Scritto da Giacomo Bottos
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Il diritto di ribellarsi a un potere autoritario, storicamente parte della cultura liberale e democratica, si è declinato nel tempo in diverse forme di azione e di rivendicazione. L’espansione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha aggiunto nuove dimensioni alla rivolta: da un lato opportunità inedite di organizzazione e risonanza, dall’altro anche nuovi strumenti di repressione per le autocrazie. Quali risorse potrebbero sostenere la difesa delle libertà, anche digitali, dei cittadini? Affrontiamo questi temi con Gabriele Giacomini, a partire dal suo ultimo libro The Arduous Road to Revolution. Resisting Authoritarian Regimes in the Digital Communication Age, edito nel 2022 da Mimesis International. Gabriele Giacomini è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale dell’Università di Udine e fellow presso The Center for Advanced Studies of Southeastern Europe della University of Rijeka.
Il tema del diritto alla resistenza e alla ribellione è una questione classica della teoria politica, ma declinarlo all’epoca delle tecnologie digitali pone questioni nuove. Per iniziare, è ancora utile rifarsi al paradigma lockiano dell’“appello al Cielo”?
Gabriele Giacomini: C’è grande confusione nell’opinione pubblica su che cosa significhi “liberale”. Oggi, in Italia, quando si parla di “liberalismo”, in genere si intende una posizione di centro non sovranista. Ma ciò è riduttivo, e in parte fuorviante. In realtà, il liberalismo nel suo senso classico (e, a mio parere, “eterno”) denota principi e procedure che sono alla base della nostra democrazia, fra cui ad esempio il costituzionalismo, l’arte della separazione dei poteri, il primato dei diritti fondamentali, lo stato di diritto. In questa ottica, si potrebbe dire che oggi gran parte dell’arco parlamentare è liberale nel senso classico, e che qualche esponente politico, o qualche partito, non lo sono più nel momento in cui attaccano l’indipendenza della magistratura, oppure comprimono i diritti di alcune minoranze, o ancora agiscono fuori delle procedure definite dalla Costituzione. Tentazioni che possono essere presenti nell’animo umano, che però vengono contenute da una cultura politica e da un sistema istituzionale che, pur se in trasformazione, permangono nei loro tratti essenziali. In questo quadro, Locke è uno dei padri del nostro sistema politico, che oltre ad essere democratico è anche liberale. Egli sosteneva che, se uno Stato abusa dei suoi cittadini, questi hanno tutto il diritto di ribellarsi. Alcuni (pochi) diritti, come la sicurezza della propria vita, o le libertà fondamentali, sono infatti più importanti dello Stato. I diritti di base giustificano lo Stato nella misura in cui – e fino a quando – quest’ultimo li difende e li persegue. Quando questo non accade più, e si verificano derive tiranniche, i cittadini possono ribellarsi legittimamente. Quando non c’è alcun tribunale sulla terra a cui rivolgersi per fare valere i propri diritti, bisogna “appellarsi al Cielo” e organizzare una rivoluzione che rimuova gli autocrati. Oggi le ICT possono aiutare le prime fasi della rivolta contro un regime autoritario. Tuttavia, allo stesso tempo, sembrano anche offrire agli autocrati minacciati strumenti di repressione molto potenti. Purtroppo, le tecnologie digitali possono essere utilizzate, con successo, per la sorveglianza, l’oppressione e la propaganda, la censura, la soppressione dei diritti. Ecco che è ancora utile rifarsi al paradigma liberale dell’“appello al Cielo”: nell’era digitale, il diritto alla ribellione è ancora praticabile? Detto altrimenti, la Resistenza, che ha contribuito ottant’anni fa a liberare l’Italia dal nazifascismo, oggi sarebbe più o meno efficace? I resistenti verrebbero scovati nei loro rifugi sulle montagne utilizzando l’IA applicata alle immagini satellitari? I fiancheggiatori verrebbero profilati – e magari arrestati preventivamente – attraverso lo studio psicografico dei loro comportamenti sui social? Ecco perché sostenevo che il liberalismo classico è in un certo senso “eterno”: in qualunque luogo e in qualsiasi tempo ci sia una difesa dei diritti fondamentali degli individui, oppure un tentativo di limitare un potere “troppo potente”, soffocante, allora il potenziale “rivoluzionario” del liberalismo classico si riattiva, irrompe con tutta la sua forza.
Quali sono alcuni degli elementi che possono fare da discrimine tra un tentativo di sollevazione e un reale mutamento di sistema?
