“Identità. L’altra faccia della storia” di Adriano Prosperi
- 30 Maggio 2017

“Identità. L’altra faccia della storia” di Adriano Prosperi

Scritto da Alessandro Ambrosino

9 minuti di lettura

Recensione a: Adriano Prosperi, Identità. L’altra faccia della storia, Laterza, Roma-Bari 2016, pp. 114, 14 euro (scheda libro).


Identità: da dove cominciare?

Un buon punto di partenza per iniziare una riflessione sul tema dell’identità può essere un’affermazione di Alberto Mario Banti, uno fra i più importanti studiosi del Risorgimento e della storia contemporanea d’Italia, il quale ha sostenuto, in un saggio sul senso di appartenenza alla nazione, che: «essere membro di una comunità […] è posto in relazione diretta con il non appartenere agli “altri”»[1].

È proprio all’interno di questo rapporto, totalmente libero da interferenze di qualsiasi tipo, che il concetto di identità si rivela nella sua forma più immediata, ovvero la naturale costruzione di un confronto con tutto ciò che non rientra nella nostra persona, nella nostra coscienza e nella nostra percezione della realtà. Ogni individuo, infatti, sviluppa una propria identità a partire dal rapporto con “l’altro”, mescolando una prospettiva esterna, in cui certe sue caratteristiche ne permettono il riconoscimento esteriore, e una prospettiva interna, in cui il soggetto elabora psicologicamente le influenze che riceve dagli altri. La cosa si complica quando dalla dimensione individuale si passa alla sfera collettiva. L’immagine, a prima vista compatta, che il concetto d’identità porta con sé in realtà si sfalda e assume una forma estremamente malleabile poiché, inserita in un contesto più ampio, permette di capire, come ha scritto Stefano Cavazza, che «in verità noi siamo individui parte di una pluralità di appartenenze e l’insieme di tali appartenenze contribuisce a definire la nostra personalità»[2]. Dunque, al rapporto del singolo con il singolo si possono aggiungere e sovrapporre il rapporto del singolo con il gruppo, il rapporto del singolo con l’etnia, con la lingua, con il genere, con lo spazio e la valutazione simbolica che si attribuisce al proprio ambiente di provenienza.

Costruire dei contorni fra la “nostra” e la “loro” persona è dunque necessario alla realizzazione della vita stessa, tuttavia, quando questi contorni si irrigidiscono in un’affermazione assoluta dell’identità che presuppone una separazione incolmabile, si rischia di innescare una reazione talmente violenta da arrivare all’esclusione se non addirittura all’annullamento dell’altro. Non si tratta di un pericolo teorico, ma di processi, legati all’eterno bisogno di sicurezza e protezione di ogni individuo, che nella storia sono avvenuti innumerevoli volte. Come ha scritto Édouard Glissant: «La tentazione del muro non è nuova. Ogni volta che una cultura o una civiltà non è riuscita a pensare l’altro, a pensarsi con l’altro, a pensare l’altro in sé, queste rigide difese […] si sono innalzate [e] sono crollate»[3].

Sono gli stessi concetti che si ritrovano nell’ultimo libro di Adriano Prosperi, Identità, all’interno del quale, con occhio lucido, lo studioso di storia moderna nota un preoccupante ritorno della retorica identitaria come materia prima nell’elevazione di barriere religiose, etniche e culturali che avrebbero il compito di proteggere le civiltà da dannose ibridazioni.

Non è un caso che la diffusione del concetto, insieme ai suoi sinonimi come “radici”, “etnie”, “fondamenti”, appaia inarrestabile al giorno d’oggi, in un contesto in cui «mentre le merci e gli oggetti si mondializzano, gli esseri umani si tribalizzano»[4]. Lo sfumare di nozioni che fino a pochi decenni fa sembravano solide ed incontrovertibili ha messo in crisi culture politiche, certezze economiche e sicurezze sociali a cui però si è risposto solo in parte con entusiasmo, mentre nella maggior parte dei casi è andata crescendo un’ossessiva reazione di chiusura e rifiuto che si è palesata nei tentativi di ricerca di una mitica “identità naturale”.

Tale ripiego non è avvenuto soltanto nel dibattito pubblico o nel discorso politico ma si nota anche nel mondo accademico, all’interno del quale sta crescendo la tendenza a sottolineare come il soggetto sia erede di elementi biologici più che il risultato di complessi interlacciamenti culturali. Su questo punto Prosperi osserva infatti come: «Oggi trionfano le neuroscienze […] e il sapere storico regredisce a funzioni ancillari. La dimensione storica delle culture registra la sua sconfitta inglobando dosi massicce di terminologia identitaria. Tutto quello che una volta andava sotto il nome di “civiltà” […] oggi rientra nella grande area dei conflitti e scambi d’identità»[5].

Eppure, lo studio del passato insegna che l’utilizzo dell’identità come catalogazione scientifica rischia di essere errato, non solo se essa sostituisce l’effettiva comprensione delle differenze fra i gruppi umani ponendo delle barriere fra loro, ma soprattutto se ignora la dimensione del mutamento che appartiene alla storia stessa. Qui sta dunque il punto centrale: l’identità può essere semplice ed innocua, ma allo stesso tempo «assassina»[6]. Compito dello storico è individuare i rapporti di forza impliciti che stanno dietro a questa parola e avvertire «l’eco sorda della risacca della storia […] che scaraventa sulle rive più diverse popoli e individui, quando non li cancella inabissandoli nel fondo del mare»[7].

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Scritto da
Alessandro Ambrosino

Dottorando in International History al Graduate Institute di Ginevra. Laureato in Storia e in Relazioni Internazionali all’università di Bologna. Dopo aver lavorato presso l’Ufficio di Collegamento della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia a Bruxelles, ha svolto il tirocinio UE presso il Comitato delle Regioni.

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