“Il colonialismo degli italiani” di Emanuele Ertola
- 30 Novembre 2023

“Il colonialismo degli italiani” di Emanuele Ertola

Recensione a: Emanuele Ertola, Il colonialismo degli italiani. Storia di un’ideologia, Carocci, Roma 2022, pp. 192, 19,00 euro (scheda libro)

Scritto da Federico Perini

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Tra i prodotti di quella che è stata definita come la «terza stagione di studi»[1] sul colonialismo italiano, è possibile individuare un corpus di lavori complementari[2], che fin dai primi anni Duemila hanno promosso il raggiungimento di due obiettivi. Da un lato, analizzare un aspetto talvolta solo marginalmente trattato, ovvero la cultura coloniale italiana, dall’altro, stimolare il dibattito storiografico su di essa, proponendo contributi in grado di integrare efficacemente quelli di argomento politico, diplomatico e militare. Recependo l’approccio elaborato dai Postcolonial Studies, tali lavori hanno concentrato la propria attenzione su alcuni interrogativi inediti, sintetizzabili con la necessità di comprendere in che modo la «cultura coloniale abbia influito e continui ad influire sulla cultura nazionale»[3].

Da un punto di vista metodologico, ciò ha significato adottare una prospettiva di lungo periodo, la quale, soprattutto nel volume curato da Valeria Deplano e Alessandro Pes, ha con successo scardinato i “limiti temporali” del colonialismo italiano[4], riuscendo ad alimentare tutta una serie di riflessioni originali, tra cui quella sulla “fine del colonialismo italiano” promossa nel 2018 da Antonio Maria Morone, in cui le rigide scansioni temporali cedono il passo a ragionamenti multidisciplinari di lunga durata.

Fornendo tasselli per un’auspicabile e non ancora realizzata storia della cultura coloniale italiana, tali studi hanno contribuito ad un profondo ripensamento del colonialismo nazionale, sviluppando questioni di storia culturale in grado di cogliere efficacemente le continuità e le eredità coloniali, dialogando proficuamente con la storia della politica, del diritto e delle relazioni internazionali, ma anche con analisi antropologiche e demografiche.

Se si nota come in questi anni Emanuele Ertola abbia condiviso tali approcci, è possibile comprendere come egli si sia attivamente inserito in tale fase di studi, arricchendola nella misura in cui ha proposto, nel 2017, una rilettura originale della parabola coloniale italiana[5]. Applicando la metodologia propria delle più recenti indagini anglosassoni[6] sul Settler Colonialism, lo storico romano ha infatti impresso un significato ben preciso alla propria produzione storiografica[7], visibile anche nel suo ultimo volume: Il colonialismo degli italiani. Storia di un’ideologia, edito da Carocci nel settembre 2022. Un agile volume che analizza in che modo l’ideologia del popolamento oltremare sia stata ripresa, elaborata e attuata dal contesto italiano, esaminando, più che il punto di vista delle istituzioni, non solo quello degli esecutori materiali del colonialismo, ossia i coloni, ma anche e soprattutto quello della società civile nazionale nella sua eterogenea complessità. In questo senso, l’autore condivide l’impostazione proposta dall’antropologo francese Louis Dumont, definendo come ideologia «un insieme di idee, progetti e valori condivisi da numerose società». La declinazione italiana del colonialismo di popolamento infatti, viene considerata come espressione particolare di un più vasto «pattern globale settler», in cui lo stanziamento oltremare a tempo indeterminato di coloni venne posto tanto come fondamento teorico, quanto come fine ultimo di molte politiche coloniali europee e non (p. 10).