Gabriele Giacomini: Uno dei problemi della teoria di Locke sta nella giustificazione alla ribellione. Il diritto alla vita, o quello alla libertà, possono essere interpretati in modi anche radicalmente diversi da ognuno di noi – lo si è visto nelle reazioni alle politiche contro il Covid-19. Non c’è un criterio “forte”, “esterno” o “obiettivo”. Tuttavia, si potrebbe rispondere in maniera “pragmatica”, sostenendo che è difficile che una ribellione non sia giustificabile se è ritenuta urgente e necessaria dalla larghissima parte della popolazione. Ad esempio, una vaccinazione obbligatoria, che aiuta a prevenire la diffusione di una pandemia, può essere sentita come un’imposizione intollerabile ma soltanto da alcuni individui, una piccola parte della popolazione. Oppure la libertà di non pagare le tasse può allettare molti cittadini, ma in maniera tutto sommato debole, non così forte da giustificare “rimedi estremi”. Nel caso dell’“appello al Cielo”, invece, stiamo parlando di offese gravissime da parte del governo e contro i propri cittadini: violenze diffuse della polizia, soppressione dei diritti fondamentali per lungo tempo, arbitrio assoluto dei governanti, abolizione delle organizzazioni politiche, nelle situazioni peggiori arresti di massa, esecuzioni, torture, eccetera. Per questo anche Locke si premura di precisare che l’evenienza dell’“appello al Cielo” è davvero eccezionale, straordinaria, potremmo dire che è “la carta della disperazione”, quando qualsiasi alternativa procedurale, formale, pacifica è impercorribile a causa della violenza e della chiusura del regime. Ciò è collegato al discrimine tra un tentativo di sollevazione, di ribellione locale, e un reale mutamento di sistema: il secondo si realizza quando gran parte della popolazione lo sostiene. A questo punto è utile precisare un punto fondamentale: l’utilizzo delle tecnologie, in realtà, non è l’unico fattore che può influenzare l’esito di una protesta popolare, e non è nemmeno il più importante. È centrale, invece, che le motivazioni della protesta spacchino la classe dirigente, e convincano parti rilevanti della polizia e delle forze armate. Solo una sollevazione ampia e trasversale può ambire a mutare il sistema.
Quale rapporto può sussistere tra rivendicazioni di stampo liberale e domande sociali nell’origine di una rivolta?
Gabriele Giacomini: Un altro punto di debolezza della teoria di Locke deriva dal fatto che è stata concepita a fine del Seicento. Passano i secoli e le teorie devono essere adattate alle mutate condizioni morali, culturali e sociali. Una delle conseguenze di questo elemento temporale è che Locke pensava soprattutto ai benestanti: secondo il filosofo inglese, erano loro i principali attori di un eventuale “appello al Cielo”. Oggi, invece, le sollevazioni riguardano tutte le classi sociali, e anzi sono tanto più rilevanti quanto più sono diffuse. Per questo, oltre a motivazioni liberali classiche – ad esempio, il diritto alla circolazione interessava nel Seicento soprattutto i mercanti –, oggigiorno si sommano motivazioni più “popolari”, legate ai diritti sociali. Le primavere arabe, ad esempio, sono state mosse sia da motivazioni “liberali” – l’obiettivo di rimuovere un autocrate dotato di poteri smisurati è strettamente collegato ai concetti di libertà, di divisione dei poteri, di stato di diritto –, sia da motivazioni “sociali”, come l’aumento non più sostenibile del costo della vita dei comuni cittadini, ad esempio causato da un aumento eccessivo del prezzo dei generi alimentari.
Venendo ora più specificamente al ruolo delle tecnologie digitali, rispetto all’immagine diffusa anni fa – secondo la quale questi strumenti avrebbero potuto facilitare grandemente l’emergere di nuovi movimenti sociali in opposizione a sistemi autoritari – il quadro appare oggi più problematico. Quali considerazioni si possono avanzare in proposito?
