“Il capitalismo buono” di Stefano Cingolani
- 21 Ottobre 2020

“Il capitalismo buono” di Stefano Cingolani

Recensione a: Stefano Cingolani, Il capitalismo buono. Perché il mercato ci salverà, prefazione di Giuseppe De Rita, LUISS University Press, Roma 2020, pp. 159, 15 euro (scheda libro)

Scritto da Alberto Prina Cerai

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Che cos’è il capitalismo?

Alla base dell’ultimo libro di Stefano Cingolani giace l’idea che il capitalismo moderno abbia abbracciato la sua ennesima trasformazione. E da un certo punto di vista, non come in passato. I cambiamenti nel rapporto tra produzione e lavoro a causa degli avanzamenti della tecnologia sono stati, e certamente rimangono, i driver endogeni per eccellenza. Tuttavia, oggi al capitalismo non viene chiesto di resistere (e vincere) la sfida di manicheismi esterni, portatori di un’alternativa alle volte attraente e magnetica, ma di superare sé stesso: una trasformazione identitaria accelerata da una crisi epocale.

Perché il capitalismo abbraccia già il mondo, lo organizza, lo domina. La crisi sanitaria lo ha inevitabilmente rimarcato: l’aumento del debito pubblico e il peggioramento della “crisi fiscale” dello Stato, come risposta al congelamento dell’economia, e dall’altra l’estrema vulnerabilità delle nostre società, mai come oggi alimentate da un organismo (la globalizzazione) e guidate da una logica (il mercato), dimostrano come il capitalismo abbia raggiunto il “punto di non ritorno”. E per evitare il collasso su sé stesso, il moderno Proteo, formula che Cingolani adotta per rimarcare le continuità nelle discontinuità (la crisi del 2008 e quella attuale), decide di avviare la sua ennesima metamorfosi, su tre livelli: a livello della produzione, a livello del rapporto con la natura e a livello del capitale umano. Perché il «capitalismo DVR» (digitale, verde, responsabile) è la possibile e auspicabile risposta, per l’autore, alle sfide del nostro tempo, sempre più definite da un flusso entropico di tecnologie, esternalità e disuguaglianze che allo stesso tempo stimolano e minacciano la sua stessa evoluzione.

Il dibattito oggi verte molto sulle “forme” di questo capitalismo, quasi a confermarne in maniera unanime la sua sostanza, immutabile. Capitalismo politico, capitalismo della sorveglianza, capitalismo umano, capitalismo progressivo. Sono formule che cercano di aiutarci a comprenderne le odierne fattezze, mettendoci in guardia e allo stesso tempo nutrendo le nostre aspettative, ma che in realtà tacciono o forse trascurano la sua naturale inclinazione: rispondere alle esigenze di una società che cambia molto più velocemente dei nostri valori, principi e convinzioni.

L’autore è ben conscio che a stabilire, o meno, il successo del capitalismo non sarà tanto il giudizio controfattuale di chi ne ha auspicato – e continuerà a farlo – la fine ogni qualvolta una crisi abbia svelato le sue contraddizioni. È successo nel 2008, così come ora assistiamo al de profundis della globalizzazione con la crisi del Covid-19. I suoi detrattori, secondo Cingolani, credono di poter cristallizzare, a bocce ferme, le criticità di un modello che, in realtà, sono la dimostrazione della sua continua evoluzione. Perché la sostanza del capitalismo non è la somma delle sue crisi e delle sue mancanze. Nell’ottica adottata da Cingolani, quest’ultime sono i segni della mutazione di «un sistema diventato sempre più anarchico, come sempre accade quando il vecchio muore e il nuovo non è ancora nato».

