Recensione a: Alessandro Aresu e Marco Meloni (a cura di), Il manager intellettuale. L’eredità di Alessandro Pansa, il Mulino /AREL, Bologna 2021, pp. 156, euro 15 (scheda libro)
Scritto da Giacomo Centanaro
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Ci sono molti modi per dire ciò che un uomo è stato, ciò che ha rappresentato per gli altri e ciò che la sua esperienza incarnava ai suoi stessi occhi. La dimensione personale del racconto di chi lo ha conosciuto può affiancarsi al resoconto delle sue riflessioni ed esperienze e, soprattutto, all’esposizione delle idee che animavano le sue azioni. Tutti questi aspetti costituiscono l’eredità che una persona lascia a chi vorrà continuare a dialogare con lei.
Il manager intellettuale, edito da il Mulino e curato da Alessandro Aresu e Marco Meloni, nasce dalla volontà di tributare un omaggio alla figura di Alessandro Pansa (1962-2017) da parte di una nutrita ed eterogenea comunità di persone, unite dall’aver avuto la possibilità di apprezzarne le qualità umane, professionali e intellettuali. Le entità che hanno promosso e contribuito alla pubblicazione dell’opera (Scuola di Politiche, AREL – Agenzia di Ricerche e Legislazione, Limes – Rivista italiana di geopolitica, Fondazione Bruno Kessler e Fondazione Cariplo) riflettono per natura, finalità e campi di interesse, tutte le dimensioni in cui Pansa ha mosso i suoi passi: quella dello studio, quella della pratica e della messa in atto e quella della divulgazione e dell’insegnamento. Un’eredità che ha trovato spazio anche nell’istituzione del Premio Alessandro Pansa, promosso dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, dall’università LUISS “Guido Carli” e dalla Scuola di Politiche – realtà cui Pansa aveva dedicato tante energie – e sostenuto da Leonardo Spa.
La dimensione del dialogo, per Pansa, è stata mezzo e fine di una vita, nelle sue dimensioni personale e professionale. Lo si comprende, ad esempio, se si considerano le complesse operazioni di finanza straordinaria, di riassetto e ristrutturazione di grandi società di Stato (Enel, Finmeccanica, Poste) dove, come ricorda Dario Scannapieco: «non c’era azienda da rimettere in sesto in cui Alessandro non venisse coinvolto, proprio perché gli veniva riconosciuta la grande capacità di mettere insieme aspetti finanziari, industriali e valutazioni politiche. […] bisognava curare i primi due aspetti, cercando di mitigare l’impatto politico. Alessandro aveva questa sensibilità e capiva che cosa andava dismesso, cosa andava tenuto e che cosa poteva essere strategico per il Paese nel futuro». Alcuni episodi ricordati del libro permettono di apprezzare la forza dialettica di Pansa quando ad essere dibattute erano le necessità del Paese. Significativa è, ad esempio, la discussione ricordata da Maria Chiara Carrozza, avvenuta durante una cena all’Ambasciata d’Italia a Parigi: «ci mettemmo a discutere ancora una volta del liceo classico e del liceo scientifico, con grande imbarazzo dell’Ambasciatore, anche perché una discussione così animata tra un ministro dell’Istruzione e l’amministratore delegato di Finmeccanica forse poteva risultare strana».