Gabriele Giacomini: I media digitali, con accesso libero e democratico, promuovono la diffusione delle idee e delle informazioni. In Occidente, dagli Indignados spagnoli a Occupy Wall Street, da Nuit Debout in Francia a Black Lives Matter, si ragiona su qual è il ruolo politico dell’attivismo nei social media, su come la partecipazione può essere valorizzata con piattaforme civiche, di informazione e coinvolgimento; si approfondisce la sapiente costruzione di contenuti multimediali, di post e di commenti online, di animazioni e meme. Tuttavia, si tratta di studi che considerano attività in situazioni politiche in cui le libertà fondamentali sono rispettate, nell’ambito di sistemi che, in sostanza, tollerano il dissenso. Il punto è che la situazione rischia di cambiare radicalmente quando i governi dominano le reti e le utilizzano a loro favore. Il problema è che, detto con uno slogan, Internet libero servirebbe soprattutto quando… non è libero. Com’è possibile fare mobilitazione in un regime autoritario, in cui i manifestanti sono presentati come ribelli, banditi, terroristi? In questa ottica, il problema non è tanto in che modo le proteste possono essere sostenute e potenziate dalle ICT in un contesto liberale e democratico, ma quali sono i mezzi e le risorse che gli attivisti potrebbero mobilitare per superare le (gravi) difficoltà organizzative di fronte a governi repressivi – e se questi mezzi e queste risorse possono essere sufficienti agli obiettivi di libertà e giustizia. Durante le rivoluzioni e sollevazioni “fallite” che si sono sviluppate recentemente in Paesi come Myanmar, Iran, Egitto, Hong Kong o Bielorussia, le comunicazioni digitali sono state ostacolate o addirittura disabilitate, per periodi più o meno lunghi. Si tratta di problemi molto attuali, che ci toccano molto più da vicino di quanto vorremmo. Recentemente, per “stringere la presa” sulla popolazione durante l’aggressione all’Ucraina, il governo russo ha agito chiudendo social occidentali come Instagram e aumentando le pene per i “disubbidienti” online – sono state introdotte pesanti pene detentive, fino a 15 anni di prigione, per chiunque pubblichi “fake news” sull’esercito. Secondo fonti esperte in cybersecurity, sembra che il governo russo si stia preparando a trasferire tutte le trasmissioni, le connessioni ai server e la gestione dei domini su una rete parallela, la intranet nazionale “Rucom”, per controllarla completamente. È possibile “appellarsi al Cielo” in questo contesto digitale? Come? Con quale ragionevole speranza di successo?
Quali indicazioni si possono trarre osservando l’evoluzione delle rivolte che hanno fatto uso di strumenti digitali, dalle prime esperienze negli anni Duemila fino ad oggi?
Gabriele Giacomini: I lettori si ricorderanno della “Rivoluzione verde”, chiamata anche “Twitter revolution”, la ribellione che si è verificata in Iran nel 2009, contro il regime dell’allora presidente Aḥmadīnizhād. Twitter e altri social media sono stati funzionali a comunicare notizie sulle evoluzioni politiche, “sostituendo” la stampa estera sul campo e nutrendo il supporto internazionale al movimento. Tuttavia, dopo la fiammata di protesta c’è stata una feroce contro-reazione del governo. I manifestanti hanno cercato di utilizzare Facebook per radunare i sostenitori, e il governo ha risposto semplicemente – ma efficacemente – bloccando l’accesso al social. Comunità online che si riuniscono sotto un unico URL sono facilmente smantellabili, organizzazioni che si affidano a nodi e strutture su Internet possono essere spezzate con facilità. Fra le politiche reattive c’è stata anche quella di ridurre la larghezza di banda di Internet, in modo tale da rendere impossibile l’accesso al Web di molte persone insieme. Inoltre, il regime ha realizzato un nuovo sistema di filtraggio pervasivo, il “National Filtering Intelligence Bank”. A ciò si sono sommate le politiche proattive, focalizzate nella diffusione di contenuti filogovernativi. A questo scopo è stata espansa la presenza online del corpo paramilitare dei Guardiani, con la creazione di 10.000 blog gestiti dai membri basīj (soprattutto donne e studenti). Qualche anno dopo è stato il momento delle Primavere arabe. In Egitto, ad esempio, la popolazione richiedeva modeste azioni di giustizia sociale, oltre che il limite di due mandati alla carica presidenziale (a fronte dei quasi trent’anni di ininterrotto potere di Mubarak). Anche in questo caso, il movimento rivoluzionario ha utilizzato Internet. Le e-mail, Facebook, Twitter, almeno in un primo periodo, hanno contribuito a trasformare uno sciopero generale in una delle proteste più significative nella storia egiziana. Il contrattacco del governo egiziano, tuttavia, ha realizzato quello che sembrava impossibile: dopo la mezzanotte del 28 gennaio, un Paese tecnologicamente avanzato, densamente cablato, con oltre 20 milioni di persone online è stato “staccato” da Internet. Il governo di Mubarak era talmente compromesso, e la protesta così estesa nella società, che il “kill switch” di Internet non è stato sufficiente. Tuttavia, con Al-Sisi la repressione è tornata, anche su Internet. Nel 2018 Al-Sisi ha firmato una nuova legge sulla “criminalità informatica”: i siti web possono essere bloccati e chiunque sia ritenuto colpevole di aver gestito o semplicemente visitato tali siti o di aver diffuso informazioni sulle forze di sicurezza può essere condannato a gravissime pene. In un opuscolo intitolato “Come protestare in maniera intelligente” è consigliato di “non usare Twitter o Facebook o altri siti web perché sono tutti monitorati dal Ministero dell’Interno”. Per diffondere informazioni è meglio usare la fotocopiatrice e abbandonare lo smartphone. Si suggerisce di usare le bombolette spray per oscurare la videosorveglianza. Altri casi ancora più recenti, come quello della Bielorussia, di Hong Kong o del Myanmar vedono emergere nuove tecniche informatiche, sia da parte dei manifestanti sia da parte dei governi, ma seguono simili dinamiche: a una primissima e rapida fase, in cui la protesta si infiamma anche attraverso l’uso delle ICT, segue una lunga fase di repressione da parte del regime, sempre attraverso le tecnologie digitali, prima netta e violenta, poi più “morbida” ma capillare. Sotto questa cappa, l’impressione è che i regimi se la cavino piuttosto bene.
