“Il lavoro del futuro” a cura di Pier Giorgio Ardeni e Maurizio Morini
, - 02 Marzo 2020

“Il lavoro del futuro” a cura di Pier Giorgio Ardeni e Maurizio Morini

Recensione: (a cura di) Pier Giorgio Ardeni e Maurizio Morini, Il lavoro del futuro nell’industria a Bologna e in Emilia-Romagna. Soppiantati dai robot che produciamo o destinati a una nuova proposta di valore?, Edizioni Pendragon, Bologna 2019, pp. 163, euro 28 (scheda libro)

Scritto da Lorenzo Cattani

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Nella cultura americana è presente una figura particolare, a cui è legato un mito: John Henry. Su di lui è stata scritta una canzone interpretata da moltissimi artisti (Woody Guthrie, Pete Seeger, Johnny Cash e Bruce Springsteen). La leggenda narra che durante i lavori di posa dei binari nel tunnel della Big Bend Mountain, di fronte alla possibilità di usare una perforatrice a vapore, venne organizzata una gara fra la macchina e il migliore degli operai – John Henry appunto – per vedere chi riuscisse a lavorare meglio fra l’uomo e la macchina. John Henry vincerà questa gara a costo della sua vita. Questa storia mostra come il tema dell’automazione e dei rischi che comporta in relazione al lavoro umano, sia probabilmente vecchio quanto il capitalismo stesso. Non è certamente una novità che ad ogni successiva “tornata” di innovazioni ci si ponga il problema del possibile effetto di queste ultime in termini di sostituzione del lavoro umano. Ciononostante, si tratta di un tema che, per quanto classico, mantiene un enorme interesse e merita di essere indagato approfonditamente.

Il volume “Il lavoro del futuro nell’industria a Bologna e in Emilia-Romagna. Soppiantati dai robot che produciamo o destinati a una nuova proposta di valore?”, edito da Pendragon e curato da Pier Giorgio Ardeni e Maurizio Morini, si inserisce in questa riflessione con una serie di contributi che mettono al centro dell’analisi l’economia dell’Emilia-Romagna e, più in particolare della provincia di Bologna. Il volume include contributi di tipo sia quantitativo che qualitativo. In questa recensione ci si focalizzerà in particolare su due argomenti presenti nel volume: da un lato la riflessione generale sulle conseguenze dell’automazione e le necessarie risposte da parte di aziende e Stati e, dall’altro, entrando nello specifico, il case study del Gruppo Bonfiglioli, azienda bolognese che sta portando avanti un ambizioso programma di re-skill.

Automazione e competenze

I rischi dell’automazione, che nel rapporto vengono analizzati approfonditamente nel capitolo a cura di Andrea Gentili, pongono dei problemi molto importanti nel quadro delle più generali riflessioni sullo sviluppo tecnologico ed economico. Gentili ricorda infatti che, quando si affrontano questi rischi si tende a parlare di un gruppo di “sconfitti” che si forma nei processi di cambiamento tecnologico, ed è infatti «all’interno di questa dicotomia tra benefici collettivi di medio e lungo periodo e costi immediati per gruppi specifici che si dipana la problematica per il policy maker e per il sistema economico in generale».

In un simile scenario sarebbe infatti utile ricordare il lavoro di Karl Polanyi, il quale sottolineava come i principali costi del cambiamento non siano da individuare in primo luogo nella sfera economica, ma in quella sociale. La rottura dei legami e l’impatto negativo che il cambiamento tecnologico può avere sulle comunità non va mai sottovalutato. Non è difatti un caso che Gentili nel suo capitolo parli di una paura atavica dell’automazione, così come non è casuale che, secondo il Pew Research Centre, il 58% degli americani pensi che debbano essere posti dei limiti alle occupazioni in cui il lavoro umano possa essere sostituito dai robot.

