“Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 ad oggi” di Mila Orlić
- 15 Luglio 2023

“Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 ad oggi” di Mila Orlić

Recensione a: Mila Orlić, Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 ad oggi, Viella, Roma 2023, pp. 212, 24 euro (scheda libro)

Scritto da Alessandro Ambrosino

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Rimarranno delusi i lettori che si aspettano una ricostruzione delle vicende istriane basata sui grandi fatti e la loro cronologia, come sembra suggerire il sottotitolo del nuovo libro di Mila Orlić, professoressa di storia all’Università di Rijeka (Fiume). In realtà, in Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 ad oggi, gli “eventi” – nel senso di momenti epocali che cambiano il corso della storia – sono pochi. L’autrice preferisce soffermarsi sulla complessa transizione che, dal collasso dello Stato italiano dopo l’8 settembre 1943 al Dopoguerra, trasformò la sovranità statale di questo territorio e la lealtà della sua popolazione. Si trattò di un processo incerto, che Orlić inserisce in un quadro più ampio di cambi di regime avviato con il passaggio dall’Austria-Ungheria al Regno d’Italia tra il 1918 e il 1920. Ad esso seguirono: il ventennio fascista, l’occupazione nazista tra il 1943 e il 1945, la competizione tra Repubblica Italiana e Federazione Socialista di Jugoslavia fino al 1954, la proclamazione delle Repubbliche di Slovenia e Croazia nel 1991, l’ingresso delle due nell’Unione Europea nel 2004 e nel 2013 e, infine, a coronamento della scomparsa del confine “fisico”, l’ingresso della Croazia in Schengen a gennaio 2023. Tale pluralità di passaggi e attori politici “alti” rispecchia la pluralità “dal basso” di istriane e istriani, una popolazione dalle infinite varianti etnico-linguistiche interne che si trovò protagonista di queste trasformazioni.

Il merito del libro di Mila Orlić sta nell’aver coniugato la storia sociale di uomini e donne comuni con la storia politica delle autorità che si sono avvicendate sul territorio istriano. Orlić così dimostra che l’Istria, come tante altre borderlands, non è “di confine” per natura, ma lo è diventata per via di un’asimmetrica relazione con il governo centrale del momento, il quale l’ha contesa con altre entità statali rivali e ha cercato di ridurla a rigidi schemi di appartenenza nazionale. Al contrario, sostiene l’autrice, la fluidità degli orientamenti dei singoli individui e la molteplicità di relazioni sociali hanno reso impossibile ridurre la complessità istriana a rappresentazioni dualistiche di tipo politico-nazionale. Orlić si propone quindi di andare oltre «la visione nazionale tout-court» (p. 10) e di superare le narrazioni etnocentriche di entrambe le sponde adriatiche, caratterizzate da un’attenzione quasi ossessiva per i rapporti conflittuali tra gruppi “nazionali”. Nel seguire questa traccia, l’autrice fa uso delle più recenti metodologie della ricerca storica e impiega il concetto di “indifferenza nazionale”, cioè l’idea per cui l’identificazione nazionale è una proprietà variabile dei gruppi, che appare e scompare in situazioni specifiche. I risultati di questi studi sono stati incoraggianti, poiché hanno colto «le sfumature di grigio che costituiscono il tessuto di fondo della vita sociale quotidiana» (ibid.), ma si sono concentrati sull’Ottocento e il primo Novecento[1]. Poche ricerche avevano testato il concetto nel contesto del Dopoguerra. Analizzando il caso della presa del potere popolare e delle modalità con cui le autorità jugoslave interagirono con la società plurilinguistica dell’Istria, Mila Orlić restituisce la mutevolezza dell’identificazione territoriale e le difficoltà delle comunità locali di definire la loro nazionalità.