Che dinamiche si possono instaurare tra l’uso delle tecnologie digitali da parte dei dimostranti e il loro uso da parte di chi detiene il potere statale?
Gabriele Giacomini: A questo proposito, propongo l’idea di “spirale della sofisticazione digitale”. Questo concetto può essere declinato in due sensi collegati fra loro. Il primo senso riguarda le dinamiche all’interno delle singole nazioni: alla sollevazione del popolo corrisponde una contro-reazione ancora più “impegnata” da parte dei regimi. Ad esempio, gli egiziani nel 2011 utilizzano i social per coordinarsi, semplicemente iscrivendovisi e accedendovi. Come reazione, sempre molto “semplicemente”, il regime stacca Internet per un periodo. Da quel primo momento, le pratiche si fanno più sofisticate. I cittadini utilizzano pratiche ibride, il regime attiva complessi meccanismi di filtraggio, propaganda eccetera. Tutto si fa via via più “raffinato”. Il secondo senso riguarda l’evoluzione storica. Ad esempio, le tecnologie utilizzate ad Hong Kong due anni fa sono più avanzate rispetto a quelle che si sono viste in Iran o in Egitto. I manifestanti hanno utilizzato app di crittografia, o che permettono di comunicare via bluetooth mettendo in rete gli smartphone. Ma anche la reazione del governo è stata più avanzata e organizzata. Insomma, a cicli di “innovazione rivoluzionaria” corrispondono reazioni di “repressione governativa aumentata dalle tecnologie”. Nella gran parte dei casi, il problema è che finora questa spirale rischia di far arenare le aspirazioni delle popolazioni. Se la rivoluzione non riesce a risolversi nelle prime fasi, poi rischia di muoversi in un ambiente ostile e sempre più vischioso.
In conclusione, alla luce dell’analisi di queste dinamiche, quali scenari vede per il futuro? Che cosa significa “innovazione liberale”?
Gabriele Giacomini: I falliti tentativi di “appello al Cielo” che si sono realizzati negli ultimi anni in Birmania, Iran, Egitto, Bielorussia e a Hong Kong gettano una luce sinistra sulle possibilità degli individui di ribellarsi efficacemente utilizzando i media digitali e le tecnologie della comunicazione. Una volta avviata la “spirale della sofisticazione digitale”, in cui alla sollevazione del popolo corrisponde una contro-reazione decisa da parte dei regimi, le legittime aspirazioni popolari rischiano di incagliarsi. Per questo motivo, dal punto di vista normativo, è urgente teorizzare e implementare una “innovazione liberale”, ovvero una architettura politica che possa favorire la valorizzazione degli elementi emancipatori dei media digitali. Secondo il liberalismo, il potere deve essere limitato, proteggendo i diritti dell’individuo dalle ingerenze. Ora, anche nell’era digitale, bisogna applicare una vecchia massima del liberalismo classico, innovandolo: i poteri “troppo potenti” vanno divisi. Per questo, bisognerebbe scomporre il “potere digitale”, ad esempio facendo in modo che le Big Tech non si fondano mai con l’autorità pubblica, che permanga sempre una certa distanza fra il potere economico e quello politico nella gestione delle ICT, che le autorità indipendenti aumentino il loro ruolo di sorveglianza, proteggendo l’autonomia dei cittadini. I diritti dovrebbero essere aggiornati, considerando non solo il mondo fisico, ma anche quello virtuale. Un diritto come quello alla privacy, ad esempio, permette di minimizzare la raccolta di dati che, potenzialmente, potrebbe essere utilizzata da un potere autoritario. A livello internazionale, le istituzioni sovranazionali dovrebbero proteggere un ordine ospitale per i diritti digitali dei popoli, sostenendoli anche tecnologicamente nelle loro legittime rivendicazioni. A livello nazionale il potere digitale, per non rischiare di essere concentrato nelle mani del governo, dovrebbe essere distribuito fra i diversi organi dello Stato, fra politica e tecnica, fra istituzioni e società civile. Infine, a livello individuale, i cittadini dovrebbero essere in grado di difendere la propria libertà utilizzando con consapevolezza i media digitali. Promuovere l’alfabetizzazione digitale non significa soltanto preparare i giovani al nuovo mondo del lavoro, significa soprattutto dare loro strumenti di libertà.