“Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo” di Colin Crouch
- 27 Giugno 2019

“Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo” di Colin Crouch

Recensione a: Colin Crouch, Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo, Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 144, 15 euro (scheda libro)

Scritto da Giacomo Bottos

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Al centro di Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo, il nuovo libro del politologo britannico Colin Crouch che ha coniato il concetto di postdemocrazia, vi è una questione che occupa le cronache di tutto il mondo, decisiva per capire in quale direzione si evolverà la situazione economica e politica mondiale. Questo tema è esplicitato già nella prima frase del libro, nel capitolo intitolato “Le questioni”:

«Uno scontro epico tra globalizzazione e un risuscitato nazionalismo sta trasformando le identità e i conflitti politici in tutto il mondo.»

Globalizzazione e nazionalismo, termini evocati anche nel titolo, sono i due poli intorno a cui ruota il libro, resi oggetto di una dettagliata analisi critica. Il secondo capitolo del libro (“L’economia”) è dedicato ad un bilancio della globalizzazione e dei suoi effetti, mentre il terzo (“Cultura e politica”) si concentra sul rafforzamento delle identità nazionali. Al capitolo “Il futuro” sono poi affidate alcune considerazioni conclusive.

Volendo stilizzare in estrema sintesi, il movimento argomentativo del testo potrebbe essere restituito nei seguenti termini. La globalizzazione, pur tra molte contraddizioni, che si manifestano soprattutto nelle disuguaglianze e dissimmetrie che essa alimenta – tra strati sociali all’interno dei paesi, tra territori che si situano in posizioni diverse della catena del valore, tra grandi città e aree depresse o periferiche – e che Crouch imputa prevalentemente all’egemonia neoliberista affermatasi nel periodo in cui il processo di globalizzazione è stato portato avanti, ha avuto un impatto economico complessivamente positivo. Ha permesso a grandi masse di persone di uscire dalla povertà, riducendo la disuguaglianza nel mondo nel suo complesso – anche se, come ricordato e come risulta dagli studi di François Bourguignon e Branko Milanović, si determina un “paradosso della disuguaglianza” per cui essa aumenta all’interno dei singoli paesi, pur diminuendo tra i diversi paesi –. La globalizzazione ha inoltre aumentato enormemente l’interscambio tra i diversi paesi e, a dispetto delle apparenze, ha beneficiato anche i paesi occidentali che hanno potuto contare su merci a basso costo che hanno salvaguardato il potere d’acquisto delle classi medie e basse e su un incremento della domanda derivante dalla nascita di nuovi mercati nei paesi emergenti. Così scrive Crouch a conclusione della sua disamina:

«Se non ci fosse stata alcuna globalizzazione – se fossimo rimasti nelle economie della fortezza nazionale, con muri e barriere tariffarie attentamente controllati, limitazioni severe ai viaggi all’estero e persino più severe all’immigrazione – la maggior parte del mondo sarebbe oggi di gran lunga più povera; l’immigrazione illegale, con tutte le sue conseguenze di aumento della criminalità, sarebbe stata maggiore; le relazioni tra gli Stati sarebbero state più ostili».

Certo, l’autore non nasconde i diversi lati oscuri che il processo ha implicato e le molteplici esclusioni che ha prodotto, nei confronti di regioni del mondo consegnate al sottosviluppo e alla spoliazione delle proprie risorse naturali, di città e aree depresse nei paesi sviluppati, di gruppi sociali fortemente colpiti dalla deindustrializzazione di centri produttivi un tempo fiorenti. Per tutti coloro la globalizzazione ha portato difficoltà materiali e disorientamento esistenziale. Oltre al già citato squilibrio nella distribuzione della ricchezza, un altro pesantissimo effetto collaterale della globalizzazione è stato rappresentato dal degrado ambientale. Eppure tutti questi aspetti, che per Crouch derivano soprattutto dal modo in cui la globalizzazione è stata implementata, dalla cultura politica ed economica delle classi dirigenti che l’hanno costruita, non possono cancellare il fatto che, di fondo, si tratti di un processo a somma positiva. Pensare a un rollback della globalizzazione non solo è per l’autore impossibile, ma il mero tentativo avrebbe un esito molto negativo.

Eppure, nonostante questo chiaro giudizio sul piano economico, l’opposizione alla globalizzazione in nome del ritorno ad una visione delle nazioni come entità sovrane che cerchino di minimizzare la propria interdipendenza appare oggi l’«idea forza più dinamica che motiva gran parte del mondo» (p.57). Questa presa d’atto costituisce l’avvio della seconda parte dell’argomentazione di Crouch, che tenta di dar conto di questo fenomeno. La riscoperta di un discorso identitario forte, che segna una battuta d’arresto almeno temporanea di una lunga fase storica nella quale la tendenza principale era stata volta alla riduzione dell’importanza dei confini, pur apparendo «priva di logica in senso stretto» possiede però una «potente logica emotiva» (p. 5) come risarcimento nei confronti di una realtà percepita come difficile, disorientante e priva di prospettive.

