Recensione a: Gabriele Giacomini e Alex Buriani, Il governo delle piattaforme. I media digitali visti dagli italiani, Prefazione di Antonio A. Casilli, Meltemi, Milano 2022, pp. 300, 24 euro (scheda libro)
Scritto da Edoardo Greblo
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Nel corso della loro storia, le teorie e le pratiche della democrazia hanno costantemente cercato di colmare la distanza che separa il popolo sovrano e le istituzioni, la separazione tra ciò che il popolo sempre possiede, il potere sovrano, e ciò che fanno i rappresentanti, che esercitano le funzioni dello Stato. Una distanza che può diventare anche molto ampia, dal momento che la mediazione rappresentativa rischia costantemente, per sua stessa natura, di perdere il contatto con le esigenze e le istanze in nome delle quali dà applicazione ed esecuzione ai programmi statuiti. La soluzione a questo problema sembra oggi a portata di mano e ha un nome: disintermediazione. Non c’è più bisogno – affermano in molti – di mediatori formali (partiti, parlamentari, sindacati) né di mediatori informali (intellettuali, giornalisti, opinion maker). Oggi chiunque può informarsi e agire in prima persona grazie a Internet, i social, gli smartphone. Si tratta di una convinzione diffusa quanto illusoria e rispetto alla quale il libro di Giacomini e Buriani (Il governo delle piattaforme, Meltemi) rappresenta un necessario e salutare antidoto.
Nel primo dei tre capitoli che costituiscono il libro e il cui titolo è già indicativo della prospettiva in cui si muovono gli autori (Il mondo nuovo. Sfide della neointermediazione), vengono messe in luce le molte ambiguità che circondano il concetto. Con disintermediazione, affermano Giacomini e Buriani, si intende sia la capacità dei politici di entrare in diretto contatto con i cittadini, sia quella dei cittadini di far valere le loro istanze, opinioni e punti di vista presso i loro rappresentanti senza passare per il filtro delle forme tradizionali di mediazione. Questo genere di rapporto “diretto” può essere praticato grazie all’avvento dei media digitali, come i siti Internet, i blog, ma soprattutto attraverso il Web 2.0 e i social network. Smartphone e social media come Twitter, Facebook, YouTube aggirano il filtro rappresentato dalle mediazioni politiche convenzionali e creano l’illusione di un rapporto di comunicazione diretta tra i politici e i loro follower. In particolare, alimentano la convinzione che questi ultimi possano così trovare il modo per condizionare le scelte dei loro interlocutori e acquisire una qualche forma di influenza sulla vita pubblica.
Ma si tratta, appunto, come Giacomini e Buriani spiegano con dovizia di argomenti, di un’illusione. La cosiddetta disintermediazione non è altro che una diversa forma di mediazione, esercitata non più dalle strutture formali e informali tradizionali, ma dalle grandi piattaforme digitali (le GAFAM: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft). Per questo gli autori parlano di «dis/neointermediazione», dal momento che gli utenti operano in un ambiente, l’ecosistema digitale, le cui architetture operano in modo da filtrare, regolare e organizzare le relazioni tra gli individui, i contenuti e i servizi. Al punto da modellare e predire opinioni, preferenze, giudizi e comportamenti sulla base di una imponente massa di dati, raccolti mediante una “pesca a strascico” resa intelligibile e funzionale grazie ai più sofisticati meccanismi algoritmici, in particolare l’analisi dei Big Data, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale e il metodo psicografico, ai quali gli autori dedicano pagine illuminanti.
Queste osservazioni non portano però Giacomini e Buriani a prefigurare uno scenario disfattista o neoluddista. Tutt’altro, e infatti osservano che le tecnologie della comunicazione hanno storicamente favorito la circolazione delle opinioni e delle idee, quindi la democrazia e la società aperta. Lo stesso può avvenire con lo sviluppo delle tecnologie digitali, che sembrerebbero avverare il detto attribuito ad Abraham Lincoln secondo cui «potete ingannare tutti per qualche tempo e alcuni per tutto il tempo, ma non potete ingannare tutti per tutto il tempo». La quantità di fonti informative disponibili in rete, unita a una crescente facilità per gli individui di esprimere la loro voce e di entrare in relazione con altri individui sopperendo ai vincoli imposti dalle distanze e dai costi dell’incontro fisico, agevola il pluralismo delle idee e delle opinioni di cui si nutre una sfera pubblica non manipolata, e quindi la stessa democrazia. Ma questi vantaggi, tuttavia, non portano Giacomini e Buriani a escludere che i progressi nel campo dell’accessibilità e della pluralità delle informazioni resi possibili dalle piattaforme presentino alcuni aspetti problematici, legati precisamente alle specificità dell’ambiente digitale e alle architetture adottate dalle GAFAM.
Per esempio, gli autori rilevano come le reti sociali in cui le persone sono inserite tendano ad accentuare il fenomeno dell’«omofilia», ovvero della tendenza a informarsi e a condividere messaggi nell’ambito di gruppi di riferimento piuttosto omogenei. Si tratta del fenomeno delle echo chambers, che si creano perché ciascuno di noi, quando effettua le proprie ricerche, riceve aggiornamenti filtrati dalle proprie abitudini, dai propri acquisti, dalle proprie curiosità, e non da un condiviso rilievo sociale. Gli algoritmi delle piattaforme ai quali gli utenti fanno affidamento per ricevere informazioni, infatti, dipendono da una preselezione dei contenuti, condotta attraverso operazioni continue e pervasive di filtraggio che finiscono per confermare le convinzioni di partenza ed escludere idee, voci e opinioni dissenzienti o alternative. L’idea di poter prescindere dalle mediazioni delle agenzie di potere tradizionale, che sembra così liberatoria perché dà l’impressione di poter avere un contatto diretto col mondo, il reale, la verità, le persone, si rivela così un’illusione. Lo stesso discorso si può estendere alle fake news, che sono sempre esistite ma la cui diffusione “virale”, com’è il caso di dire, è favorita proprio dall’illusione della disintermediazione, nel senso che là dove non esistono fatti sociali «istituzionali» ci si affida ai fatti sociali «situati», la cui verità dipende dalla comune condivisione all’interno di una comunità online.