Se il titolo del libro – Il manager intellettuale – riprende le due principali vesti in cui Pansa ebbe modo di agire – contemporaneamente, fino alla fine –, il sottotitolo evoca l’obiettivo della raccolta di contributi: “l’eredità” di Pansa viene considerata dai numerosi e autorevoli autori come un corpo di riflessioni da rileggere di fronte agli scenari che, a pochi anni dalla sua scomparsa, continuano a evolvere rapidamente, dando ulteriore risalto agli interrogativi affrontati da Pansa. «Il futuro da cui è giunto il pensiero di Alessandro Pansa è quello di due anime che vivono nello stesso petto: l’anima dell’uomo del pensiero e quella dell’uomo del fare. È un futuro apparentemente inattuale» (p. 42), così Aresu inizia il suo contributo, introduttivo alla sezione composta da una scelta di articoli di Pansa. La grande poliedricità delle pubblicazioni di Pansa ne rivela la qualità della riflessione intellettuale, capace di disarticolare la complessità dei fenomeni e cogliere con finezza i punti di contatto tra le diverse dimensioni in cui le azioni delle entità politiche erano chiamate a esercitare – o recuperare – il proprio ruolo. Oggetto delle sue analisi erano fenomeni che spesso vengono trattati con rigidi approcci dicotomici – dimostratisi spesso desueti alla prova della realtà: pubblico-privato, civile-militare, mondo economico-finanziario e dimensione politica – ma che Pansa affrontava sapendo cogliere le sfumature decisive per comprendere la realtà, ben conscio che il diavolo sta nei dettagli.
Qual è il giusto rapporto tra economia e finanza? Ha senso un’assoluta e immutata neutralità delle autorità pubbliche verso la concorrenza in settori dal valore economico, tecnologico e di sicurezza radicalmente diversi tra loro? Come affrontare le sfide poste dal progresso tecnologico? Come valorizzarlo? Come può essere a servizio del benessere del Paese?
Nel rispondere a questi dilemmi Pansa riprendeva la profondità storica della materia, avvalendosi delle riflessioni dei padri della scienza economica, interrogandoli a partire da scenari, tendenze e necessità contemporanei. Nel leggere le riflessioni di Pansa non si può fare a meno di cogliere come in esse fosse all’opera quella “cultura enciclopedica” che le tante firme del volume gli hanno riconosciuto.
Non cogliere i nuovi paradigmi tecnologici significa condannarsi a essere utenti passivi dei nuovi prodotti, senza poter contribuire allo sviluppo e all’orientamento dei nuovi mercati, rinunciando a collocare la propria struttura industriale su nuovi campi di gioco. Come duro monito alla classe imprenditoriale italiana Pansa usò sulle pagine di Limes la vicenda dei Buddenbrook narrata da Thomas Mann, un affresco delle vicende di una ricca famiglia di mercanti tedeschi di fine Ottocento, le cui capacità imprenditoriali determinarono una rapida ascesa ma i cui stessi limiti e preclusioni portarono all’irreversibile caduta. Pansa individuò i sintomi delle strutturali difficoltà del sistema Italia nella quota di commercio mondiale sempre più ridotta del Paese, nel numero ristretto di grandi asset industriali con capacità di proiezione internazionale e nella mancata elaborazione di una politica industriale di lungo periodo, cosa che invece Francia, Germania e, a modo suo, Regno Unito hanno fatto. L’Italia ha sviluppato invece un processo di deindustrializzazione e disinvestimento, «ostacolando ripetutamente la creazione di grandi imprese in settori strategici».
Pansa adduce tre cause per queste tendenze: «lo scarso interesse culturale per lo sviluppo e la funzione dell’impresa», «una mancanza di visione da parte della nostra classe imprenditoriale: […] la ricchezza degli imprenditori italiani è superiore al patrimonio netto delle loro aziende» e infine il mancato «l’adeguamento delle strutture tecnologiche e di conoscenza delle aziende» (p. 56). Quest’ultimo fatto ha determinato l’incapacità da parte delle aziende italiane di essere agenti attivi nel paradigma tecnologico della microelettronica, determinando un gap ormai non più colmabile: «l’ammontare di tecnologia contenuta nei prodotti italiani ha iniziato a calare […] Il risultato è che il sistema industriale italiano ha difficoltà a trarre vantaggio da una crescita della domanda» (p. 56). Il tema dei brevetti e della loro regolamentazione in ogni Stato per Pansa era in questo scenario determinante sui “flussi” di tecnologia e sui conflitti per il controllo di essa. Riforme di legge sui brevetti apparentemente confinate in una dimensione tecnico-burocratica di difficile penetrazione rivelano invece, secondo Pansa, un forte legame tra la capacità tecnologica e i rapporti di forza internazionali: come ricorda Aresu, «Pansa legge la storia delle relazioni internazionali in stretto rapporto con la dinamica dello sviluppo tecnologico, e in particolare con i paradigmi principali, le cosiddette general purpose technologies (GPT): macchina a vapore, motore a scoppio, energia elettrica, petrolchimica, microelettronica e sua integrazione con le telecomunicazioni» (p. 43). Dell’attuale paradigma tecnologico Pansa individua la specificità dei rendimenti di scala, che invece di essere decrescenti come per tutti i paradigmi precedenti – cosa che ha sempre garantito la nascita di mercati concorrenziali – «appaiono in grado di garantire al capitale rendimenti di scala crescenti, evento rivoluzionario nella storia dell’industria» (p. 99).
