Scritto da Paolo Missiroli
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Il libro di Thomas Piketty, «Capital in the Twenty-First Century» edito da Harvard University Press alla fine di aprile del 2014, è conosciuto dal grande pubblico e da gran parte della critica per due motivi: da un lato per la voluminosità del testo (685 pagine); dall’altra per la proposta che l’autore avanza. Se il primo di questi motivi è concretamente riscontrabile, lo scopo di questa breve recensione vorrebbe essere quello di riconsiderare, nell’economia del testo, l’importanza della conclusione in favore dell’analisi. Mi pare abbia più senso, nel recensire un’opera di questa portata, tentare un’ interpretazione piuttosto che descrivere nella sua interezza argomentazioni complesse come quelle costruite in anni di studio da Piketty con l’aiuto di un equipe di più di trena persone tra ricercatori, assistenti e altri professori dell’ École des hautes études en sciences sociales a Parigi.
Prima di iniziare, una precisazione. È chiaro che, al di là dell’ironia da pub dei conservator- liberisti dell’Economist che hanno definito Pikketty «bigger than Marx»1, il paragone (riscontrabile anche nel titolo del testo che presento) regge poco, almeno a uno sguardo totale. Se Il Capitale di Marx potrebbe essere considerato un semplice testo di economia solo a partire da una lettura del tutto superficiale, che non consideri l’approccio storico, sociologico, filosofico di Marx nei confronti del capitalismo, concepito come una totalità sociale in movimento (certo strutturata sul modo di produzione), come creatore di soggetti, come costruttore di posizioni ideologiche, come formattatore di una civiltà intera, quello di Piketty è uno sguardo che, sebbene presenti una maggiore complessità rispetto a molto dell’idiotismo economicistico e specialistico nel quale siamo immersi, si colloca compiutamente all’interno di un’ottica quasi esclusivamente economica. Il suo è un lavoro che a partire da una grandissima serie di dati e di ricerche concrete cerca di delineare determinate caratteristiche generali del capitalismo moderno. Piketty non ha intenzione, almeno in questo testo, di descrivere l’intero sistema capitalistico fin nei suoi più nascosti meandri: il suo scopo si colloca, da un lato, nell’analisi delle dinamiche che portano alla disuguaglianza, dall’altro, nel tentare di dare una risposta concreta a queste dinamiche anti-egualitarie.
Il testo di Piketty ha l’obbiettivo di proseguire e per un certo verso completare l’indagine che lo studioso francese porta avanti ormai da molti anni relativa alla disuguaglianza come problema sistemico del capitalismo contemporaneo. La domanda fondamentale, infatti, che l’autore si pone all’inizio del libro è: come si determina l’attuale situazione di diseguaglianza? Quale rapporto c’è tra diseguaglianza e crescita economica? La tesi del libro mi pare si articoli in questi due punti:
1- Il ritorno del capitalismo patrimonialistico è dovuto alla scarsa crescita dell’economia, a causa della “contraddizione fondamentale del capitalismo” r > g, in cui g rappresenta la crescita (anche demografica), e r il tasso di ritorno sul capitale, cioè quanto rende un certo stock di capitale investito.
2- Il mercato lasciato libero genera automaticamente r > g, soprattutto oggi che g è così bassa. Per redistribuire la ricchezza e invertire il meccanismo serve l’intervento pubblico.
Il capitalismo soffre di questa contraddizione originaria, per Piketty: r tende sempre ad essere maggiore di g. E questo genera disuguaglianza, nella misura in cui l’accumulazione si concentra in periodi di crisi e di scarsa crescita, che secondo Piketty sono la norma nella storia del capitalismo -mentre è eccezionale la crescita dei Trenta Gloriosi (1950-70) – centralizzando la ricchezza nelle mani di chi già possiede molto e togliendola alla middle class e alle classi più povere. Esiste una relazione fisiologica tra la scarsa crescita del PIL e la crescita della disuguaglianza. In generale possiamo dunque dire che Piketty riscontra un tendenza storica nel capitalismo all’aumento della disuguaglianza (r tende sempre ad essere sempre maggiore di g). E allora, se questo è vero, come è possibile che negli anni dal 1945 al 1970 la disuguaglianza, almeno nelle società occidentali si sia oggettivamente ridotta? E perché oggi sta vertiginosamente aumentando? Perché la crescita economica e demografica è un fattore di equalizzazione, che riduce l’importanza della ricchezza ereditata e aumenta il valore della la ricchezza che si guadagna oggi rispetto al valore della ricchezza di ieri. In termini matematici, se g aumenta, la distanza tra r e g diminuisce e conseguentemente si riduce l’effetto economico e sociale. In ogni caso, il punto fondamentale che rende problematica e pericolosa la legge r > g = disuguaglianza, è che la storia del capitalismo è una storia di crescita lenta eccetto pochi periodi di boom. Noi siamo appena usciti, secondo Piketty, da un periodo di grossa crescita che ha ridotto le disuguaglianze e creato una società più meritocratica, ma stiamo entrando in un periodo di crescita più lenta.