Una preoccupazione che sembra trovare conferme se si vanno ad osservare le caratteristiche del cambiamento tecnologico che ci coinvolgerà nei prossimi dieci anni. Se, infatti, in passato alle diverse classi di lavori che venivano sostituiti dalle macchine ne corrispondevano numerose altre nuove, oggi vi è il rischio che, per via dell’ampia gamma di funzioni che un robot può svolgere, l’automazione abbia una portata molto superiore. L’esito sarebbe quello di trovarsi di fronte ad una «useless working class», come la definisce Gentili, molto più numerosa rispetto alle precedenti tornate di cambiamento tecnologico.

Da questo punto di vista sono molto preoccupanti le analogie con la crisi del 1929. In quel caso, l’aumento della produttività in un settore dove la domanda è inelastica come quello agricolo aveva comportato alti tassi di disoccupazione, che non erano stati assorbiti dall’industria per via di una bolla immobiliare che rendeva più complicato lo spostamento verso i centri urbani. Il rischio che oggi abbiamo di fronte con l’automazione è analogo, ovvero il dislocamento di “intere categorie lavorative” grazie alla capacità dei robot di aumentare la propria produttività. Di fronte a questa prospettiva si pone il problema enorme del ricollocamento dei lavoratori le cui competenze saranno più a rischio di essere sostituite dai robot come conseguenza del processo di automazione. Come afferma Gentili, sarebbe ingenuo pensare che la soluzione potesse essere ricercata solo nel training e nel re-training, perché le barriere in termini di competenze fra settori produttivi sono molto più alte rispetto alle barriere alla mobilità del lavoro. Formare intere coorti di lavoratori coll’acquisizione di competenze necessarie per ricollocarsi in nuovi lavori richiede tempo e nel frattempo le conseguenze dell’automazione nel medio periodo potrebbero farsi sentire.

Nel rapporto vengono forniti molti dati interessanti, che mostrano come all’interno del 60% delle professioni attuali vi sia un 30% di attività che possono essere automatizzate. Nonostante le occupazioni completamente automatizzabili siano meno del 5%, appare chiaro come nel prossimo decennio assisteremo a cambiamenti significativi e potenzialmente molto radicali a seguito dell’automazione. Come accennato in precedenza, il cambiamento tecnologico a cui stiamo andando incontro ha il potenziale per sostituire competenze anche molto avanzate, tuttavia nel medio periodo è prevedibile che saranno le competenze più basilari ad essere sostituite dai robot. I dati OECD, forniti dal rapporto, sembrano infatti mostrare che le competenze di livello basso e medio saranno maggiormente colpite dalla sostituzione con le macchine.

I lavoratori che svolgono mansioni ripetitive e di routine saranno i gruppi più esposti alla sostituzione con i robot. Nei prossimi 10 anni invece le competenze “alte” dovrebbero ancora essere relativamente “protette” dal rischio di sostituzione, anche se come già affermato il potenziale del processo di automazione in questo particolare momento potrà sostituire anche quelle nel lungo periodo.

Quali sono quindi le competenze del futuro? Si parla principalmente di soft skills e capacità di problem solving che andranno ad integrare le competenze tecniche. In generale, la forza lavoro dei prossimi anni dovrà essere preparata su competenze di ICT e marketing unitamente alla famiglia delle competenze STEAM (Science – Technology – Engineering – Art – Mathematics).

Tutto ciò comporta due problemi, uno generale e uno specifico per l’Italia. In primo luogo, bisogna affrontare il grande problema della formazione di quei lavoratori adulti che saranno ancora occupati quando si osserveranno già le conseguenze del cambiamento tecnologico. La questione non riguarda solo il fatto che il re-skilling è qualcosa che richiede tempo, ma anche che la sua implementazione presenta diversi gradi di complessità a seconda delle classi d’età. In questo senso si pone il problema molto serio di come la formazione di queste nuove competenze si incroci con una dinamica strutturale che vede una forza lavoro tendenzialmente più anziana di prima. In secondo luogo, le “competenze del futuro” attengono ad ambiti in cui il sistema Italia appare strutturalmente arretrato rispetto agli altri principali paesi. Come afferma Gentili «Se si va ad evidenziare la disponibilità di competenze nei settori industriali […] l’Italia si posiziona infatti all’ultimo posto per otto volte, di cui in ben quattro settori industriali per competenze STEAM. Fra esse la manifattura leggera. L’arretratezza strutturale in termini di competenze dei lavoratori si traduce poi in una transizione verso servizi a bassa intensità di conoscenza, scarsa crescita di sistema e stagnazione della domanda interna».