 

Democrazia e globalizzazione

L’analisi di Crouch procede attraverso una breve ricognizione storica dei passaggi che hanno portato alla nascita degli Stati-nazione moderni, di cui viene sottolineata la natura di costruzioni artificiali – per quanto fondate su elementi importanti come la lingua e la religione –. Crouch rintraccia poi nella contrapposizione tra tradizionalismo conservatore e razionalismo illuminista – segnato a sua volta da una divisione interna in merito al tema della disuguaglianza e delle distribuzioni della ricchezza – le radici dell’attuale dialettica tra cosmopolitismo e nazionalismo. L’autore evidenzia il modo complesso in cui questa dicotomia si è intrecciata negli ultimi decenni con il cleavage destra/sinistra. Una sinistra spiazzata dall’erosione della sua base tradizionale, per via del processo di deindustrializzazione, ha assistito al consolidarsi di un asse di lungo periodo tra liberali e conservatori, dove i primi ispiravano le linee della politica economica, mentre i secondi offrivano un risarcimento identitario e un senso di ritorno alle vecchie certezze ad una popolazione spaventata di fronte ai destabilizzanti cambiamenti in corso. D’altra parte progressivamente gli stessi partiti di sinistra hanno finito per adeguarsi al nuovo consensus neoliberista e a «trascurare le preoccupazioni per la redistribuzione e la sicurezza del loro elettorato tradizionale, la classe operaia» (p. 71), elettorato che sempre più iniziava a subire l’attrazione di partiti di tipo conservatore.

Un altro elemento che la sinistra ha finito per trascurare, secondo Crouch, è legato al ruolo dell’emozione in politica, terreno sulla quale è stata sfidata con successo non essendo stata in grado di mettere in campo un’efficace saldatura tra la propria costruzione razionale e una capacità di costruire una connessione sentimentale con la propria base. In definitiva, la forza di quest’ondata nazionalista deriverebbe anche dalla sottovalutazione, fatta dalle forze progressiste, dell’importanza di produrre meccanismi di identificazione efficaci e credibili, di costruire comunità e sistemi di riconoscimento. In questo vuoto alcuni leader politici hanno fatto leva su una delle possibili identità, quella nazionale, che, seppure prima latente, conservava una grande forza e un’energia potenziale soprattutto a fronte di una globalizzazione, di processi migratori e di una crescente percezione della forza di un Islam radicale, che potevano apparire come potenzialmente destabilizzanti.

Dopo un’attenta ricognizione che restituisce il quadro problematico che, per le linee essenziali, abbiamo ricostruito, Crouch tratteggia alcuni elementi di una possibile via d’uscita. Rifacendosi al trilemma di Rodrik (non possono darsi al tempo stesso democrazia, sovranità nazionale e “iperglobalizzazione”, ma solo due di questi elementi alla volta) e rigettando sia l’ipotesi di un ritorno al livello nazionale sia quella di un rollback della globalizzazione, ripropone l’idea di una democrazia sovranazionale, su scala europea e non solo. Questo non significa per Crouch un superamento degli Stati tout court, ma piuttosto una progressiva intensificazione dei meccanismi di cooperazione tra di essi, un rafforzamento delle istituzioni internazionali, una maggiore interazione tra livelli differenti. Dove trovare l’energia politica per realizzare tutto questo, in una fase nella quale la storia sembra tendere altrove? Crouch propone una diversa concezione di identità, che andrebbe contrapposta a quella esclusiva ed escludente propria dei nuovi nazionalismi: un’identità nella quale i diversi livelli di appartenenza – da quello locale a quello sovranazionale – coesistono e si rafforzano a vicenda. Un maggiore coinvolgimento di questo tipo consentirebbe di rafforzare la partecipazione nei confronti di istituzioni sovranazionali che restano prevalentemente tecnocratiche e soffrono di un deficit di legittimazione. Al tempo stesso un mutamento di segno delle politiche attuate e una maggiore attenzione al problema della redistribuzione potrebbe creare le condizioni per includere i cittadini e le aree che attualmente si sentono – a torto o a ragione – escluse dalla globalizzazione e dallo sviluppo economico e sociale.