Dopo aver descritto fin nei minimi dettagli i meccanismi economici che portano all’aumento della disuguaglianza, Piketty si dilunga per centinaia di pagine a descrivere in cosa consista concretamente questa disuguaglianza, anche mediante l’aiuto di dati e grafici elaborati da lui stesso e dalla sua equipe. Lo studioso francese delinea i tratti di una società fortemente diseguale, divisa sostanzialmente in quattro parti2: un 50 % di persone che non possiedono praticamente nulla, un 40 % di middle class relativamente patrimonializzata; un 9 % di ricchi che possiedono molto e il famoso 1 % di ricchissimi che possiedono moltissimo. La tesi di questa parte del libro è che la differenza causata dal patrimonio crea più disuguaglianza di quella causata dal lavoro. Ad esempio, nelle tabelle alle pagine 247-248 vediamo che, se nelle società più diseguali il più alto 10 % nella scala dei salariati prende il 45 % del totale dei salari erogati, in queste medesime società il 10 % di coloro che possiedono più patrimonio ha il 90 % del patrimonio complessivo.
Importante, nell’economia del testo, il parallelo continuo messo in atto dall’economista francese tra la nostra situazione e quella di fine Ottocento e inizio Novecento (la cosiddetta Belle Époque): la disuguaglianza sociale che ormai caratterizza le nostre società avvicina queste ultime più alla Francia del 1910 piuttosto che alla Francia del 1970. Questo, per Piketty, è da ricondurre alla legge fondamentale del capitalismo r > g: le guerre mondiali e le crisi economiche tra il 1920 e il 1945 nel corso di quella che Hobsbawm definisce “L’età della catastrofe” hanno distrutto il capitale fondiario e la rendita3 e hanno così posto le basi per la società più egualitaria che si è costruita a partire dal 1945 grazie alla crescita economica. Oggi invece, a causa della depressione economica ormai in atto dagli anni ’80, la forbice della disparità sociale è destinata ad aumentare indefessamente, a meno che non si corra al più presto ai ripari. In effetti però le nostre società sono meno diseguali di quelle del 1910, anche se la tendenza sembra quella di una ricostruzione di quell’ordine. Perché? Per Piketty la differenza vera oggi la fa la classe media creatasi dal secondo dopoguerra, che possiede una buona parte (circa il 40 %) della ricchezza e in questo modo intacca seriamente il patrimonio del 10 % più ricco: nel 1900 c’era un 10 % della popolazione ricchissimo e un 90 % miserabile o quasi.
L’ultima parte del libro è dedicata alla proposta di Piketty, che consiste sostanzialmente in una tassa progressiva sul capitale. Essa si porrebbe i compiti di:
1- regolare il capitalismo mediante la riduzione della forbice tra r e g;
2- fermare l’indefinita crescita della disuguaglianza;
3- regolare i mercati;
4- garantire la trasparenza mediante i controlli fatti sui vari capitali per riscuotere la tassa.
La tassa non dovrebbe essere troppo alta per non bloccare la crescita, e in ogni caso, secondo i calcoli dell’economista francese, una tassa non elevatissima (1 – 2 %) equivarrebbe al 2 % del PIL dell’intera Unione Europea – Piketty pensa di utilizzare i proventi per ridurre i debiti sovrani degli stati. La tassa viene pensata dall’autore come fortemente progressiva (la fascia di proprietari per meno di un milione di euro non dovrebbe essere sottoposta a tassazione), con lo scopo di moderare l’effetto di r > g e di controllare i flussi di capitale. Il libro si conclude con un analisi sull’Unione Europea considerata il luogo privilegiato di possibile applicazione di una simile misura (che ovviamente ha senso solo se costruita in modo inter-statale).