Pansa portò sempre avanti una profonda riflessione sul ruolo della finanza nello sviluppo, nella sicurezza e nella posizione a livello internazionale dell’Occidente. Una riflessione che coinvolgeva Pansa non solo a livello scientifico ma anche personale, convinto com’era dell’esistenza di una specificità della comunità occidentale di cui si doveva andare fieri: una vasta, dinamica, influente classe media, che – in un ruolo quasi assegnatole dalla Storia – incarnava l’idea democratica e il progresso civile ed economico del mondo occidentale, «vera cifra distintiva delle società capitalistiche avanzate» (p. 69). Come ricorda Lucio Caracciolo: «aveva un profondo sentimento, un’appartenenza al mondo democratico occidentale di cui riconosceva una crisi non tanto economica, quanto culturale, politica e geopolitica, nel senso più ampio del termine» (p. 25). Per le classi politiche occidentali è imperativo, nell’idea di Pansa, difendere la classe media dalla crescente polarizzazione della società, lungo la frattura della disuguaglianza, in vinti e vincitori. Dalla capacità di garantire e difendere il tratto distintivo della mobilità sociale, simbolo del progresso moderno, deriva la tenuta dei Paesi democratici.
Il problema di un “deficit democratico” si avverte anche nelle dinamiche finanziarie che condizionano le politiche economiche e fiscali di governi rappresentanti della sovranità popolare, costretti a seguire determinate scelte – anche socialmente dolorose – per avere la possibilità di accedere a un sufficiente credito e perseguire politiche di sviluppo concreto. Anche qui, il tema della politica industriale è sempre centrale nel pensiero di Pansa, che notava con preoccupazione come nel 2015 il valore delle attività finanziarie mondiali avesse raggiunto, alla fine di quell’anno, 741 trilioni di dollari – di cui solo 249 trilioni era costituito da attività riferibili alla produzione di beni e servizi, il resto era rappresentato da strumenti derivati – mentre il prodotto interno lordo mondiale ammontava a 77 trilioni.
Tra le lezioni che Alessandro Pansa ci consegna vi è l’impulso a comprendere senza preclusioni e posizioni fideistiche la finanza e i suoi meccanismi. Le analisi della realtà economico-finanziaria non devono tralasciare la comprensione delle dinamiche competitive e conflittuali tra Stati, poiché le caratteristiche del sistema finanziario internazionale limitano sì la capacità degli Stati, ma sono esse stesse teatro di guerre finanziarie, cui sono sottese logiche politiche e che riflettono gerarchie di potere «per controllare l’altra metà del mondo, quello finanziario, che oggi, com’è noto, è più grande di 8,7 volte di quello reale e ne definisce le condizioni di operatività» (p. 80). Potremmo rifarci, in questo senso, all’opera di Marcello De Cecco Moneta e impero. Aggiungendo un accento, il titolo risulterebbe più perentorio ma non perderebbe il suo senso: moneta è impero[1]; questo aspetto era riconosciuto con estrema finezza da Pansa, che analizzava nel dettaglio le caratteristiche dei protagonisti – fossero questi Stati o intermediari finanziari – e quali conseguenze e intuizioni potevano derivare anche dagli aspetti più tecnici dell’evoluzione delle tecnologie finanziarie e dalle loro regolamentazioni.