 

Le questioni aperte 

Il libro di Crouch ha il merito di sollevare e compendiare molte delle questioni cruciali che sono oggi sul tavolo, e la cui soluzione, in un senso o nell’altro, deciderà del destino del nostro mondo. Il testo rappresenta anche una presa di posizione chiara nei confronti di tali questioni, che muove dalla prolungata riflessione di un grande politologo, ma anche da precise convinzioni politiche, che emergono nel corso del testo. Il libro lascia nondimeno alcune questioni aperte. Vi è innanzitutto un problema di tipo metodologico. La forza dell’analisi di Crouch sta, fin dai tempi di Postdemocrazia, in una grande capacità di costruire efficaci schemi di comprensione della realtà, idealtipi in grado di dar conto di fenomeni sociali, economici e politici contemporanei. Al tempo stesso però questo tipo di lettura non deve far perdere di vista la storicità dei processi e i nessi specifici che i diversi fenomeni intrattengono nel concreto. Riportare l’attuale dialettica alla matrice dello scontro tra conservatorismo e illuminismo liberale è utile, ma forse non ci dice ancora abbastanza sullo specifico dei processi che abbiamo di fronte.

Entrando poi nel merito delle questioni lasciate aperte dal libro, nel testo viene più volte sottolineato, come accennato, il carattere neoliberista della globalizzazione, al quale appaiono imputabili molti dei limiti e delle contraddizioni del processo. Resta però fuori dal campo visivo dell’analisi di Crouch una riflessione su quali potrebbero essere le caratteristiche di un’ipotetica globalizzazione non neoliberista. Se un ritorno ad un sistema con caratteristiche simili a quello di Bretton Woods sempre essere escluso in diversi passaggi – forse con una discussione implicita delle tesi di Rodrik – e se si fa riferimento ai ripetuti accenni autocritici da parte di istituzioni come il FMI o la Banca Mondiale, non viene affrontata in positivo la questione dei contorni di un ordine globale post-neoliberale. Un altro tema è relativo alla valutazione – che il lettore stesso può compiere – della forza che una concezione di identità come quella proposta da Crouch – che finora è stata appannaggio di una minoranza della popolazione – può mettere in campo come sorgente di legittimazione e di energia per un obiettivo politico estremamente ambizioso come la costruzione di una democrazia sovranazionale. Appaiono d’altra parte, per molti aspetti, persuasive le osservazioni di Crouch nei confronti delle posizioni che individuano nello spazio nazionale il luogo esclusivo su cui far leva per un cambiamento in senso post-neoliberista. Appare difficile pensare che, nello scenario conflittuale generato da una rottura delle forme di cooperazione internazionale, possa nascere l’accordo e il consenso necessari per costruire regole che limitino il potere di soggetti economici il cui campo d’azione resta a tutti gli effetti globale. Su questo tema la discussione resta, insomma, aperta.

Chi scrive si sente di proporre, a questo proposito, un differente angolo visuale. Sia che si individui nella costruzione di una democrazia sovranazionale l’obiettivo da perseguire, sia che si veda nello Stato nazionale l’ambito prevalente di un’azione possibile, se l’obiettivo è un superamento dell’attuale fase di crisi in una direzione che possa permettere la soluzione dei principali elementi di squilibrio che contrassegnano il modello attuale, occorre ricostruire – e qui Crouch fornisce intuizioni preziose – forme di identità di tipo differente, identità che superino l’atomizzazione oggi prevalente costruendo in nuce nuovi legami sociali. Questi potrebbero rappresentare la base per la ricostruzione di un rapporto tra classi dirigenti rinnovate e parti della società, potrebbero permettere di rilegittimare istituzioni in grado di assumersi compiti nuovi, anche in virtù, appunto, di nuovi legami con una società capace di riaggregarsi intorno a scopi che essa stessa possa darsi a partire da una riflessione diffusa sulle principali questioni del presente. Qui vi è un nuovo possibile compito per il mondo della cultura. Vi è, infatti, necessità di una forte intensificazione della riflessione, che, saldandosi con l’intelligenza organizzativa, immagini le modalità attraverso le quali possa nascere e svilupparsi una nuova sfera pubblica. Questa dev’essere da un lato all’altezza dei problemi da affrontare, ma al tempo stesso occorre creare le condizioni perché abbia la più ampia accessibilità possibile. Il superamento della dicotomia attuale relativa ai livelli di istruzione, che in buona parte ricalca le fratture economiche e sociali a cui abbiamo accennato, richiede che oltre al compito dell’elaborazione, si sia in grado anche di sviluppare una grande capacità di “traduzione”, di semplificazione intelligente, di conversione dei linguaggi, di costruzione di nuovi nessi tra ragione ed emozione. È un nuovo possibile compito per gli intellettuali, di diverse generazioni, e rappresenta il prerequisito indispensabile e ineliminabile affinché la crisi che viviamo possa conoscere un’uscita diversa rispetto a quella di quel mondo sempre più caotico e conflittuale che sembra aprirsi davanti a noi.

Scritto da
Giacomo Bottos

Direttore di «Pandora Rivista» e coordinatore scientifico del Festival “Dialoghi di Pandora Rivista”. Ha studiato Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha scritto su diverse riviste cartacee e online.

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