Gli attacchi che questo testo ha ricevuto sono indicativi del clima all’interno del quale si trova il dibattito economico e politico internazionale. Le critiche mi paiono essere di due tipi: in primo luogo quelle che accusano Piketty di essere, appunto, «bigger than Marx», e cioè, in pratica, di riflettere non sul singolo avvenimento ma di avere uno sguardo più totale e più completo del capitalismo in genere. Come ho scritto poco fa, l’idiotismo specialistico che attanaglia la discussione rende questo tipo di testo inviso ai signori del dibattito, che vedono in ogni tentativo di sguardo complessivo un attacco e un improprio allargamento del campo d’azione del teorico. Pikketty poco “professionale” e troppo “filosofo” perché ricerca uno sguardo d’insieme sulle dinamiche del sistema economico del nostro tempo. Peraltro, come ho scritto all’inizio, lo sguardo d’insieme che presenta questo economista francese impallidisce di fronte alle visioni del capitalismo non solo marxiste ma anche, ad esempio, polanyiane, weberiane, braudeliane (e non guasterebbe da parte di questi “esperti” un certo sguardo anche a queste interpretazioni più totali di un fenomeno complessivo come il capitalismo). Il secondo tipo di critica che incontriamo è quella avanzata dagli onnipresenti neo liberisti. Essi attaccano la proposta di Piketty come keynesiana, socialista, invidiosa della ricchezza di chi si è fatto da solo. Essi rivendicano l’autonomia del singolo nei confronti di uno Stato che non deve intervenire se non per costruire quello spazio di concorrenza all’interno del quale possano scatenarsi gli spiriti animali del capitalismo, dando luogo a uno scontro per la sopravvivenza in cui solo il più forte vince. In effetti, alcuni hanno concluso che nel mondo di Piketty i capitalisti non devono poi sentirsi troppo in colpa. Non dipende da loro se diventano sempre più ricchi.
In conclusione, mi siano concesse un paio di considerazioni: in primo luogo, direi che il punto dell’argomentazione sta più nell’analisi che nella conclusione per un motivo molto semplice. Per Piketty la tassa progressiva sul capitale è, a mio parere, un palliativo (di cui mi pare nemmeno lui abbia ben chiara l’efficacia) che serve solo a limitare una tendenza che non può essere invertita in alcun modo. Direi in effetti che esiste in Piketty la medesima idea di Marx sulla struttura di un movimento insito all’interno del capitalismo: ma questa struttura, che pur si mantiene, è in lui invertita. Essa non genera contraddizioni che porteranno alla caduta del capitalismo e all’avvento della società comunista: al contrario, essa genera continuamente disuguaglianze sempre più radicali e radicate, che porteranno al massimo a disordini sociali. Da qui il quadro a tinte fosche che Piketty dipinge per il nostro futuro. Perché, e questo è il punto fondamentale, per l’economista francese la tassa4, sempre che ci sia lo spazio politico per renderla operativa, non ha il potere di invertire questa tendenza: può solo rallentarla. Per Piketty il vero nemico della disuguaglianza è la crescita (economica, demografica): ma questa crescita noi non abbiamo il potere di costruirla; essa si radica in condizioni storiche che non possono essere ricreate esclusivamente mediante l’azione politica degli uomini. Quello dei Trenta Gloriosi è stato un periodo d’oro, frutto di una serie di eventi (tra cui, si badi, il massacro delle guerre Mondiali) che non tornerà più, ed anche le economie che oggi crescono a tassi più alti del 2-3% sono destinate a stabilizzare la loro crescita su tassi dell’11,5 %.
Per Thomas Pikketty il futuro del capitalismo è un futuro, sostanzialmente, di disuguaglianza e di disordine sociale (per quanto questo tempo da incubo possa essere allontanato mitigato mediante espedienti come la tassa sul capitale). Si tratta quindi di costruire nella società e nel pensiero, nella teoria e nella prassi, l’alternativa a un sistema economico il cui futuro appare sempre più buio.
1 http://www.economist.com/news/finance-and-economics/21601567-wonky-book-inequality-becomes-blockbuster- bigger-marx
2 È necessario sottolineare che Piketty analizza esclusivamente le società occidentali, in particolar modo i suoi grafici e dati fanno riferimento a: Usa, Regno Unito, Francia, Germania e Svezia.
3 In questo punto echeggia chiaramente l’idea marxiana di crisi come luogo di ricompattamento e adattamento del capitalismo alle difficoltà che egli stesso si pone.
4 Da lui stesso definita «utopistica».