In questo scenario internazionale l’Emilia-Romagna, e più specificamente Bologna, performa nettamente meglio rispetto alla media nazionale in termini di offerta di competenze, tuttavia come evidenziano Gentili e Arcelli nel rapporto, è molto lontana dai “top performer” europei. Questo è in continuità con quello che Giuseppe Berta ha affermato recentemente sullo stato delle “locomotive d’Italia”. Va inoltre detto che, il grado transizione tecnologica non si misura solo sulle competenze, ma anche sulla nascita di nuovi business e nuove aziende. Il cambiamento tecnologico e l’automazione possono portare molti lavoratori a transitare in settori a basso contenuto conoscitivo, con conseguenti difficoltà nel rilanciare la domanda aggregata. È abbastanza chiaro il caso della piccola distribuzione, dove molti lavoratori si sono “rifugiati” durante la crisi economica, spesso aprendo attività in proprio. In questo scenario specifico si aggiungono le difficoltà nate dalla concorrenza con la grande distribuzione. Come affermava Schumpeter, le insidie più grandi per un negozio non nascono dalla competizione con i tanti altri piccoli negozi ma dall’apertura del supermercato nello stesso territorio. In conclusione, per quanto il territorio bolognese ed emiliano-romagnolo in generale performi meglio rispetto alla media nazionale, sarebbe terribilmente sbagliato pensare che tale performance possa raggiungere i livelli delle altre locomotive d’Europa senza passare da un profondo ripensamento di tutto il sistema paese.

Il digital re-training di Bonfiglioli Riduttori

Nella sezione qualitativa del rapporto viene illustrato uno studio di caso di grande rilevanza per questi temi: il re-skill implementato presso il gruppo Bonfiglioli. In questo momento il gruppo sta pianificando la costruzione del nuovo stabilimento EVO, in cui verranno utilizzati macchinari di ultima generazione che introdurranno massicciamente le nuove tecnologie dentro allo stabilimento. Partendo da questa considerazione, l’azienda si è immediatamente posta il problema delle conseguenze che il cambiamento avrebbe comportato per i lavoratori e ha deciso di giocare d’anticipo. Il capitolo a cura di Silvia Colotti illustra molto dettagliatamente il modo in cui il gruppo Bonfiglioli si è mosso. Il processo che ha portato all’implementazione del programma di digital re-training ha seguito quattro fasi introduttive: Identificazione delle necessità e dei bisogni di sviluppo, coerentemente con gli obiettivi aziendali; mappatura delle tecnologie; definizione dei ruoli aziendali che sarebbero stati coinvolti nel programma (nello specifico conduttore, manutentore, planner e tecnologo); identificazione dei cosiddetti “gap 4.0”, ovvero le «necessità di sviluppo delle persone, in termini di contenuti e nuove modalità di lavoro». Come afferma Collotti, è ad esempio emersa subito la necessità di rafforzare le competenze di analisi dei dati e «di consapevolezza nelle scelte basate sui numeri a tutti i livelli dell’organizzazione».

Da questa fase introduttiva si approda poi al programma di formazione, di cui uno degli elementi più interessanti è il focus non solo su competenze tecniche, ma anche culturali e di mindset di cui il lavoratore deve dotarsi. La formazione si è strutturata in parte con lezioni in aula, in parte con apprendimento “on the job” e anche tramite una campagna di on-boarding mirata al confronto sia con i lavoratori che hanno partecipato alla formazione che a tutti gli altri. Il progetto pilota di digital re-training sfocia nella “Manufacturing Excellence Academy 4.0”, che estende la formazione digitale a tutti i lavoratori del nuovo stabilimento.

