Scritto da Giovanni Tonella
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Il tema odierno della transizione ecologica richiama nel dibattito storico interno alla sinistra italiana la necessità di mettere in relazione la ricerca scientifica e i bisogni della società, da ridefinire e riorientare, dando alla politica una missione ed una responsabilità di indirizzo decisiva. Da un punto di vista storico questa sfida la possiamo considerare a partire da alcune riflessioni e tentativi. In particolare per questo si potrebbe richiamare l’analisi di Enrico Berlinguer sulla questione dell’austerità*. In un suo famoso discorso egli introdusse un tema e una parola, quello di austerità, che oggi è difficile da pronunciare e che è stata associata negli ultimi tempi esclusivamente alle politiche di controllo e diminuzione del deficit e del debito pubblico[1]. In particolare faremo riferimento alle Conclusioni al Convegno degli intellettuali del 15 gennaio del 1977, fatte al Teatro Eliseo a Roma[2]. Si tratta di un discorso che permette di cogliere una occasione per riflettere su molte questioni, sia di metodo, che di proposta politica. Evidentemente l’intento non è tanto di ricostruzione storiografica, del contesto storico, né vuole essere una valutazione su quanto il PCI riuscì a realizzare a partire da quelle conclusioni (è probabile che una attenta analisi storica individui un insuccesso o un risultato al di sotto delle attese da parte del PCI nell’elaborazione di quel progetto che doveva essere costruito con quella tappa di incontro con gli intellettuali). Il proposito, volendo in qualche modo essere una storia non antiquaria, ma critica, è piuttosto di estrarre degli elementi ancora vitali e attuali, senza eludere questioni problematiche. Vi sono delle ragioni di fondo del discorso di Berlinguer, una legata alla funzione e allo statuto di un partito, l’altra in relazione al metodo di costruzione di una politica pubblica, e un’altra ancora, sempre più attuale, legata alla questione che oggi possiamo definire ecologica.
È utile allora come metodo analizzare il discorso, per individuare dei passaggi che appunto possono dare un contributo significativo per il presente. L’esordio del discorso esprime la soddisfazione per il successo del Convegno: il passaggio che colpisce è quello rivolto alla partecipazione non solo di intellettuali comunisti ma anche di altri intellettuali, e soprattutto perché è stato accolto il proposito di «mettersi al lavoro … per un progetto di rinnovamento della società italiana» (p. 21). Berlinguer si sofferma su questo “mettersi al lavoro”, spiegando che poi sarebbe ritornato sul significato di questa espressione. E infatti il primo § del discorso sviluppa questa espressione, un paragrafo che si intitola «Il metodo di lavoro dei comunisti non è quello del centro-sinistra». Il tema del Convegno era «quale può essere l’intervento della cultura nell’elaborazione di un progetto di rinnovamento della società italiana» (p. 22). È interessante quindi sottolineare due questioni che possiamo ritenere attuali: a) la logica del mettersi al lavoro, sembra banale, ma in realtà implica un orizzonte di senso specifico, cioè quello dell’attività politica come una attività di lavoro e il lavoro implica la necessità di un suo qualificarsi, in termini di obiettivi e di risultati da raggiungere e valutare, ma soprattutto in termini di coordinamento di attori e risorse di vario tipo (tecniche, finanziarie, economiche, politiche, giuridiche ecc.); b) la logica di un rapporto con la cultura: la politica ha che fare con la cultura, e deve avere un rapporto con essa. Si tratta di un tema classico già affrontato da Togliatti e con chiave diversa, liberale, da Bobbio, in un confronto negli anni Cinquanta[3]. Berlinguer alla fine del Discorso afferma che i comunisti italiani sono per l’autonomia e la libera funzione della cultura, e quindi perché essa non obbedisca, bensì dispieghi se stessa «in pienezza di libertà e di spirito critico» (p. 42). Insomma si deve fare di tutto per consentire «il positivo e libero sviluppo della ricerca, della iniziativa e del dibattito culturale» (p. 43). Una impostazione non certo classificabile