Nel proporre tale impostazione, Ertola sembra voler da un lato colmare alcune lacune storiografiche, dall’altro invece, riprendere in mano alcune questioni, incardinando il proprio studio attorno a tre ragionamenti paralleli quanto complementari. Il primo di essi, parte dalla consapevolezza di come la storiografia non avesse ancora prodotto dei lavori in grado di analizzare il colonialismo italiano in quanto fenomeno sviluppatosi secondo una vera e propria ideologia, avente dei riconoscibili, ma poco “puntuali e sistematici”, fondamenti teorici. Un’espressione quest’ultima, che non sottintende tanto i progetti alla base delle più o meno riuscite politiche coloniali liberali o fasciste, quanto piuttosto il processo di costruzione di quel sostrato culturale che dall’unità in poi è andato via via sedimentandosi nella coscienza nazionale. Una dinamica che il libro di Ertola sviluppa analizzando il processo di sedimentazione non come un passivo accumularsi di prospettive, teorie, retoriche o immaginari, bensì come un dialettico e conflittuale intrecciarsi di punti di vista ed elaborazioni, eterogenee per contestualizzazione storica, cultura politica, estrazione sociale o interessi degli attori coinvolti. Il tutto, talvolta andando oltre il significato di ideologia richiamato nelle pagine introduttive. Infatti, nonostante non appaia mai il termine, è possibile notare come l’ideologia coloniale venga indagata de facto in quanto “idea-forza” di soreliana memoria, ossia come un mito politico che a prescindere dalla veridicità del proprio contenuto è in grado di generare atteggiamenti fideistici capaci di avere un impatto concreto sulla storia. D’altronde, la dimensione mitica dell’immaginario coloniale è oggetto nel volume di una accurata analisi antropologica, letteraria, politica, sociale e ovviamente storica, che evidenzia con minuzia di particolari e chiarezza d’esposizione i tratti salienti della narrazione colonialista, incentrata sul prospettare agli italiani tutta una serie di utopici paradisi terrestri, ansiosi di accogliere una vivace quanto feconda opera di popolamento.

Utilizzando una locuzione ripresa talvolta a mo’ di sintesi, talvolta come espediente per distinguere l’esperienza oltremare italiana da quelle delle altre potenze europee, si potrebbe dunque affermare che il volume voglia verificare quanto la formula del “colonialismo demografico” sia effettivamente rappresentativa delle teorizzazioni elaborate in Italia tra Ottocento e Novecento. Ciò che il libro propone invece, e in ciò consiste il secondo ragionamento cardine attorno a cui viene sviluppata l’analisi, è un’efficace decostruzione del concetto, la cui essenza viene scavata allo scopo di rinvenirne il significato più profondo. Nel far ciò infatti, l’autore ammonisce fin dalle battute iniziali come l’emigrazione venga talvolta considerata acriticamente come un «dato caratteristico dell’espansione coloniale italiana» (p. 10). In altre parole, come un elemento scontato, immutabile e costante, da non sottoporre ad alcuna problematizzazione. Si tratta, per certi versi, di una critica simile a quella formulata da Frederick Cooper sui pericoli di un’analisi delle continuità coloniali, secondo cui occorre costantemente riferire l’ideologia colonialista alle istituzioni e al contesto storico di provenienza, allo scopo di prevenire discorsi che la facciano sembrare «ovunque e quindi da nessuna parte»[8]. L’intento del volume di Ertola, infatti, vuole essere quello di analizzare il popolamento in quanto ideologia dinamica, alla quale ci si può riferire correttamente nella sola misura in cui si prendano in esame i «modi», le «forme» e gli «attori assai diversi» che l’hanno elaborata «nel corso dei decenni» (p. 10).

A tal proposito, il terzo ragionamento chiave sembra ruotare attorno alla necessità di elaborare una cronologia di riferimento, in grado di scandire la parabola coloniale italiana secondo quelle che furono le principali fasi evolutive del concetto, nonché i suoi flussi e riflussi oltre la fine del colonialismo stesso. Un’operazione interessante, il cui risultato è possibile analizzare se si prendono in esame i capitoli in cui il libro è stato suddiviso.