Perché al dilemma alle origini del capitalismo, quello del profitto e dello scopo, della compatibilità tra il perseguimento dell’interesse individuale e il benessere collettivo della società, «la risposta non va trovata dall’esterno, ma deve accompagnare l’evoluzione interna del sistema, deve prendere forma nel corpo mutevole del grande Proteo». Le cui fattezze sono in perenne rispecchiamento con il mondo, e quello del post Covid-19 (o, perlomeno, che ci auguriamo possa essere già il dopo) «non è bipolare né tripolare e tantomeno multipolare: è un mondo senza poli d’attrazione» (p.25). Un giudizio che, forse, paga l’impostazione del libro: la ricerca di cosa sia la sostanza del capitalismo, mentre passano in secondo piano rapporti di forza internazionali che esprimono, in realtà, una gerarchia del capitalismo per ora evidente. «Il capitalismo governa il mondo», ha scritto Branko Milanović su Foreign Affairs, mentre guarda ai due modelli – quello degli Stati Uniti e quello della Cina – contendersi il primato globale. E l’Europa? In questa morsa, sembra sia costretta a inseguire cercando la migliore versione di sé stessa in uno dei tre campi da gioco: l’Unione Europea sarà più green, high-tech o continuerà a essere una “superpotenza normativa”? Sarà un’Europa pronta a correggere le distorsioni della competizione tecno-politica tra USA e Cina? Domande che Cingolani non si pone, ma che forse andrebbero prese in considerazione per stabilire se il «capitalismo DVR» sia il modello a cui queste tre potenze mirano per conquistare i cuori e le menti del resto del mondo.

Ripensare la “prassi” del capitalismo

Uno dei meriti di questo volume è quello di chiarire quali siano le forze che stanno cambiando il modo stesso di concepire il capitalismo. Una di queste è il mutato rapporto tra lavoro e produzione indotto dalla rivoluzione digitale, capace di cambiare «le basi stesse della società moderna e [che] ci conduce dalla fabbrica alla piattaforma» (p.48). Quest’ultima, come abbiano potuto sperimentare tutti noi in via preliminare durante il lockdown, cambia la relazione tra spazio e tempo, rendendo il secondo meno soggetto ai vincoli del primo. Nell’era digitale, lavoro e produzione tendono a convergere sempre di più, così come consumatori e produttori. E il presupposto di questo fenomeno è la raccolta dei dati, «che possono essere estratti, prelevati, processati, trasformati come fossero idrocarburi» (p.55). Se i dati sono “il nuovo petrolio del XXI secolo”, allora il rischio per il benessere delle nostre democrazie sarà l’inquinamento che uno sfruttamento selvaggio dei nostri dati – che altro non sono che i residui della nostra dimensione digitale – potrà avere senza un’adeguata tutela.

Il secondo aspetto in evidenza è l’assunzione di responsabilità di fronte al cambiamento della «turbo-finanza», quell’universo tanto criticato all’indomani della grande recessione e che così macroscopicamente evidenzia gli squilibri nella distribuzione della ricchezza creata dal capitalismo. Fratture oggi evidenti, ma che scontano una visione d’insieme. «La concentrazione della ricchezza», scrive Cingolani, «era un po’ peggiore quando il capitalismo non aveva ancora plasmato il mondo intero» (p.69). La globalizzazione ha portato divisioni nel mondo occidentale, ma ha aperto le porte a culture in passato chiuse su sé stesse, ha vinto la Guerra fredda sull’onda della diffusione del personal computer. Insomma, è la retorica dell’apertura, degli scambi che estendono il benessere al resto del mondo, dell’interdipendenza che aumenta il costo della chiusura e del ricorso alla conflittualità tra nazioni. Una narrazione necessaria, ma non sufficiente per spiegare la realtà di oggi. E tuttavia Cingolani evidenzia un punto nodale: il ruolo dell’istruzione. Qualsiasi dibattito sulle disuguaglianze, comparato o meno, non può che partire da lì. E trovare delle soluzioni senza capire che il problema è bi-direzionale, specialmente in Italia, sarà difficile, se non impossibile: perché sono necessarie politiche educative che si innestino in un ecosistema industriale e infrastrutturale che sia all’altezza delle sfide di oggi. Non basta investire in istruzione senza un cambiamento culturale delle imprese. Altrimenti è come innaffiare il deserto.