come simile al governo dei custodi e quindi profondamente distante dall’impostazione presente nel socialismo reale, sebbene forse non del tutto aliena da una impostazione per cui il partito è letto come un momento direttivo organico ed egemonico proprio perché è in grado di mediare l’intero della società, ma questo movimento è paradossalmente tale solo se tiene dentro di sé le contraddizioni e il lavoro della libertà culturale. Viceversa, in realtà, annullando il momento dell’intero non si può veramente dirigere. Questa attenzione alla serietà del problema della direzione politica ritorna all’inizio del Discorso, sotto forma di presa di distanza critica dal metodo del centrosinistra. Qual è la critica? La critica è quella di operare una progettazione «fatta unicamente a tavolino» (p. 23). Si tratta invece di operare tramite una progettazione che avvenga mediante una verifica di massa, un progetto di trasformazione discusso «fra la gente, con la gente» (p. 23). Infatti «per trasformare la nostra società si tratta … non di applicare dottrine o schemi, non di copiare modelli altrui già esistenti, ma di percorrere vie non ancora esplorate, e cioè di di inventare qualcosa di nuovo che stia, però, sotto la pelle della storia, che sia, cioè, maturo, necessario, e quindi possibile, è naturale che il primo momento di questo nostro lavoro sia stato e debba essere l’incontro con le forze che sono o dovrebbero essere creative per definizione, con le forze degli intellettuali, della cultura» (p. 23). Questo passo è molto denso e significativo e si presta ad una molteplicità di letture. Innanzitutto indica una progettazione politica che implica un rapporto iniziale con il mondo della cultura, degli intellettuali, che diventa il primo momento della progettazione, ciò significa che poi vi è un ulteriore momento che può essere immaginato in rapporto alle altre parti della società. Da questo punto di vista colpisce la logica del lavoro collettivo, e colpisce anche una affinità con tutte quelle impostazioni (deliberative) della democrazia che noi ritroviamo in nuce nel pensiero di Dewey[4] e nel pensiero di un politologo come Dahl, in un testo come La democrazia e i suoi critici[5], oppure in quei teorici che hanno teorizzato processi decisionali e valutativi deliberativi (ad esempio che mettono insieme tecnici, politici e cittadini comuni)[6]. Tuttavia emerge chiaramente anche il riferimento alla Vorrede di Per la critica dell’economia politica del 1859 quando Marx scrive: «Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione»[7]. Si tratta quindi di individuare ciò che già l’intelligenza umana e la cultura umana può mettere in campo come storicamente possibile.
Berlinguer prosegue mettendo in rilievo il fatto che gli intellettuali rappresentano la parte riflessiva che deve essere messa in relazione alla parte spontanea del popolo, in questo senso serve strutturare uno scambio reciproco, ma anche evidentemente un meccanismo educativo, pedagogico, tanto è vero che l’intellettuale rappresenta il bagaglio cumulativo della cultura. Sono gli strati «che sono portatori di pensiero in quanto esprimono l’accumulazione e lo sviluppo della cultura e della civiltà» (p. 24). Per Berlinguer si tratta di progettare una sintesi tra spontaneità e riflessione – un altro tema assolutamente attuale. Ma poi si tratta anche di costruire un percorso di articolazione delle cerchie di tale sintesi, che Berlinguer definisce come disaggregazione del lavoro. Anche in questo caso è evidente sia l’aspetto prolettico della democrazia deliberativa, ma anche le radici in meccanismi legati ad una democrazia partecipativa dei consigli di fabbrica e delle conferenze. Si può anche far riferimento alla concezione di partito che Gramsci aveva proposto nei Quaderni, concezione per cui il partito non può prescindere da una articolazione a tre livelli: il livello degli intellettuali dirigenti, il livello intermedio dei quadri, come elemento di collegamento, e il livello “passivo” della massa[8]. Tuttavia l’impostazione che propone Berlinguer sembra implicare in maniera esplicita anche una circolarità dei tre livelli e quindi una impostazione comunicativa bidirezionale.