Lo scopo del primo capitolo, ad esempio, è di fondamentale importanza, poiché intende fornire subito un dato cronologico essenziale, quello relativo alla nascita dell’idea di popolamento, la quale viene collocata dall’autore prima dell’unità nazionale. In questo senso, viene scelto come riferimento esemplificativo il 1855, nel cui novembre, al comando del garibaldino Nino Bixio, salpò da Genova il veliero Goffredo Mameli: una “grande” imbarcazione avente l’obiettivo di trasportare merci e persone nel «nuovissimo mondo» australiano. Secondo l’autore, nonostante le merci «non trovarono mercato» e le persone finirono a «spaccarsi la schiena in miniera», è possibile interpretare tale esperienza come una precoce proiezione dell’Italia «non ancora unita» verso l’«oltremare». Vista in una prospettiva di lungo periodo, si trattava di una rivelazione d’intenti assolutamente inedita, la cui originalità rispetto all’epoca delle “repubbliche marinare” è individuabile, più che nella volontà di creare nuove rotte mercantili, in quella di trasferire fuori dalla penisola «lavoratori in cerca di un futuro migliore». Un’idea questa, più affine al settlerism inglese di inizio ottocento, secondo cui l’attitudine ad emigrare oltremare era indice di «speranza» e non di «disperazione» (pp. 15-16).

Con sullo sfondo quest’episodio introduttivo, il capitolo prosegue analizzando i primi “vagiti” di quello che sarebbe diventato con gli anni un vero e proprio dibattito nazionale sul colonialismo di popolamento. Un confronto via via sempre più eterogeneo per posizioni e approcci, i cui fondamenti teorici vengono indagati da Ertola sia alla luce di una loro ricezione dal contesto europeo sia rispetto alla loro capacità di incidere sulla politica estera italiana di fine secolo.

In questa prospettiva duplice, concetti come “missione civilizzatrice” o “imperialismo informale” vengono analizzati così come vennero de facto promossi dai primi sostenitori dell’inscindibilità del binomio colonizzazione-popolamento. Nel complesso però, particolare attenzione viene riservata al cosiddetto “imperialismo malthusiano”. Prendendo “in prestito” tale formula dalla storiografia sul colonialismo giapponese[9], l’autore osserva come essa sintetizzi efficacemente il modo in cui l’Italia liberale elaborò e attuò l’idea del popolamento oltremare. Delineandone i tratti salienti, è possibile considerare l’imperialismo malthusiano come quella declinazione dell’ideologia settler che, concependo le relazioni internazionali come un sistema basato sulla «differenza nella densità di popolazione tra un Paese e l’altro», legittimò la «conquista coloniale» con la necessità di «alleviare la società metropolitana da sovrappopolazione e disoccupazione», progettando il trasferimento dell’eccedenza di manodopera nei “vuoti” territori d’oltremare (pp. 19-22).

Tuttavia, nel riprendere il concetto a scopo definitorio, Ertola sviluppa un discorso di carattere storiografico, il cui obiettivo, affermato fin dall’introduzione, consiste nel superare un’ancora diffusa e superficiale interpretazione storiografica. Si tratta, in altre parole, di dimostrare come l’opinione gramsciana abbia veicolato un’interpretazione erronea delle cause del colonialismo italiano, facendo derivare l’espansione oltremare non da una reale “spinta” ideologica, bensì dalla necessità di risolvere col popolamento tutta una serie di questioni proprie dell’Italia liberale.

Una prospettiva questa, il cui carattere strumentale l’autore non giudica sufficiente a spiegare la profonda dimensione culturale e sociale dell’ideologia del popolamento, la quale non fu unidirezionalmente elaborata dall’alto delle istituzioni verso il basso della società civile, bensì anche (e talvolta soprattutto), al contrario.

Ragion per cui le fonti necessarie ad analizzare il fenomeno vengono individuate, più che nei documenti diplomatici, nella pubblicistica e nella letteratura colonialista, ma anche nella cinematografia e nelle arti visive. Così facendo, mentre nel secondo capitolo l’ideologia del popolamento viene studiata in rapporto alla creazione, sul finire dell’Ottocento, di una vera e propria cultura coloniale; nel terzo, viene indagata secondo le dinamiche per cui riuscì a sopravvivere al “dopo Adua”, ricevendo nuova linfa durante l’età giolittiana. Il tutto, storicizzando la trattazione rispetto ai processi di acquisizione e di popolamento dell’Eritrea, nonché rispetto alle vicende del primo conflitto italo-etiopico, della crisi di fine Ottocento e della Guerra di Libia, verso cui l’autore si riferisce attingendo dalla produzione storiografica degli anni Ottanta e Novanta[10].