La dimensione finanziaria ha ovvie ricadute a livello di strategie internazionali per Pansa, come dimostrato dal suo giudizio sulla situazione europea: «l’Europa, a causa della crisi importata dagli Stati Uniti – e della conseguente, necessaria politica di rigore […] – per parecchio tempo ha perso le risorse necessarie per condurre una politica estera, che si fa con le armi o con i soldi» (p. 93), la prima opzione però è preclusa e la seconda, che implicherebbe anche una “politica estera industriale”, resa impossibile dalla necessità di riequilibrare i conti interni di Paesi fragili.
Il volume si chiude con una sezione dal titolo Alessandro Pansa: L’etica del lavoro del manager intellettuale che racchiude i ricordi commossi di diversi autori[2] (tra cui Alessandro Profumo, Nando dalla Chiesa, Carlo Feltrinelli e il suo mentore Guido Roberto Vitale), incentrati sulla dimensione personale del loro rapporto con Alessandro Pansa. Quello che il lettore avvertirà è un unanime riconoscimento dell’etica inflessibile che accompagnava sempre l’agire di Pansa, anche durante l’incarico più “politico” della sua carriera, come amministratore delegato di Finmeccanica (febbraio 2013 – maggio 2014). In un delicato momento di passaggio politico, tentò di preservare la dimensione e la dignità tecnica del suo ruolo, rendendosi impermeabile ai flussi di potere che negli ultimi mesi del suo mandato – bruscamente interrotto – stavano rapidamente cambiando. La passione civile, dal volontariato in Irpinia dopo il catastrofico terremoto al sostegno attivo e disinteressato a progetti di formazione dei giovani studenti, ha sempre rappresentato per lui una dimensione importante, da affiancare alle sue doti professionali e negoziali. Questo aspetto è restituito da Caracciolo, che ha definito Pansa come «rappresentante di una classe dirigente che ha vissuto la dimensione civile del suo tempo», e da Aresu, che colloca la sua figura nel solco dei grandi, dinamici e colti manager pubblici del Novecento, una dinastia informale di figure che hanno segnato lo sviluppo e la crescita dell’Italia.
Oltre al grande apporto intellettuale – che sfidava i luoghi comuni, come quelli sulla fine o sulla sopraggiunta inutilità dello Stato come attore economico e regolatore –, l’eredità di Pansa è rappresentata anche da ciò che Enrico Letta ricorda come «la capacità, perfino il divertimento, di solleticare il “pensiero divergente” per uscire dal conformismo spesso asfittico del dibattito pubblico italiano» (p. 37). Una capacità che prendeva la forma di una «straripante foga dialettica» e che sicuramente sarebbe utile strumento per comprendere i complessi dilemmi di governance dei fenomeni attuali, che devono tenere conto di dimensioni ed esigenze diverse. Le sfide poste lungo il cammino di una strategia industriale ed economica italiana – ma anche di posizionamento globale – che Pansa individuava sono tuttora presenti e, anzi, sembrano vedere crescere il numero di variabili e quindi la complessità. In conclusione – anche come monito per l’oggi – si può ricordare quanto Pansa scriveva nell’agosto 2014 sul Corriere della Sera, avanzando una strategia industriale: «Tutto perduto dunque? Niente affatto».
[1] A tale proposito si può ricordare l’introduzione di Alfredo Gigliobianco al volume: «La moneta (anche quella metallica) esiste in quanto poggia su un potere, e ogni regime monetario creato nella storia ha servito gli interessi di un gruppo dominante, nazionale o internazionale, che quel potere ha esercitato».
[2] Franco Amatori, Umberto Ambrosoli, Francesco Ciro Bonzio, Salvatore Bragantini, Filippo Bruno, Marco Costaguta, Nando dalla Chiesa, Carlo Feltrinelli, Marco Ferrari, Monica Gattini Bernabò, Roberto Maglione, Alessandro Profumo, Stefano Speroni, Massimiliano Tarantino, Guido Roberto Vitale.
Crediti immagine: Alessandro Pansa – AREL. Agenzia di Ricerche e Legislazione