Questi aspetti sono definibili come metodologici, e permangono con una loro interessante attualità, specialmente se riferiti alle riflessioni sulle forme deliberative (e/o partecipative) della democrazia e su quelle definite di appropriazione, se seguiamo la lezione di Rosanvallon[9]. Tuttavia vi è una differenza, il portatore del progetto è un partito, non una istituzione, e non è nemmeno una organizzazione che nasce dal basso, da un territorio specifico, o da un contesto urbano (viene qui in mente l’esperienza delle organizzazioni di comunità di Alinsky[10], oppure la riflessione contemporanea sulla cittadinanza attiva[11]). In questo senso si può anche affermare che vi sia una idea di partito che vuole utilizzare le risorse riflessive e spontanee della società per costruire una progettazione. Il tema metodologico non è banale, perché rischia anche di operare un corto circuito con l’idea di partito, se ad esempio consideriamo la differenza tra partito responsabile e partito costituzionale, come la determina Lowy, ossia la differenza tra un partito che ha un progetto, una identità, un programma ed uno invece che non fa che aggregare i bisogni sociali, le istanze politiche, o meglio ancora la proposta politica dal basso, senza nessuna mediazione dall’alto[12]. Questa distinzione può anche incrociare la dinamica di come il partito, nell’ambito della comunicazione, intende comunicare e utilizzare il flusso comunicativo e la relazione con il destinatario: se assumiamo ad esempio la chiave di lettura del marketing politico è chiaro che ci possono essere due tipologie di partito, quello che utilizza il marketing per promuovere il proprio progetto o programma oppure quello che definisce il proprio progetto a seconda del mercato elettorale, un po’ analogamente alla parabola del marketing contemporaneo[13]. È del tutto evidente che se consideriamo il programma del PCI di Berlinguer il progetto, sebbene aperto ed in parte indeterminato, c’è ed è il socialismo, la via italiana e nazionale al socialismo, che assume però come irrinunciabile la democrazia e il pluralismo politico. Su questo punto sarebbe interessante operare anche un confronto con la famosa relazione al convegno programmatico del 1982 del PSI di Claudio Martelli sull’alleanza tra bisogni e meriti[14]. Sia il discorso di Berlinguer che appunto la relazione di Martelli ci danno indicazioni sulla funzione di un partito. Appare sfidante da questo punto di vista la critica che proviene dalla filosofia politica di Giuseppe Duso che su “Filosofia politica”, con un saggio Parti o partiti? Sul partito politico nella democrazia rappresentativa, ha proposto una via per ridare uno slancio al partito come forma politica, per non ridurlo alla morsa dell’unità della rappresentanza politica, ma soprattutto per riconnetterlo al mondo dell’intelligenza sociale e sottrarlo alla dinamica della rappresentanza moderna[15] o puramente retorica (pare che qui si possa persino rinvenire la eco della dialettica di Platone riguardo al politico[16]). Il discorso in oggetto di Berlinguer, dopo gli aspetti metodologici, che vogliono appunto significare una differenza con il centrosinistra, che potremmo definire con il termine di riformismo dall’alto, verte sul tema specifico, appunto quello dell’austerità.
Andiamo a considerare il punto di partenza di Berlinguer. Per il segretario del PCI il punto di partenza, come un dato inteso come premessa è la politica di austerità, ove si tratta di qualificare questa austerità. La premessa è quindi l’orizzonte della politica dell’austerità. Berlinguer propone due interpretazioni, quella data dai gruppi dominanti, ossia quella intesa come politica economica per superare una difficoltà temporanea per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali, e quella intesa come politica di trasformazione di un sistema che è entrato in crisi ed è caratterizzato da spreco, sperpero, esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenato, dal consumismo esasperato e dissennato. È chiaro quindi che va contestualizzata la visione di Berlinguer. Egli intende la crisi degli anni Settanta come una crisi del sistema capitalistico, e vede nell’austerità una opportunità rivoluzionaria. E cerca quindi di definirla anche in termini positivi: l’austerità deve significare rigore, efficienza, serietà, e – passaggio centrale nella visione di Berlinguer – giustizia. Ma queste caratteristiche non sono esaustive, l’orizzonte è ulteriormente specificato: il movimento operaio deve usare l’austerità per superare la società capitalistica, intesa come società arretrata, ingiusta, squilibrata e dissipatrice di risorse. L’austerità diventa per Berlinguer una (la?) via al socialismo, ma anche in un passaggio successivo una necessità imprescindibile. Rimane però l’ambiguità politica dell’austerità: insomma o strumento di perpetuazione delle ingiustizie sociali o strumento di liberazione.