I primi due capitoli prendono le mosse dalle difficoltà che i nuovi poteri si trovarono ad affrontare in Istria. Il nascente Stato jugoslavo comunista si pose in netta contrapposizione con tutto ciò che rappresentava il passato[2] – sia che fosse la dittatura fascista o la Jugoslavia monarchica prebellica – e per questo ambì ad integrare in tempi brevi la popolazione locale nella nuova federazione. Quelle comunità, tuttavia, non erano mai state sotto l’amministrazione jugoslava e si dimostrarono poco propense ad accettare il nuovo potere. Facendo ampiamente ricorso a fonti belgradesi, croate, slovene e municipali istriane, Mila Orlić descrive una realtà locale esasperata dalle violenze naziste, dalla distruzione dei paesi e dal nuovo confine, che tagliava l’Istria rurale dai mercati di Trieste, riducendo la gente alla fame. I funzionari jugoslavi provarono ad applicare riforme agrarie di tipo sovietico, come la collettivizzazione della terra o il “lavoro volontario”, ma incontrarono, se non resistenza aperta, passività e “apatia”. Questi conflitti, legati più alla vita quotidiana delle popolazioni che alla definizione della nazionalità, inducono a riconsiderare l’immagine classica delle violenze “etniche” in Istria. In un contesto di catastrofica crisi economica e indeterminatezza dei confini, la gente comune manifestava la sua “non-appartenenza” con molteplici e contraddittorie lealtà: alla Chiesa cattolica ma non allo Stato o viceversa, oppure alla cultura nazionale, ma non allo Stato, alla classe ma non alla federazione. Opportunismo e frequenti cambi di affiliazione nazionale a seconda dell’occasione erano comuni.

Un esempio particolarmente interessante che nel terzo capitolo l’autrice porta a sostegno della sua tesi riguarda i dati del censimento che le nuove autorità elaborarono nell’ottobre 1945. Ben sapendo che in Istria il plurilinguismo era diffuso e che la maggior parte della gente si esprimeva in forme dialettali ibride (o in italiano, a causa dell’italianizzazione forzata), non si poteva adottare il criterio asburgico né quello italiano del 1921, dove lingua equivaleva a nazionalità. Si decise così di lasciare la scelta ai singoli, con l’obiettivo di ridimensionare gli “italiani”. A fianco di un 70% di “croati” e un 30% di “italiani” a livello generale, i risultati furono sorprendenti a livello distrettuale, con più del 30% di istriani che in alcune località rurali, come a Buje, rifiutarono i criteri predefiniti, mettendo in discussione il “plebiscito” auspicato dai funzionari jugoslavi[3].

In questa contingenza di rapidi cambiamenti, il terzo capitolo indaga anche come gli istriani fecero uso del diritto di “opzione”. Il Trattato di pace del 10 febbraio 1947 garantì, tramite l’articolo 19, a tutti coloro che dichiaravano l’italiano come lingua d’uso la possibilità di optare per la cittadinanza italiana e trasferirsi altrove. Ciò aprì – nelle parole dell’autrice – «uno spiraglio di inedite opportunità per abbandonare l’area per via legale» (p. 14). Qui Mila Orlić offre una documentazione sostanziosa, ma si trovano pochi accenni alle pratiche di violenza politica che in Istria continuavano dai tempi della lotta partigiana e all’avversione di molti contadini per il modello comunista, fattori che contribuirono ad un “esodo” di ragguardevoli proporzioni[4].

Comunque, fu in quel momento, scrive Orlić, che molte persone decisero la loro (temporanea) appartenenza nazionale. Come aveva lucidamente colto già al tempo l’intellettuale trentino, ma originario dell’Istria, Ernesto Sestan, gli abitanti della piccola penisola, indipendentemente dalla lingua che parlavano nella pratica quotidiana, si chiesero: «Sotto chi starò meglio, sotto l’Italia o sotto la Jugoslavia?» (pp. 130-131)[5]. L’autrice certo ammette che vi furono molte famiglie che optarono per forti convinzioni nazionali, come nel caso di Pola, dove si partì coi piroscafi ancora prima dell’entrata in vigore del trattato, ma allargando il campo emerge un quadro molto più complesso. Il sistematico plurilinguismo, le condizioni economiche e le influenze esterne, oltre alle considerazioni nazionali, determinarono la possibilità per molte persone di ridefinire la propria identità e ricostruire il proprio futuro nell’Italia del boom economico. Peraltro, come l’autrice ha potuto constatare grazie ad una serie di interviste con gli “esuli” nei primi anni Duemila, tali processi di trasformazione identitaria, o di attestazione di un’appartenenza locale continuarono anche nel Dopoguerra e fino ad oggi.