Tuttavia, nonostante le contraddizioni del modello di sviluppo, il capitale si mobilita dettando la direzione a consumatori e produttori. Come procedere, però? La ricerca di un «nuovo paradigma» è lo sforzo collettivo verso la riconfigurazione del capitalismo verso le “tre P” (people, planet, profit), a cui le imprese puntano per colmare i limiti di un’eccessiva enfasi sul profitto, sull’individualismo e sulla de-responsabilizzazione societaria. L’attività economica deve puntare a realizzare una crescita non solo efficiente e sostenibile, ma anche volta a beneficiare l’ecosistema sociopolitico nel suo complesso. Il capitalismo, dunque, deve incominciare a preoccuparsi di tutte le dimensioni della vita umana. E per questo deve farsi carico delle sfide del futuro. Vi è una citazione di un’intervista di Michael Porter, teorico della catena del valore, che vale la pena riportare per capire la nuova forma mentis del capitalismo che ci descrive Cingolani: «Se guardiamo lo scenario globale, le più grandi opportunità di mercato derivano dai più grandi problemi che l’umanità deve risolvere». Se il purpose d’impresa è definito, chi lo perseguirà? Saranno gli imprenditori-innovatori della Silicon Valley? O i capitani delle grandi multinazionali? Non è una questione da poco se consideriamo, come fa l’autore, che «a guidare i grandi gruppi ci sono ancora per lo più gli uomini del secolo scorso, che si sono arricchiti insieme ai loro azionisti, quelli del profitto come obiettivo in sé» (p.95). Servono manager per il XXI secolo, quello della riconversione ecologica e della minaccia del climate change. Chi meglio delle nuove generazioni può avere a cuore le sorti dei propri figli e nipoti?

L’analisi di Cingolani sulla sfida ecologica del capitalismo è piuttosto completa e presenta con lucidità due delle chiavi di volta della transizione alle rinnovabili: il costo e la tecnologia. Al netto del problema dell’intermittenza – ovvero il fatto che il solare e l’eolico non garantiscano un flusso di energia costante – sarà inevitabile assistere a differenti mix energetici (gas, rinnovabili) e alla permanenza nel breve-medio periodo di carbone e petrolio per sostenere soprattutto l’emergere poderoso dei paesi in via di sviluppo. Allo stato attuale, è impensabile una rottura netta con il modello energetico del XX secolo, come evidenziano numerosi studi. Punto critico – non evidenziato dal volume – resterà la sostenibilità della crescente domanda di minerali e metalli rari, altro lato oscuro della rivoluzione “verde” del capitalismo, senza contare che quest’ultimi rimangono essenziali per le infrastrutture e le componenti hardware della nostra “dieta digitale”.

Il capitalismo tra Stato e globalizzazione

Nell’ultima parte del volume, dopo aver chiarito l’auspicabile natura del capitalismo per il XXI secolo, Cingolani discute il delicato e difficile rapporto tra quest’ultimo e l’ultima vera grande eredità del mondo otto-novecentesco: lo Stato. La pandemia, come accennato precedentemente, ha nuovamente sbilanciato l’equilibrio tra politica ed economia a favore della prima. «È la grande rivincita del Leviatano», soprattutto perché il lockdown ha mandato in soffitta i buoni propositi del “mondo piatto”, quel «progetto culturale, politico ed economico basato sul libero scambio e sul libero mercato chiamato globalizzazione» (p.112). In realtà, come accenna nell’introduzione l’autore, la discussione sul futuro del capitalismo si apre già nel 2008. Da quel momento, le posizioni divergono, mentre il crescente ruolo dell’innovazione tecnologica nella competizione geopolitica ci induce a ripensare il ruolo dello Stato con le lenti della Guerra fredda. Una dinamica che oggi è frequente nel dibattito pubblico, nel leggere la competizione tra USA e Cina. Ma se fosse, invece, una narrazione strumentale per riaffermare il primato della politica sul crescente potere e peso dei “giganti digitali”? È come se la Politica, sorpresa dalla velocità con cui ci avviciniamo alla “singolarità tecnologica”, avesse reagito istintivamente creando i presupposti per un controllo su qualcosa di sfuggente. E il riflesso culturale di questa dinamica non poteva essere che il porre la questione cruciale: chi innova? E per chi? Su questo punto Cingolani non ha dubbi: «La storia dell’intera rivoluzione industriale, o meglio delle tre rivoluzioni che hanno preceduto quella digitale nella quale siamo immersi, dimostra che lo Stato è intervenuto a fare da acceleratore o talvolta da freno, ma la spinta viene dal basso, anzi dal profondo» (p.114). E questa forza non è quantificabile, è forse il tratto meno “capitalista” del capitalismo come figlio del razionalismo scientifico: perché l’innovazione elude la prevedibilità. E la direzione della nuova economia, così come l’approfondirsi delle filiere industriali globali, sembra condannare lo Stato «ad un’affannosa ricorsa per salvare il salvabile». È suggestiva l’immagine della città siberiana di Norilsk, evocata da Cingolani a partire da un ricordo all’inizio della sua carriera, per ricordare le lezioni del fallimento dell’esperimento sovietico. L’abolizione del mercato e il controllo dei prezzi aveva sottratto uno dei presupposti per il benessere: la domanda di beni. In breve, «i rapporti di produzione, per dirla in termini marxisti, erano diventati un ostacolo alle forze di produzione» (p.127).