In tal senso, pagine interessanti del terzo capitolo sono quelle riservate all’analisi del dibattito nazionale sul colonialismo. Con particolare riferimento ai primi quindici anni del Novecento, le posizioni sostenute da socialisti, cattolici, liberali e nazionalisti sono studiate in modo tale da rendere l’immagine di una accesa dialettica interna, che grazie anche al confronto con centri di elaborazione non prettamente politici, come le società geografiche o l’Istituto Coloniale Italiano, ebbe come risultato la riaffermazione dell’espansionismo malthusiano quale cardine dell’ideologia colonialista nazionale. Infatti, parimenti alle critiche mosse da figure come Turati o Salvemini, viene approfondito quello che può essere considerato come il vero tratto originale del processo di elaborazione teorica in questa fase, ossia la diffusione, da parte dei nazionalisti, di una particolare concezione geopolitica, fondata sull’assunto che lo scenario in cui si sarebbe dovuta inserire l’azione oltremare italiana era caratterizzato da «una lotta globale tra nazioni ricche e proletarie». Nel sostenere ciò, si insisteva sullo stesso terreno di discussione del socialismo, riformulando la «rivendicazione di classe» in «rivendicazione nazionalista e aggressiva». In altre parole, come scrive Ertola, si trattava di una «visione social-imperialista, che teorizzava una “lotta di classe tra le nazioni”, all’interno della quale l’Italia, in quanto “nazione proletaria”, aveva il diritto a lottare» per un proprio «spazio vitale» (p. 80).

Simili considerazioni, così come quelle promosse da altre culture politiche, vennero efficacemente esposte in quello che l’autore considera come «la miglior sintesi possibile» del dibattito di inizio Novecento: il “sermone” pascoliano La grande proletaria si è mossa (pp. 90-92).

Sottolineando come nella teorizzazione appena esposta il colonialismo di popolamento fosse stato inoltre legittimato da una peculiare retorica della romanità, fondata sul “ritorno” in Nord Africa in nome della diffusione del diritto e della modernizzazione produttiva, il terzo capitolo si conclude dapprima con un bilancio delle politiche di emigrazione di massa oltremare di inizio Novecento, e poi, con una prima analisi delle continuità e delle discontinuità tra età liberale e fascismo.

È in questo frangente che è possibile osservare l’originalità della periodizzazione proposta da Ertola. Il ventennio mussoliniano, contrariamente alle narrazioni più diffuse, viene infatti studiato non come periodo a sé stante in un capitolo ad hoc, bensì secondo due fasi ben distinte. La prima, proposta come ultimo paragrafo del capitolo iniziato con la Guerra di Libia, copre gli anni dal 1922 al 1925. Se ne sottolinea il carattere sostanzialmente continuativo con l’età liberale, sia dal punto di vista delle politiche di popolamento, sia da quello della propaganda, rimasta nelle mani di società geografiche che da centri di elaborazione diventarono meri strumenti di propaganda. Come primo elemento di discontinuità, viene riconosciuta la necessità di plasmare una vera e propria “coscienza coloniale” nazionale, la quale, da che in età liberale era stata circolare oggetto di elaborazione da parte della politica, delle istituzioni e di frange della società civile, diventava ora missione del regime.

Tuttavia, la vera cesura temporale e concettuale viene collocata nel biennio 1926-27, ossia quando Mussolini, recepite dinamiche tra cui quella relativa alla limitazione degli ingressi negli Stati Uniti (1921-1924), varò una «nuova politica migratoria, demografica e coloniale» (p. 101). Con tale riferimento infatti, si apre il quarto capitolo, il quale vuole dimostrare come il cambio di passo imposto dal duce fu tale da insistere sulla più profonda base ideologica del colonialismo italiano. In altre parole, venne scientemente ripudiata l’«idea malthusiana di sovrappopolazione», sostituendola con quella «spengleriana di potenza demografica» (p. 122). Si trattava di concepire, in sintesi, l’eccedenza di manodopera non come un problema, bensì come una risorsa che il Paese avrebbe potuto sfruttare per acquisire posizioni di prestigio oltremare. Così facendo, si affiancava al colono-lavoratore il colono-soldato: due figure il cui obiettivo propagandistico sarebbe dovuto essere quello di promuovere un’emigrazione di massa in grado di costruire una società coloniale razzialmente pura, fondata sulla progressiva e irreversibile sostituzione dell’italiano al nativo. Analizzando da questa prospettiva eventi come la “spedizione dei Ventimila” (1938), è interessante osservare come l’autore non includa il punto di vista delle popolazioni africane oggetto di simili politiche. Più che una carenza, si tratta di una scelta giustificata, avente l’obiettivo di restituire l’ideologia del popolamento per quello che effettivamente fu, ossia una «elaborazione teorica» fondata sulla «non esistenza degli altri» (p. 12).