Il Discorso di Berlinguer a questo punto passa a considerazioni di natura mondiale, oggi diremmo globale: affronta cioè il rapporto tra paesi capitalistici e il moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. Questo spiega la necessità dell’austerità: l’ingresso sulla scena mondiale di popoli e paesi ex coloniali. Si tratta dei due terzi dell’umanità che non può e non potrà più accettare la fame, la miseria, l’emarginazione e l’inferiorità. Si tratta di un moto inarrestabile che, al di là delle alleanze e delle cooptazioni dei gruppi dominanti occidentali di parte dei gruppi dirigenti dei paesi in oggetto, è da considerarsi strutturale. Questo moto non può che far esplodere le contraddizioni di una intera fase dello sviluppo capitalistico postbellico. Un moto che non può che mettere in difficoltà un paese che tra quelli occidentali appare tra i più deboli come l’Italia (l’analisi differenziata della condizione dell’Italia in rapporto alla sua centralità o perifericità nel contesto dello sviluppo capitalistico è un tratto proprio di un’analisi di matrice gramsciana).
Posta questa premessa di analisi, Berlinguer affronta due nodi fondamentali per avviare una trasformazione rivoluzionaria della società. In questo passaggio del discorso vi è l’introduzione di un tema, utilizzando un richiamo al Manifesto dei comunisti di Marx. Anche qui la dinamica pone due possibilità: uno scenario competitivo oppure uno di trasformazione complessiva, ove il primo può condurre «alla rovina comune delle classi in lotta» (p. 30)[17]. Potremmo dire che Berlinguer ha in testa uno schema di analisi per cui la competizione internazionale può portare alla comune disfatta (schema da inserire nel contesto della guerra fredda, ma che può estendersi ad un mondo di competizione nazionalistica o di capitalismo politico in lotta[18], o di opposti imperialismi in lotta). Si tratta invece di evitare questo scenario.
La premessa per evitare la comune rovina delle classi in lotta è la cooperazione internazionale con il terzo mondo, basata sulla giustizia. Una premessa molto complicata che per realizzarsi ha bisogno di un passaggio, di quel passaggio che è rappresentato in realtà dall’austerità: «abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario» (p. 30). Questa premessa diventa reale attraverso una politica di austerità che va intesa come una politica che instaura giustizia, efficienza, ordine e una moralità nuova. Berlinguer precisa che questo non significa però una politica di livellamento verso l’indigenza. Questo schema di analisi restituisce la sfida che oggi noi definiamo transizione ecologica e sociale, ma ci interroga anche sugli scenari geopolitici di competizione che sembrano rafforzarsi.
Berlinguer entra nel merito della proposta politica dell’austerità contestualizzando il percorso. Per noi sarà importante tentare una attualizzazione, ma rimanendo all’epoca i rilievi che il segretario del PCI avanza alla politica messa in atto, – ricordiamo che siamo nella fase della cosiddetta solidarietà nazionale –, sono legati alla richiesta di una maggiore lotta agli sprechi sia diretti che indiretti che di una politica di risparmio. È interessante che l’idea degli sprechi indiretti derivi da imprevidenze che vengono specialmente avvertite per quanto riguarda errori compiuti nella politica del suolo, del territorio, dell’ambiente o «dalla trascuratezza nel campo della ricerca» (p. 33). Questi ultimi accenni si presentano come molto attuali e ancora irrisolti. In generale però Berlinguer, in una logica classista, imputa alla borghesia una incapacità di guida, che dovrebbe essere invece assunta dal movimento operaio, sebbene quest’ultimo debba superare atteggiamenti fuorvianti di subalternità o di estremismo[19]. È chiaro che la logica dei sacrifici e dei risparmi e della lotta allo spreco è una logica che per Berlinguer non è meramente legata a questioni di bilancio, ma intimamente connessa ad una politica che dovrebbe indirizzare le risorse secondo criteri di giustizia ed efficienza, e che dovrebbe intervenire sulla natura e la quantità dei bisogni e dei consumi sociali (a questo livello si può anche rintracciare una eco della critica francofortese alla società industriale occidentale, e non solo).