Oggi quel rapporto distorto tra politica ed economia si ripropone, per l’autore, tra il capitalismo politico e la globalizzazione. Il Covid-19 ha scosso le arterie della seconda, le catene globali del valore, e rafforzato l’interesse del primo a ridisegnarle dentro un perimetro sicuro. Perché il “virus cinese”, come lo ha definito Donald Trump, è la cartina di tornasole dell’attuale contesto: un’interdipendenza con il resto del mondo (specialmente con la Cina) che con la pandemia è diventata sintomo di vulnerabilità. Soprattutto se applicata allo sviluppo tecnologico. «Il caso Huawei», sottolinea Cingolani tirando in ballo alla questione del 5G, «è diventato il simbolo che la geopolitica vince sulla globalizzazione», dimenticando «il fatto che nessun Paese da solo è in grado di compiere quel salto tecnologico, nemmeno gli Stati Uniti» (p.133). Un discorso che funziona se fatto anche nella direzione opposta: la Cina, senza la tecnologia dei semiconduttori americana, è allo stesso stallo. Dunque, l’unica verità sembra essere l’interdipendenza. Il resto sono valutazioni soggettive, politiche. A cui sfuggiranno, invece, il ruolo della moneta, degli investimenti in settori dinamici e che abbracceranno la nuova forma del capitalismo DVR. Probabilmente senza un egemone capace di dettare regole e di plasmare istituzioni per un futuro ordine globale. La conclusione di Cingolani, un po’ affrettata forse, è che il Great Lockdown ha provato la sconfitta del “capitalismo politico”, una categoria che utilizza per definire la risposta politica (quella nazional-populista) alle contraddizioni del mercato e della globalizzazione. Un modello che sembra riproporre categorie del passato ad un presente che è già proiettato al futuro, in cui le forze di produzione e le esigenze della società si organizzano in simbiosi su un piano sempre più orizzontale, mentre la forza propulsiva della tecnologia vuole sfuggire all’appropriazione dei governi. La speranza è che alcuni dei soggetti di questo cambiamento individuati da Cingolani possano guidare i destini delle nostre società e democrazie, ma senza perdere di vista norme, regole e istituzioni. L’autore invoca una «Bretton Woods per il XXI secolo», e proprio per questa suggestione non si dovrebbe dimenticare che nell’attuale sistema internazionale lo Stato è ancora una delle unità fondamentali.

Il successo del “capitalismo buono” sarà riaffermare l’identità stessa del capitalismo: l’unico sistema economico-sociale sufficientemente elastico, flessibile e capace di adattarsi al mutare delle condizioni della vita umana. È un metro di giudizio che va aldilà delle – seppur macroscopiche e pericolose – derive e contraddizioni di un sistema che ha generato ricchezza nutrendosi di disuguaglianze, creato monopoli digitali e sconvolto l’equilibrio naturale del pianeta. Secondo Cingolani, il capitalismo va giudicato per come incide sul presente per programmare il futuro, dunque per com’è, non per come vorremmo che sia con parametri spesso relativi al passato. In breve, il capitalismo non sarà mai quello che avremmo voluto che fosse. Perché il “capitalismo buono”, il moderno Proteo, risponderà, come i precedenti, ad un’esigenza costante nella storia dell’umanità: quella di organizzare un mondo in progressione, complesso, interconnesso e fragile che possa prosperare in tutte le dimensioni – digitale, ambientale e sociale.

Scritto da
Alberto Prina Cerai

Dopo le lauree all’Università di Torino e all’Università di Bologna, ha svolto un periodo di ricerca presso il King’s College di Londra. Ha completato in seguito un Corso Executive in Affari Strategici presso la LUISS School of Government, una PhD Summer School con Politecnico di Milano-EIT Raw Materials su materiali critici ed economia circolare e un Master con la Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (SIOI). Attualmente collabora con Fondazione Eni Enrico Mattei (FEEM) e LUISS University Press, oltre a svolgere attività di consulenza e analisi.

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