Il coronavirus e il rilancio del compromesso tra socialismo e liberalismo
- 24 Aprile 2020

Il coronavirus e il rilancio del compromesso tra socialismo e liberalismo

Scritto da Roberto Bertoni

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Questo contributo fa parte di un dibattito su temi sollevati dall’articolo che apre il numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», dal titolo Perché la democrazia è in crisi? Socialisti e liberali per i tempi nuovi, scritto congiuntamente da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice. Tra i temi sollevati nella discussione la parabola storica del liberalismo e il possibile incontro con il pensiero socialista, le cause delle disuguaglianze, il ruolo e l’apporto delle culture politiche ai cambiamenti storici, le chiavi per comprendere il cambiamento tecnologico, le forme della globalizzazione e la crisi ambientale. Per approfondire è possibile consultare l’introduzione del dibattito con l’indice dei contributi pubblicati finora.


A testimoniare la validità della riflessione scritta a quattro mani da Giuseppe Provenzano ed Emanuele Felice sul numero 6/2019 della Rivista «il Mulino», c’è il fatto che mantiene intatta la sua validità pur essendo stata redatta prima dell’esplosione del coronavirus. Nella loro analisi, Provenzano e Felice mettono in risalto l’evoluzione del rapporto fra capitalismo e democrazia, drammaticamente incrinatosi al termine dei cosiddetti “Trenta gloriosi” a causa di un’interpretazione feroce del primo a scapito della seconda.

Non a caso, oggi, al cospetto di una pandemia che giustamente terrorizza i più e che ci pone di fronte a sfide un tempo impensabili, oltre che a un numero di morti quotidiani che ricorda il ritmo di una guerra, l’invocazione che giunge da più parti è quella di una svolta autoritaria, magari mascherata sotto forma di governo oligarchico senza quel principio essenziale per la democrazia stessa che è l’opposizione. Si invocano misure di “stampo cinese”, si auspicano sanzioni durissime per i trasgressori degli obblighi stabiliti dal governo, si plaude a chiunque metta in discussione le libertà personali e si irride chiunque provi a sostenere la tesi secondo cui è giusto accettare tutte le limitazioni del caso a patto che ci sia la piena garanzia che esse siano temporanee. Stiamo, insomma, assistendo a un cambiamento d’epoca di proporzioni apocalittiche: un passaggio che, indubbiamente, non ci consentirà di tornare a essere com’eravamo in precedenza. E allora, mutuando una frase del grande George Bernanos, possiamo dire che ci sono tanti morti nella nostra vita ma più morto di tutti è il capitalismo che fu.

Del resto, basta osservare le immagini delle bare dei “poveri cristi” sepolte in una fossa comune a largo di New York, precisamente sull’isola di Hart Island, per rendersi conto che il capitalismo, almeno per come lo abbiamo inteso negli ultimi quarant’anni, è un Dio che ha fallito.

Basta osservare le ingiustizie e le disuguaglianze che stanno squassando gli Stati Uniti, a cominciare dai senzatetto costretti a dormire all’addiaccio in un parcheggio di Las Vegas nonostante ci siano centocinquantamila posti letto vuoti negli alberghi, per rendersi conto delle distorsioni prodotte da un paradigma che ha elevato il profitto a totem e annientato la dignità dell’essere umano. Dirò di più: stiamo parlando di un sistema che ha eliminato il concetto stesso di persona dall’immaginario collettivo, rendendoci, a seconda dei casi, un cliente o un consumatore, comunque un essere legato alla spesa e al denaro, non un uomo o una donna con il pieno diritto di vivere su questa Terra anche nel momento in cui non ha alcuna intenzione di spendere neanche un centesimo.