Il Discorso di Berlinguer poi si articola in ulteriori paragrafi di specificazione, connessi alla fase congiunturale di fine anni Settanta: da un lato sottolinea che non è necessario essere al governo per indirizzare verso questa politica dell’austerità, ma si può intervenire anche con una azione sociale e comunque con una iniziativa che introduca nella società criteri propri dell’ideale socialista, specificato sia in un superamento delle esigenze materiali artificiosamente indotte, sia ponendo l’obiettivo di un controllo sociale, dei lavoratori e dei cittadini, dell’economia e dello Stato; dall’altro, in termini di alleanza politico-culturale, evidenzia che una logica di fuoriuscita dal capitalismo non è solo aspirazione di masse comuniste e socialiste, ma anche di settori di ispirazione cattolica. Qui emerge il significato intimo del compromesso storico secondo Enrico Berlinguer, o comunque uno dei significati potenziali della politica del compromesso storico (chiaramente differente da quello della terza fase di Aldo Moro, e molto legato con il programma togliattiano). La politica dell’austerità viene nuovamente identificata come una occasione per superare la crisi, e diretta «contro gli sprechi, i privilegi, i parassitismi, la dissipazione delle risorse» (p. 39). Peraltro il segretario del PCI sottolinea che «nelle società decadenti, sono andati, vanno insieme e imperano le ingiustizie e lo scialo, così nelle società in ascesa vanno insieme la giustizia e la parsimonia» (p. 39). E tuttavia una politica dell’austerità di successo – ecco che ritorna il tema degli intellettuali – non può che implicare una «crescita del sapere e dell’amore per il sapere» e quindi un rinnovamento degli strumenti del sapere (p. 41).
Partendo da quanto individuato nell’analisi, è possibile arrivare ad alcune conclusioni. Indubbiamente il Discorso di Berlinguer va certamente collocato all’interno del suo contesto storico, delle contraddizioni della politica ed anche alla sua dimensione di indirizzo, a tratti schematica e dottrinaria, e tuttavia ci induce, come stimolo, a considerare comunque alcuni aspetti che sono ancora all’ordine del giorno, in particolare se oggi consideriamo la rilevanza della qualità della democrazia e della questione ecologica[20]. Insomma vi è un valore prolettico e anticipatore rispetto ad un dibattito che oggi, anche a partire dall’Enciclica di Francesco Laudato sì[21], sta diventando assolutamente improcrastinabile e che può essere un terreno di azione comune dei popoli, in termini di una politica della cooperazione, dell’equità e di un ambientalismo critico e scientifico, con una forte e determinante centralità della scienza quale leva fondamentale di risoluzione dei problemi comuni[22]. Peraltro il legame tra giustizia ecologica e giustizia sociale che viene posto da Francesco in Laudato sì, è sviluppato ulteriormente nella recente Fratelli Tutti. Si pone il nesso giustizia, tutela ambientale, direzione politica consapevole dell’umanità (socialismo) grazie alla scienza per evitare la sua estinzione, in un quadro in cui l’egoismo e i conflitti sociali possono portare alla rovina comune. Un discorso politico che ha in sé una evidente tensione ideale e morale, come anche un corpo a corpo con la funzione-verità. Insomma siamo dentro un discorso politico molto diverso dalla bassa qualità democratica che oggi tante volte avvertiamo. Accanto quindi al tema dei contenuti legati all’efficienza e alla lotta allo spreco, alle ingiustizie e ad un ordine morale non regolato da un consumismo individualistico senza limiti, vi è anche una interessante indicazione di ordine metodologico, sul coinvolgimento della scienza e della cultura in rapporto alla parte meno riflessiva della società, e quindi sulla funzione di un partito politico, in una democrazia. È chiaro che qui si pone il problema di come intendere la libertà nel processo democratico. Un problema tutto aperto se sul lato dei fini e dei mezzi già si identificano degli indirizzi egemonici e giusti.
