrebbe più oggi una esplicita […] fondazione naturalistica delle identità»[19], allora l’identità europea è uno dei casi più espliciti di costruzione culturale. L’idea di Europa nasce infatti in antitesi alle identità etniche e nazionalistiche grazie ad un élite che, in contrapposizione allo Stato Nazionale, ha proposto uno spazio di molteplicità senza frontiere, una terra di dialogo, di tolleranza e di rispetto per le diversità. Ebbene, nel tempo della retorica identitaria, è proprio questa idea di Europa ciò per cui vale la pena lottare, ma è fondamentale fare attenzione a non cadere nel tranello dell’utilizzazione del passato per elaborare una storia di società umane impermeabili l’una all’altra. Parlare di Europa non deve cioè significare l’esposizione del trionfo dei valori europei sull’alterità, ma affrontare il nodo del rapporto con ciò che è altro dall’Europa e che proprio per questo ha agito sull’immaginazione e sull’elaborazione culturale della società europea. Nel farlo, conclude l’autore, un contributo notevole può avvenire dalla lucida analisi delle trasformazioni storiche avvenute durante l’età moderna, periodo spesso tralasciato dalla ricerca ma in realtà di fondamentale importanza nella comprensione dei processi di inclusione ed esclusione di popoli e culture e nella costruzione del senso di appartenenza di individui e gruppi ad un corpo unitario o ad un preciso territorio.
[1] A. M. Banti, Conclusions: Performative Effects and Deep Images in National Discourse, in L. Cole (a cura di), Different Paths to the Nation. Regional and National Identities in Central Europe and Italy. 1830-1870, Basingstoke, Palgrave MacMillan, 2007, p. 223.
[2] S. Cavazza, Piccole patrie. Feste popolari tra regione e nazione durante il fascismo, Bologna, Il Mulino, 2003, p. XIII.
[3] É. Glissant, Quando cadono i muri, Roma, Nottetempo, 2008, pp. 13-14.
[4] A. Prosperi, Identità. L’altra faccia della storia, Bari, Laterza, 2016, p. 9.
[5] Ibidem, op. cit., p. VIII.
[6] A. Sen, Identità e violenza, Bari, Laterza, 2006.
[7] A. Prosperi, Identità, cit., p. VIII.
[8] A titolo di esempio, Prosperi nota che a Bologna esiste un vero e proprio percorso museale chiamato Genus Bononiae, creato proprio per ricordare ai cittadini le loro comuni radici, ovvero l’identità.
[9] A. Prosperi, Identità, cit., pp. 23-24.
[10] Ibidem, op. cit., p. 27.
[11] Ibidem, op. cit., p. 35.
[12] Ibidem, op. cit., pp. 37-38.
[13] G. L. Mosse, La Nazionalizzazione delle masse, Bologna, Il Mulino, 2009, 1° ed. Bologna, 1975.
[14] A. Prosperi, Identità, cit., p. 44.
[15] Ibidem, op. cit., p. 47.
[16] S. Subrahmanyam, Explorations in Connected History, Oxford, Oxford University Press, 2006.
[17] A. Prosperi, Identità, cit., p. 70.
[18] Ibidem, op. cit., pp. 65-68.
[19] Ibidem, op. cit., p. 76.
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