Recensione a: Marco Aime e Andrea de Georgio, Il grande gioco del Sahel. Dalle carovane di sale ai Boeing di cocaina, Bollati Boringhieri, Torino 2021, pp. 160, 18 euro (scheda libro)
Scritto da Lorenzo Pedretti
4 minuti di lettura
Benché il nome del Sahel sia generalmente noto, pochi sanno definire con precisione le caratteristiche di quest’area del mondo e, nonostante la sua importanza geopolitica sia aumentata significativamente nell’ultimo decennio, di rado politica e media vi hanno prestato la necessaria attenzione. Il libro di Marco Aime e Andrea de Georgio fornisce un importante contributo all’obiettivo di colmare questa lacuna.
Con una lunghezza di 8.500 chilometri e una superficie di 6 milioni di chilometri quadrati, il Sahel copre un’ampia porzione di territorio africano, attraversando ben dodici Stati: Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan ed Eritrea. Si tratta di una zona semiarida compresa tra il deserto del Sahara a nord e la savana tropicale a sud. È da qui che, a partire dall’anno Mille, la cultura arabo-islamica entrò nell’Africa subsahariana, collegandola al Mediterraneo, al Medio oriente e all’Asia centrale attraverso una fitta rete di scambi commerciali. Con lo sviluppo della navigazione oceanica trasportare merci via terra si trasformò in un’impresa sempre meno redditizia, e il Sahel finì per diventare una regione marginale in un mondo via via più globalizzato. Tra i principali lasciti della colonizzazione europea occorre ricordare l’imposizione di monocolture destinate all’esportazione, che condusse allo scardinamento di molte tradizioni locali e all’impoverimento del suolo. A peggiorare ulteriormente le cose furono il rapido aumento tanto dell’estensione del deserto quanto delle temperature medie in tutto l’arco del Novecento, e le frequenti siccità degli anni Settanta, quando la maggior parte degli Stati saheliani aveva da poco ottenuto l’indipendenza, e dei decenni seguenti.
Così, dove una volta sorgevano alcuni dei più ricchi e importanti regni e imperi africani, oggi si trovano molti degli ultimi Paesi al mondo in termini di sviluppo umano. Territori segnati, ricordano gli autori, «da impoverimento e crisi ambientali», fenomeni «accompagnati e talvolta indotti da cattivi governi, tutti fattori che favoriscono destabilizzazione e caos, le cui conseguenze sono migrazioni, traffici illeciti e terrorismo». Ma queste vicende, per quanto tragiche, non sono che gli ultimi anelli di una lunga catena di eventi, e concentrarsi solo su di esse equivale a usare una lente deformante che compromette l’informazione. Il libro ha invece il grande merito di rendere dignità alla storia del Sahel, ricostruendola con dovizia di particolari senza mai perdere di vista l’accessibilità della lettura. Determinante in questo senso la complementarietà dei profili dei due autori – Marco Aime è antropologo e Andrea de Georgio giornalista freelance – che consente di documentare tanto il lontano passato quanto la stretta attualità della regione. Da segnalare anche la cura con cui gli autori sottolineano l’influenza dei fattori climatici e ambientali sullo sviluppo delle società saheliane.
Di grande interesse è l’organizzazione dei contenuti del libro, divisi in cinque aree tematiche rappresentate da altrettanti capitoli. Il primo, La terra, descrive l’impatto dei cambiamenti climatici sul Sahel, le strategie di adattamento delle popolazioni locali e la difficile convivenza tra allevatori e coltivatori, segnata da scontri che, negli ultimi vent’anni, sono degenerati in violenze atroci man mano che gli Stati e le autorità tradizionali perdevano legittimità e aumentavano tanto le infiltrazioni jihadiste quanto la proliferazione di armi da guerra a prezzi stracciati. Il secondo, L’acqua, si occupa del lago Ciad e del fiume Niger, fonti idriche di enorme importanza ecologica, economica e sociale e che oggi risultano, purtroppo, fortemente degradate e inquinate. Il terzo, Il libro, presenta le peculiarità dell’islamizzazione del Sahel, che vanno dalla lunga coesistenza con le religioni tradizionali alla nascita di importanti biblioteche nelle principali città carovaniere, e dalla diffusione delle confraternite sufi alla «penetrazione di un islam wahabita di esportazione saudita». Il quarto, La frontiera, illustra i legami intercorsi nei secoli tra il Sahel e il resto del mondo attraverso commerci di ogni tipo, da quelli di oro, avorio e schiavi nel Medioevo, fino ai traffici contemporanei di droga, armi ed esseri umani. Il quinto, La città, affronta i temi della demografia e dello sviluppo urbano, analizzando passato e presente di città quali Timbuctu, Bamako e Dakar.
Aime e de Georgio concludono il loro breve ma avvincente racconto con un’amara constatazione: quando si rievoca troppo spesso il fiorente remoto passato del Sahel, vuol dire che il presente non promette nulla di buono. La regione è infatti sconvolta dalla crisi climatica ed ecologica che causa ondate di calore e inondazioni, dall’insicurezza alimentare, dalla violenza interetnica e jihadista e dall’irresponsabilità di governi locali che vendono risorse chiave, come l’uranio nigerino, senza allo stesso tempo avviare autentiche politiche di sviluppo, e anzi escludendo i giovani dalla politica. L’OCHA, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa del coordinamento degli affari umanitari, stima che soltanto in Burkina Faso, Mali e Niger occidentale vi siano oltre 13 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria, e oltre un milione di sfollati interni. Numerosi Paesi occidentali – in particolare Francia, Stati Uniti, Germania, Spagna e Italia – hanno rafforzato il loro intervento nel Sahel, inviando truppe e aprendo nuove sedi diplomatiche in nome della lotta al terrorismo internazionale e del controllo dei flussi migratori. Questo sforzo, tuttavia, non si è tradotto in una stabilizzazione della regione, che anzi rischia di trasformarsi in «un nuovo Afghanistan», «un groviglio di crisi da cui sembra sempre più difficile uscire». A rendere ancora più complicata la situazione è la crescente presenza militare e commerciale di potenze non occidentali quali Cina, Russia e Turchia.
Gli autori hanno giustamente inserito nel titolo del libro l’espressione “il grande gioco”, popolarizzata da Rudyard Kipling e resa ulteriormente celebre dall’opera di Peter Hopkirk (Il Grande Gioco. I servizi segreti in Asia centrale, Adelphi). Come l’Asia centrale ottocentesca, così il Sahel contemporaneo è una zona di frontiera dove si gioca «una difficile e violenta partita a scacchi» tra una moltitudine di attori di varia natura. Sfortunatamente, il pubblico italiano è stato abituato a disconoscere tale complessità e a far caso a questa regione soltanto in occasione di attentati o rapimenti che coinvolgono cittadini occidentali, o quando si assiste ad un picco negli arrivi via mare dei migranti, con un’interpretazione stereotipata degli eventi che in breve tempo lascia spazio al disinteresse. Il grande gioco del Sahel rappresenta un prezioso antidoto a questi comportamenti comodi ma sbagliati, e ci ricorda quanto la storia del Sahel, e dell’Africa subsahariana in generale, siano inestricabilmente legati a quella del resto del mondo. Come ha scritto lo storico, antropologo e fisico senegalese Cheikh Anta Diop (1923-1986): «Non abbiamo avuto lo stesso passato, voi e noi, ma avremo necessariamente lo stesso futuro». Oggi – gli fanno eco Aime e de Georgio – «quel futuro comune è arrivato».