Passando al quinto e ultimo capitolo, è possibile notare come Ertola offra un’approfondita e attenta disamina di come l’eredità coloniale sia stata raccolta durante la prima età repubblicana, quando venne propagandata non tanto dalle istituzioni, quanto soprattutto dagli ex-coloni e colonialisti. Infatti, nonostante l’ultimo riferimento cronologico sia il luglio 2019, il capitolo si concentra soprattutto sul periodo compreso tra la Seconda guerra mondiale e il 1960, ossia dalla perdita de facto dell’oltremare all’anno dell’Africa. Con riferimento soprattutto a periodici quali La Voce dell’Africa o Affrica, vengono analizzate le forme con cui reduci, profughi e politici di eterogenea provenienza rielaborarono l’ideologia del popolamento, eclissandone la dimensione imperialistica nella misura in cui venne propagandata la mera necessità di fornire uno sbocco africano alla manodopera italiana in eccesso. Un processo di depurazione questo, che secondo l’autore mutò il settlerism in una sorta di «colonialismo senza colonie»[11]. Inoltre, rapportando tali riformulazioni alle logiche della Guerra fredda e del processo di integrazione europea, risulta interessante osservare come trovi posto un’analisi degli esordi del dibattito italiano sull’idea di Eurafrica. Un’ideologia giudicata dall’autore come un «escamotage per riproporre con minime variazioni» l’«emigrazione coloniale di massa» in quanto soluzione al problema dell’eccedenza di popolazione (p. 152).

Privo di un capitolo conclusivo ad hoc, il volume termina con alcuni riferimenti al nostro tempo presente, che fanno capire quanto necessario sia sviluppare un dibattito pubblico, e non solo accademico, su cosa sia stato il colonialismo italiano. Oltre a ciò, il libro di Ertola lascia al lettore tutta una serie di stimoli interessanti. A restare impressa, sintomo di come il lavoro sia riuscito a configurarsi come una efficace sintesi interpretativa, è soprattutto la metodologia d’analisi utilizzata. Un approccio concentrico, che dal considerare il colonialismo italiano come una vera e propria ideologia, passa alla sua categorizzazione entro i canoni del settlerism, per arrivare poi ad indagare le singole ed eterogenee declinazioni politiche, economiche, culturali, artistiche e sociali che sorsero lungo più di 150 anni di storia italiana. Un moto discendente questo, incardinato entro una solida cronologia di riferimento. Infatti, se con i volumi di Deplano, Pes e Morone si è assistito ad uno scardinamento dei limiti temporali classici del colonialismo italiano, con l’ultimo contributo di Ertola sembra si assista ad una loro ridefinizione cronologica di tipo sinusoidale, avente un inizio e due epiloghi: quello fattuale relativo alla perdita dell’Oltremare e quello senza conclusione relativo alla permanenza dell’ideologia settler nella cultura italiana. Una periodizzazione proposta, insomma, allo scopo di sottolineare i numerosi flussi e riflussi di un settlerism che il lettore percepisce come un concetto resiliente fino ai giorni nostri. Per usare un’altra metafora infatti, si potrebbe dire come l’ideologia colonialista appaia nel volume alla stregua di un fiume carsico, capace non solo d’inabissare il proprio corso a seconda degli ostacoli che incontra, ma anche di permeare la roccia circostante di un ethos particolare, che, nel suo consolidarsi nella coscienza nazionale, consente poi al fiume di risalire in superficie non appena le condizioni glielo consentano, filtrandone il contenuto a seconda delle trasformazioni storico-culturali nel frattempo occorse.