Alla luce di queste considerazioni, nel quarto e ultimo capitolo l’autrice rilegge il problematico rapporto tra esperienze concrete degli istriani ed evoluzione della loro memoria all’interno dell’uso pubblico delle vicende del confine orientale. Avendo studiato il caso emiliano, Mila Orlić fa emergere il trauma dei profughi al loro arrivo nelle provincie di Modena e Reggio Emilia, dove trovarono «stelle rosse più grandi […] che in Istria» (p. 181). Tale shock culturale, unito agli iniziali disagi della vita nel campo profughi di Fossoli e alle successive difficoltà di integrazione nelle scuole o negli ambienti lavorativi, costituì la base su cui gli “esuli” costruirono un senso comunitario in polemica con lo Stato italiano, accusato di disinteressarsi della loro condizione. L’istituzione del Giorno del Ricordo nel 2005 mitigò queste delusioni, che i profughi e i loro discendenti, secondo le interviste raccolte dall’autrice, videro come una compensazione tardiva[6]. Da allora, i profughi giuliano-dalmati hanno riconquistato visibilità nella memoria pubblica italiana. Tuttavia, nota l’autrice, che aveva avuto modo di raccogliere proprio nel 2005 le complesse memorie degli istriani e delle istriane, le narrazioni si sono progressivamente conformate ad un’unica memoria nazionale che spinge sull’immagine degli istriani come esclusivamente “italiani” e “vittime” (sia dei nazisti che dei comunisti) In questa rappresentazione anche gli “slavi” vengono trasformati in un nemico monodimensionale: violentemente antiitaliano, antiurbano e “bestiale” per via della sua “naturale arretratezza contadina”. L’analisi “dal basso” di Mila Orlić, al contrario, rimette l’accento sulla persistenza delle appartenenze regionali – per esempio nel confronto con i comunisti italiani, che accusavano i profughi di essere «fascisti in fuga dal paradiso socialista» (p. 180) – sulla molteplicità delle forme di identificazione e sulla complessità delle regioni di confine.

In conclusione, il libro di Mila Orlić rappresenta non solo un ottimo esempio di ricerca storica sull’area adriatica che non fa uso di categorie nazionali, ma apre anche importanti riflessioni sui percorsi di ricostruzione dell’identità di profughi e migranti. Andando oltre l’immagine stereotipata delle persone sfollate, l’autrice sottolinea la diversità delle storie familiari e le contingenze delle scelte di vita nelle regioni di frontiera. Leggero e agevole, il testo non indugia in esposizioni cronologiche fattuali ed è consigliato sia agli specialisti che ai semplici appassionati.


[1] Si vedano: Pieter M. Judson, Guardians of the Nation. Activists on the Language Frontiers of Imperial Austria (Harvard University Press, Cambridge 2006); Tara Zahra, Imagined Noncommunities. National Indifference as a Category of Analysis, «Slavic Review» 69, no. 1 (2010), pp. 93-119; Emmanuel Dalle Mulle e Mona Bieling, Sovereignty and Homogeneity. A History of Majority-Minority Relations in Interwar Western Europe, in Sovereignty, Nationalism and the Quest for Homogeneity in Interwar Europe, Emmanuel Dalle Mulle, Davide Rodogno e Mona Bieling (a cura di), Bloomsbury Academics, Londra 2023, pp. 85–104.

[2] Jože Pirjevec, Tito e i suoi compagni, Einaudi, Torino 2015.

[3] Si veda anche: Marco SalbegoIdentità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 a oggi, Novecento.org, n.19, giugno 2023.

[4] Andrea Zannini, L’Istria dal 1943 a oggi: la storica Mila Orlić racconta l’identità di confine, «Messaggero Veneto», 17 marzo 2023.

[5] Ernesto Sestan, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, a cura di Giulio Cervani, Del Bianco, Udine 1997, pp. 184-186. Prima edizione 1947. Citato in Mila Orlić, Identità di confine, pp. 130-131.

[6] Si veda anche: “Identità di confine. Storia dell’Istria e degli istriani dal 1943 a oggi” di Mila Orlić, «Letture.org».

Scritto da
Alessandro Ambrosino

Dottorando in International History al Graduate Institute di Ginevra. Laureato in Storia e in Relazioni Internazionali all’università di Bologna. Dopo aver lavorato presso l’Ufficio di Collegamento della Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia a Bruxelles, ha svolto il tirocinio UE presso il Comitato delle Regioni.

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