È chiaro anche che questo progetto sociale deve fare i conti con la dinamica dei poteri e degli imperialismi, come anche con la dinamica di una logica capitalistica che va indirizzata e imbrigliata (se non superata). Da questo punto di vista anche la letteratura contemporanea sulla geopolitica porta a superare la categoria del neoliberismo per introdurre quella dei capitalismi politici[23] e quindi di forme di economie miste (cioè non prive di una logica politica, statuale della difesa degli interessi nazionali), comunque in competizione. È evidente che sulla sfondo vi è sempre la comune rovina e quindi il problema di come evitarla, come non si può eludere la fondata critica che senza uno sviluppo e un certo tipo di crescita, magari qualitativa, l’orizzonte di una decrescita in realtà rischia di condurre nuovamente alla comune rovina e al conflitto.
Ad un livello nazionale, infine, il Discorso di Berlinguer ci riporta l’esortazione ad un contributo alto del popolo italiano nel concerto internazionale, ad un rigore e ad un senso del sacrificio, collettivo all’insegna dell’equità e della giustizia. Ebbene si può affermare che vi sia quindi nel Discorso di Berlinguer ancora una funzione dialettica vitale.
* Il testo origina da un contesto politico di ricordo di Enrico Berlinguer, in occasione dell’anniversario della sua morte.
[1] Per affrontare le caratteristiche politologiche del processo di formazione del bilancio e i frames teorici delle politiche di contenimento del debito in G. Tonella, Democrazia deliberativa e politica di bilancio. Terza trasformazione della democrazia, nuove forme di rappresentanza e politiche di bilancio, Cleup, Padova 2015, spec. pp. 109-135.
[2] Utilizziamo come testo di riferimento per operare l’analisi: E. Berlinguer, La via dell’austerità. Per un nuovo modello di sviluppo, Edizioni dell’Asino, Roma 2010, pp. 21-43.
[3] Cfr. P. Togliatti, La politica culturale, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 229-240 e 258-266; N. Bobbio, Politica e cultura, Einaudi, Torino 2005.
[4] Cfr. J. Dewey, Comunità e potere, La Nuova Italia, Firenze 1971.
[5] Cfr. R.A. Dahl, La democrazia e i suoi nemici, Editori Riuniti, Roma 1990.
[6] Cfr. ad esempio O. Renn, T. Webler, H. Rakel, P.C. Dienel, B. Johnson, Public Participation in Decision Making: A Three-step Procedure, «Policy Sciences», 1993, 26, 3, pp. 189-214. Su questi processi e strumenti rimando anche al mio G. Tonella, Politiche della partecipazione. Cleup, Padova 2012.
[7] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, edizioni Lotta Comunista, Milano 2009, p. 17.
[8] Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal Carcere, III, Einaudi, Torino 1975, pp. 1732-1735, spec. p. 1733.
[9] Si considerino i saggi di P. Rosanvallon, La politica nell’era della sfiducia, Città Aperta, Troina (En) 2009; id., La legittimità democratica, Rosenberg & Sellier, Torino, 2015; id. La società dell’uguaglianza, Castelvecchi, Roma 2013 id., Le Bon Gouvernement, Seuil, Parigi 2015.
[10] Cfr. S. Alinsky, Radicali, all’azione! Organizzare i senza-potere, a cura di A. Coppola e M. Diletti, Edizioni dell’asino, Roma 2020.
[11]Cfr. G. Moro, Cittadinanza attiva e qualità della democrazia, Carocci, Roma 2013.
[12] Cfr. T. Lowi, La scienza delle politiche, il Mulino, Bologna 1999.
[13] Cfr. M. Caciotto, Marketing politico. Come vincere le elezioni e governare, il Mulino, Bologna 2011.