Preso atto che la disintermediazione è in realtà una forma di neointermediazione, quali sono le opinioni degli italiani sul ruolo, sia quello effettivo sia quello desiderato, delle piattaforme? Nel capitolo secondo del libro, Le piattaforme digitali viste dagli italiani. I risultati dell’indagine, gli autori riassumono e commentano i risultati di un’indagine demoscopica realizzata dall’Istituto Ixè di Trieste e dall’Università di Udine. Riassumere nello spazio di una recensione l’enorme mole di dati presenti nel libro e illustrati mediante decine di grafici e tabelle non è ovviamente possibile. È però possibile sintetizzare le conclusioni a cui arrivano gli autori, che mettono in luce l’atteggiamento ambivalente degli italiani nei confronti dell’Internet delle piattaforme. L’indagine si concentra su diversi aspetti, dalla percezione circa la sicurezza dei dati online al giudizio sulle recenti novità normative riguardo alla loro protezione, dall’approccio che i cittadini si aspettano dal legislatore e dai poteri pubblici al “turismo fiscale” praticato dalle piattaforme, dal problema della capacità delle fake news di ridurre la qualità dell’informazione e della sfera pubblica al tema dei diritti digitali e, infine, alla questione del rapporto tra la politica e le tecnologie digitali.
A emergere è una sorta di disallineamento tra i fatti e le opinioni, tra le situazioni reali e la loro percezione soggettiva. Gli italiani, cioè, si rivelano disponibili a un uso massiccio e frequente dei social, ma nutrono poca fiducia nei confronti delle informazioni e dei contenuti che vi trovano; riconoscono l’importanza riguardo alla protezione dei dati personali online, ma non dedicano particolare attenzione alla privacy policy delle piattaforme; ritengono che il pluralismo delle opinioni sia importante, ma si rinchiudono nelle filter bubbles; dichiarano di credere nella concorrenza, ma si affidano a un solo motore di ricerca; pensano che le multinazionali digitali debbano pagare le tasse nel Paese in cui erogano i servizi, ma ne incrementano a dismisura i profitti proprio con la loro attività.
Tutte queste divergenze segnalano la presenza, sottolineano gli autori, di alcuni «problemi scottanti», più o meno evidenti, più o meno dibattuti nella sfera pubblica e nella comunità scientifica, che andrebbero affrontati in vista degli opportuni rimedi. A questi problemi è dedicato il terzo capitolo del libro, il cui titolo recita, appunto, Riformare Internet. Problemi scottanti e possibili rimedi. Quali sono, anzitutto, le principali questioni che investono le piattaforme digitali? Secondo Giacomini e Buriani, sono fondamentalmente tre: il problema della protezione dei dati personali, del gigantismo dei neointermediari e della qualità dell’informazione online. E tutti e tre richiedono l’avvio di una terza epoca della storia delle tecnologie digitali e di Internet, segnata dal superamento del laissez faire dei decenni recenti che ha permesso la concentrazione del business e dell’intermediazione in una oligarchia di compagnie digitali.
La prospettiva suggerita nelle conclusioni del libro propone una condizione pubblico-privata, caratterizzata da un maggiore equilibrio tra i legittimi interessi delle piattaforme e gli altrettanto legittimi interessi di salvaguardia dei principi liberali e democratici. Una condizione di equilibrio intercettata dall’indagine demoscopica condotta sugli italiani, che segnala l’esigenza di sostenere il pluralismo e la qualità dell’informazione, una maggiore difesa dei dati personali, una più incisiva tutela della concorrenza, un maggiore interventismo delle strutture pubbliche. Come sottolineano gli autori, molto del futuro circa il governo delle piattaforme dipenderà dalla capacità dei cittadini di tradurre atteggiamenti e preferenze in politica effettiva. Non si tratta di una questione da poco. L’esistenza di una sfera pubblica mai totalmente disciplinabile dai poteri che governano la società non è qualcosa a cui sia possibile, in una democrazia liberale e pluralistica, rinunciare, dal momento che nessuna democrazia può fare a meno della necessità d’integrare la formazione parlamentare dell’opinione e della volontà con una formazione informale dell’opinione aperta a tutti i cittadini. Le decisioni politiche che passano attraverso la rappresentanza possono garantire la paritaria partecipazione di tutti gli interessati soltanto a patto di restare permeabili, sensibili e ricettive rispetto a stimoli, temi, contributi, informazioni e ragioni loro derivanti da una sfera pubblica non condizionata dai poteri economici e politici. Per questo è necessario evitare che quel bene collettivo che è Internet diventi ostaggio di ristrette oligarchie economiche oppure si trasformi in una sorta di terra di nessuno nella quale sono liberi di proliferare complottisti, creatori di fake news e troll. Ne va, come ricordano opportunamente Giacomini e Buriani, della qualità della nostra democrazia.