[1] Antonio M. Morone, Introduzione. Quando è finito il colonialismo italiano?, in Antonio M. Morone (a cura di), La fine del colonialismo italiano. Politica, società e memorie, Le Monnier, Firenze 2018, p. 3.

[2] Si riportano, tra i tanti: Patrizia Palumbo (a cura di), A Place in the Sun. Africa in Italian Colonial Culture from Post-Unification to the Present, University of California Press, Berkeley 2003; Mariella Colin e Enzo Rosario Laforgia (a cura di), L’Afrique coloniale et post coloniale dans la culture, la littérature et la société italiennes. Représentations et témoignages, Presses universitaires de Caen, Caen 2003; Jacqueline Andall e Derek Duncan (a cura di) Italian colonialism. Legacy and Memory, Peter Lang, Bern 2005.

[3] Valerio Deplano e Alessandro Pes, Quel che resta dell’impero. La cultura coloniale degli italiani, Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 12-13.

[4] Ibidem.

[5] Cfr. Emanuele Ertola, In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero, Laterza, Roma-Bari 2017.

[6] Tra i tanti contributi disponibili, si rimanda a James Belich, Replenishing the Earth: The Settler Revolution and the Rise of the Anglo-World. 1783-1939, Oxford University Press, Oxford 2009.

[7] Cfr. Emanuele Ertola, Navi bianche. Il rimpatrio dei civili italiani dall’Africa Orientale, «Passato e Presente», 91 (2014), pp. 127-143; Emanuele Ertola, The Italian fascist settler empire in Ethiopia, 1936-1941, in Edward Cavanagh e Lorenzo Veracini (a cura di), The Rutledge Handbook of the History of Settler Colonialism, Routledge, Londra-New York 2016; Emanuele Ertola, “Terra Promessa”: migration and settler colonialism in Libya, 1911-1970, «Settler Colonial Studies», VII (2017), n. 3, pp. 340-353; Emanuele Ertola, “White slaves”: labor, whiteness, and settler colonialism in Italian East Africa (1935-1941), «Labor History», LXI (2020), nn. 5-6, pp. 551-567.

[8] Cfr. Frederick Cooper, Colonialism in question: Theory, Knowledge, History, University of California Press, Berkeley 2005, p. 47.

[9] Riferimenti in questo senso sono Sidney Xu Lu, The Making of Japanese Settler Colonialism: Malthusianism and Trans-Pacific Migration, 1868-1961, Cambridge University Press, Cambridge 2019; Hyung Gu Lynn, Malthusian Dreams, Colonial Imaginary: The Oriental Development Company and Japanese Emigration to Korea, in Caroline Elkins e Susan Pedersen (a cura di), Settler Colonialism in the Twentieth Century: Projects, Practices, Legacies, Routledge, Londra-New York 2005, pp. 39-54.

[10] Si riportano, tra i tanti: Irma Taddia, L’Eritrea colonia 1890-1952. Paesaggi, strutture, uomini del colonialismo, Franco Angeli, Milano 1986; Alberto Acquarone, La ricerca di una politica coloniale dopo Adua. Speranze e delusioni fra politica ed economia, in Ludovica De Courten (a cura di), Dopo Adua. Politica e amministrazione coloniale, Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma 1989, pp. 41-74; Marina Tesoro, Stampa e opinione pubblica in Italia al tempo della guerra con l’impero Ottomano, «Il Politico», LV, n. 4, pp. 713-732.

[11] Cfr. Massimo Zaccaria, Rimuovere o riscrivere il colonialismo? Il lavoro degli italiani in Africa, in A.M. Morone (a cura di) La fine del colonialismo italiano…, op. cit., p. 100.

Scritto da
Federico Perini

Dottorando in Studi umanistici, curriculum Storia contemporanea, presso l’Università Cattolica di Milano. Ha conseguito la laurea magistrale in Scienze storiche all’Università “La Sapienza” di Roma. Studia le interconnessioni tra europeismo e decolonizzazione nella seconda metà del Novecento. Tra i suoi interessi, la filosofia politica e le trasformazioni socioeconomiche del presente.

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