[14] La relazione di Martelli è molto interessante – soprattutto quando insiste sull’alleanza tra meriti e bisogni -, tuttavia ha anche alcuni elementi problematici, che cerco di enumerare in sintesi: a) la critica al PCI mi appare caricaturale e sottovaluta l’impianto storicista e il metodo storico del PCI, nonché esattamente la proposta metodologica che nel Discorso del 1977 era stata avanzata; b) non vi è una mediazione consapevole tra aspetto normativo e descrittivo, o meglio, si accusa il PCI di astratto normativismo, rivendicando la scelta dell’empiria, ma poi ovviamente si introducono elementi normativi (che in parte furono peraltro clamorosamente disattesi dalla pratica politica del PSI). Per la relazione di Martelli, Per un’alleanza riformista fra il merito e il bisogno, pp. 82-89.
[15] Cfr. G. Duso, Parti o partiti? Sul partito politico nella democrazia rappresentativa, «Filosofia politica», 1, 2015, pp. 11-38.
[16] Si considerino i molteplici punti nei Dialoghi di Platone in cui il filosofo greco contrappone la filosofia alla sofistica, e la politica alla retorica. Peraltro la stessa filosofia platonica ha una dimensione (o una vocazione) fortemente politica.
[17] Cfr. K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, Mursia, Milano 1973, p. 21 (nella traduzione che utilizzo si scrive «o con la totale rovina delle classe in contesa»: «oder mit dem gemeinsamen Untergang der kämpfenden Klasse»).
[18] Cfr. come introduzione all’attuale stato di competizione fra USA e Cina: G. Allison, Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide, Fazi editore, Roma 2018.
[19] Interessante leggere nella relazione di Martelli un analogo schema argomentativo, non tanto riguardo alle classi, bensì alle posizioni politiche errate dell’opportunismo e del massimalismo. Interessante inoltre come Martelli individui, siamo nel 1982, comunque nell’esperienza della socialdemocrazia svedese il programma e l’azione più avanzata del socialismo.
[20] Cfr. in particolare le riflessioni centrali per ripensare oggi le coordinate della politica, anche in rapporto alla scienza, di B. Latour, Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000; id. Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018. Cfr. anche il recente saggio di T. Pievani, La terra dopo di noi, Roberto Koch editore, Roma 2019. Sulla questione ecologica si veda anche la riflessione metafisica di H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1979, trad. it., a cura di P.P. Portinaro, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990. Jonas critica sia la democrazia capitalistica, che l’allora alternativa presente del comunismo, come entrambi, per ragioni differenti, inadatti a rispondere all’emergenza ecologica; cfr. anche V. Hösle, Philosophie der ökologischen Krise, Beck, Monaco 1991, trad. it., Filosofia della crisi ecologica, Einaudi, Torino 1992, che fa un passaggio molto interessante sulla vocazione “nazional-socialista” dei paesi occidentali, che oggi riemerge nelle proposte politiche sovraniste; sullo sviluppo sostenibile, quale orizzonte intrascendibile dell’azione politica del prossimo futuro: E. Tiezzi-N. Marchettini, Che cos’è lo sviluppo sostenibile? Le basi scientifiche della sostenibilità e i guasti del pensiero unico, presentazione di C. Lejpert, Donzelli, Roma 1999; invece per una critica dello sviluppo sostenibile, si veda N. Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, Bollati Boringhieri, Torino 1982; id., Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile, a cura di M. Bonaiuti, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
[21] Cfr. Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato sì del Santo Padre Francesco sulla cura della casa comune, Tipografia Vaticana, Città del Vaticano, 2015. Nell’Enciclica di Papa Francesco si delinea un pensiero che implica l’abbandono della cultura del consumo e del dominio e l’accesso alla cultura della cura e della sobrietà. Serve infatti la consapevolezza religiosa in senso etimologico, cioè sentirsi intimamente uniti a tutto ciò che esiste, un tutto in cui il grido della terra è sempre più il grido degli ultimi, e il debito ecologico si lega all’ingiustizia sociale e all’incuria egoistica.
[22] Cfr. J.P. Fitoussi, E. Laurent, La nuova ecologia politica. Economia e sviluppo umano, Feltrinelli, Milano 2009.
[23] Facciamo qui riferimento ad A. Aresu, Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, La nave di Teseo, Milano 2020. Ma è utile anche fare riferimento, sull’analisi dei differenti capitalismi, con un significato diverso del “capitalismo politico”, a B. Milanović, Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro, Laterza, Roma-Bari 2020.