L’analisi di Provenzano e Felice mostra, dunque, con chiarezza l’evoluzione dei diritti, fornendoci una speranza per la sinistra che verrà circa il definitivo affrancamento della medesima dalla contrapposizione fra diritti sociali e diritti civili. La tesi del loro articolo, volendola riassumere in breve, è che un progresso nel campo dei diritti sociali quale quello avvenuto a partire dal Dopoguerra, grazie al trionfo del compromesso socialdemocratico fra capitale e lavoro, ha fatto sì che venissero poste le basi per una piena emancipazione dell’uomo dalla gabbia del pregiudizio e dell’arretratezza. E così si è cominciato, progressivamente, a parlare di diritti delle donne e degli omosessuali, tanto per citare due esempi, e gli anni Settanta, apertisi con l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, hanno condotto l’Italia a un progresso incredibile grazie al procedere di pari passo fra avanzamento nel campo dei diritti sociali e crescita dei diritti civili. Il già menzionato Statuto dei lavoratori, certo, ma anche il divorzio, l’aborto, l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, varato peraltro da Tina Anselmi, la prima donna ministro nella storia del nostro Paese, e l’abolizione dei manicomi sulla spinta della lotta esistenziale di Franco Basaglia: queste le riforme principali di quel periodo. Riforme che suggellarono un’idea di società fondata sul presupposto che il cittadino dovesse essere “preso per mano” e condotto verso un ampliamento dei propri orizzonti, senza paternalismi di sorta ma ponendolo di fronte alla prospettiva tangibile che il miglioramento delle sue condizioni di vita avrebbe favorito il miglioramento delle condizioni degli altri e viceversa. Era ancora una società comunitaria, basata su un’idea di generosità e di altruismo. D’altronde, parliamo della stessa società che liberava gli oppressi e viveva una fase di pieno sviluppo e quasi di piena occupazione. Interrottosi il compromesso socialdemocratico, indebolitisi clamorosamente i sindacati ed emersa, con sempre maggiore prepotenza, la società diseguale basata sulle teorie della Scuola di Chicago, con un’attenzione davvero “malata” al profitto e al benessere di pochi a scapito dei molti, ecco che ci troviamo oggi a fare i conti con l’immagine, se ci pensate terribile e grottesca, della città più rutilante al mondo in cui su un’isola, lontana dalle luci della ribalta, chi non si è potuto curare perché non si è potuto permettere il ricovero ospedaliero e l’assistenza necessaria, viene calato nella nuda terra in una bara grezza, in solitudine e senza alcun conforto. Se volete un’immagine iconica della fine del capitalismo, la sua patria ve l’ha fornita.

Sarà bene, pertanto, cominciare a interrogarsi sul fatto che, come sostiene Giddens, nell’ultimo trentennio, dall’abbattimento del Muro di Berlino in poi, basandoci sull’idea che la Storia fosse finita, abbiamo assistito alla globalizzazione della democrazia ma non alla democratizzazione della globalizzazione, con la conseguenza che attualmente abbiamo a che fare con tante false democrazie, talvolta abilmente mascherate, e con la progressiva scomparsa dell’amore per la democrazia da parte del popolo. Perché se a Wuhan si è riuscito, in qualche modo, a contenere i contagi e a tornare a una parvenza di vita normale nell’arco di tre mesi mentre da noi la conta dei morti ha superato quota ventimila e tutto l’Occidente, figlio del Patto Atlantico, delle idee di Keynes e del Piano Beveridge post-bellico, combatte con una tragedia della quale non sembra che riesca a venire a capo, ecco che il nostro stare insieme viene compromesso in maniera decisiva.

Provenzano e Felice, prima del coronavirus, ci invitavano a ripensare l’economia, il modello di sviluppo, il nostro stile di vita e a calarci in una dimensione maggiormente pubblica, ricordandoci del prossimo dopo esserci abbeverati per trent’anni alla fonte thatcheriana della “società che non esiste”. Se e quando questa follia ci consentirà di vedere un minimo di luce in fondo al tunnel, dovremo insomma riflettere sui danni provocati dalla predicazione individualista dell’egoismo selvaggio, che abbiamo propagandato e difeso a spada tratta per anni, e sulle assurdità cui assistiamo ogni giorno, con la massima ricchezza posta a contatto, nell’ambito della stessa città, con la povertà estrema degli ultimi abbandonati a se stessi.

Il coronavirus non ha ridotto le disuguaglianze, come sostiene ingenuamente qualche osservatore; al contrario, le ha acuite, mettendo in discussione quel po’ che restava dell’eredità keynesiana di cui avremmo disperatamente bisogno.

A tal riguardo, sarebbe opportuno che, oltre a promuovere una nuova Bretton Woods in campo economico, la sinistra mondiale si ponesse l’obiettivo di convocare, appena sarà possibile, l’equivalente dell’Épinay mitterrandiana del 1971, ossia un congresso, stavolta di dimensioni mondiali, comprendente tutti i partiti progressisti occidentali, al fine di varare un progetto di svolta nelle basi essenziali del nostro modello di convivenza, rilanciando il compromesso fra pensiero socialista, inteso come armonia dei rapporti umani e lavoro fondato sull’affermazione della persona e non su mere logiche di sfruttamento, e pensiero liberale, per quanto concerne la valorizzazione del singolo e dei suoi molteplici aspetti nel contesto di una collettività solidale. Sono gli stessi temi che vennero posti dalla futura classe dirigente democristiana in quel di Camaldoli, ai tempi della stesura del famoso Codice. Sono gli stessi temi del cattolicesimo di Mounier e Maritain. Sono argomenti di cui si può cominciare a parlare seriamente solo dopo una guerra e quella che stiamo vivendo, nonostante alcune dissennate minimizzazioni, è una guerra a tutti gli effetti. Da qui la necessità di invertire la rotta e l’occasione storica per farlo.

Scritto da
Roberto Bertoni

Classe 1990, di Roma. Giornalista free lance, scrittore e poeta, collabora da anni con diverse testate, cartacee e on-line, ed è autore di saggi, racconti, romanzi, raccolte di poesie nonché di quattro libri-intervista.

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