Conclusioni 

L’esperienza del Gruppo Bonfiglioli è indubbiamente un caso di studio di grande importanza per capire come si possano elaborare e implementare delle misure volte all’adattamento delle competenze per permettere alle persone di non “subire il cambiamento tecnologico”. Tuttavia va detto che tutto ciò non sarebbe stato possibile se non vi fosse stata la volontà del Presidente Sonia Bonfiglioli di non trascurare il lavoro umano, un concetto che Bonfiglioli ha espresso parlando di “manofattura”. La cultura aziendale rischia di essere la determinante principale delle strategie che le imprese dispiegheranno nel gestire il cambiamento tecnologico. Ad alcuni casi virtuosi che investono su ambiziosi e innovativi programmi di formazione fa da contraltare l’altra faccia della medaglia, quei luoghi nei quali il cambiamento tecnologico viene perseguito senza interessarsi delle sue conseguenze. È sufficiente pensare al funzionamento della gig economy. Va infatti sottolineato come sia fondamentale parlare non solo di best practice ma anche di tutti quei casi nei quali gli investimenti discussi fino ad ora non vengono fatti. Capire perché le aziende non investano sulla formazione della forza lavoro o siano meno interessante a valorizzare il lavoro umano è altrettanto importante. Il rischio è quello di concentrarsi su un gruppo selezionato di casi, senza comprendere quali fossero le condizioni preesistenti che hanno portato a investimenti virtuosi come nel caso del Gruppo Bonfiglioli.

La gestione di cambiamenti strutturali come questi non può essere quindi lasciata alla sola competenza del sistema imprenditoriale, poiché in questo caso si osserverà una eterogeneità nelle risposte alle sfide poste dalla digitalizzazione e dall’automazione. È proprio in questo contesto che servirà una risposta da parte dello Stato, tramite politiche industriali e di innovazione che puntino a indirizzare le strategie aziendali. Lo Stato non dovrà solo scegliere “chi vince e chi perde” relativamente ai settori produttivi su cui investire, ma anche sulle strategie “organizzative” da adottare per la formazione della forza lavoro. È quindi fondamentale costruire un circolo virtuoso fra Stato e Mercato attorno a temi quali la politica industriale, la ricerca e l’istruzione.

In questo senso il rapporto solleva una serie di questioni di estrema importanza circa il ruolo della scuola, un’istituzione che troppo spesso viene ciecamente indicata come possibile “panacea” di tutti i mali e a cui vengono attribuiti troppi doveri. Il rapporto fra scuola, università, ricerca e mercato del lavoro va ripensato. Innanzitutto, non si può pensare che il compito di scuole e università sia quello di formare “lavoratori pronti all’uso”, come vengono definiti da Gentili e Arcelli. I rapporti tra le aziende e le scuole vanno rafforzati, ma ciò va fatto in un’ottica dove la formazione di competenze specifiche dovrà essere condotta una volta assunti in azienda. Va anche aggiunto che, come afferma Mariana Mazzucato, innovazione significa immaginare qualcosa di cui non vi è bisogno nel presente. Questo discorso può tranquillamente valere per il tipo di competenze formate e il mondo dell’istruzione e della ricerca può contribuire positivamente nel formare studenti che, entrando sul mercato del lavoro, pur non avendo certe competenze specifiche ne avranno altre che non sarebbero acquisibili nel contesto aziendale.

L’ultima osservazione va infine fatta sulle politiche. Gli sviluppi dei prossimi vent’anni non possono che passare da una riflessione sul futuro del Welfare State, della protezione sociale e delle politiche del lavoro. Il “doppio movimento” polanyiano è più che mai necessario per garantire una transizione tecnologica meno traumatica. Non si deve, in definitiva, commettere l’errore di ignorare quali conseguenze politiche e sociali possa scatenare un cambiamento totalmente incontrollato del mercato del lavoro.

Scritto da
Lorenzo Cattani

Assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna dove ha conseguito un dottorato di ricerca in Sociologia e ricerca sociale. Ha frequentato un Master in Human Resources and Organization alla Bologna Business School (BBS) e conseguito la laurea magistrale in Scienze internazionali e diplomatiche all’Università di Bologna.

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